Tutti i racconti

di

Roberto Graffi


Roberto Graffi - Tutti i racconti
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
14x20,5 - pp. 140 - Euro 13,00
ISBN 978-88-6587-0938

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In copertina e all’interno fotografie dell’autore


Prefazione

L’opera di Roberto Graffi comprende dieci racconti che rappresentano lo specchio fedele della sua visione esistenziale che si alimenta della capacità di raccontare le diverse realtà della vita: senza inutili parole, senza orpelli, ma cercando sempre di andare al cuore delle emozioni dell’essere umano.
Nelle narrazioni di Roberto Graffi, la vita palpita seguendo il ritmo essenziale e, con gran forza, diventa la fonte stessa alla quale attingere per riportare alla luce storie di vita quotidiana, rapporti matrimoniali e profonde relazioni d’amore, sincere amicizie, ricordi e memorie del bel tempo andato e, infine, vicende legate alla terra di Sicilia: seguendo, sovente, il filo conduttore sotterraneo che riconduce alla fede in Dio, all’anelito di speranza per le occasioni della vita.
Sono appunto le famose “occasioni della vita” che sprigionano le loro potenzialità e tutto ciò che Roberto Graffi alimenta con la sua narrazione, si compie in forma così potente e consapevole che la visione individuale si eleva ad una dimensione universale.
Le profonde esperienze soggettive riescono a raggiungere la sostanza stessa della vita, dell’umano vivere, tra forza d’animo e fragilità dell’essere, fra limitante finitudine dell’Uomo e l’esperienza spirituale, tra fede e destino, in un alternarsi continuo fino all’esito finale che può anche sorprendere.
È come se il passato si attualizzasse e la passione narrativa traesse linfa dalla terra stessa dove si sono svolte le vicende raccontate, dove le persone, “ricordate” nelle diverse storie, si sono incontrate, conosciute, amate e lasciate: le fragilità, le aspettative, i sogni d’amore, le contraddizioni e le inquietudini, i gesti d’amore e i tradimenti, si miscelano come a creare una “sostanza primigenia” che contenga tutti gli ingredienti della vita stessa.
E se tali vicende fossero anche solo frutto della fantasia, ciò non intaccherebbe quel lirismo che si confonde con la vita, quella trasfigurazione che porta all’incanto davanti all’esistenza, quel desiderio d’incontro fiducioso con il prossimo, quella fusione tra recupero memoriale e cruda realtà.
Ecco allora che tutto ciò che viene raccontato, con una sorta di discrezione e pudore, non è altro che il brivido della vita con le sue molteplici manifestazioni che vengono osservate, vissute, scandagliate e meditate con profonde riflessioni.
I racconti di Roberto Graffi narrano l’umano esistere e parlano all’Uomo: ritroviamo la fine dell’amore dopo il matrimonio che aveva visto “giorni felici”, ma anche il tradimento della donna amata; la struggente vicenda esistenziale dello scrittore Bino che lascerà tutti i suoi romanzi all’amico fedele; la storia di due famiglie che vivono nel paese di S. Teresa di Riva, vicino a Messina, che accomuna l’amore profondo tra Michele ed Anna che coroneranno il loro sogno; poi la simbolica strada del paese che rappresenta “l’unico collegamento per l’amore” tra un uomo ed una donna; e, infine, storie di profonde amicizie che, a volte, resistono al tempo, altre volte, sono destinate a seguire strade diverse come può capitare nella vita.
Roberto Graffi mette sempre in primo piano il suo sentimento armonioso della vita, nonostante le difficoltà e le sofferenze, oltre i dissidi del tempo, al di là delle apparenze come a voler affermare che la vita è un bene supremo: l’atto liberatorio è trovare la volontà di vivere un “atto d’amore” che diventa ragione ultima dell’esistenza.

Massimo Barile


Tutti i racconti


ANIME INQUIETE


A Sandro Toni
fedele amico di sempre


CAPITOLO I

La messa era da poco cominciata. Gruppi di ritardatari si apprestavano a fare il loro ingresso nella casa di Dio. Nella chiesa, piccola per la verità, non spirava un alito d’aria; gli uomini impazienti, guardavano continuamente gli orologi sbuffando. L’aria era ferma. Sull’altare il pastore che diceva la messa. Ogni tanto si voltava verso i fedeli pronunciando parole in latino e questi rispondevano con un cenno delle labbra. Molte persone sbadigliavano ed erano indifferenti al rito che si stava compiendo. In un angolo della chiesa, vicino all’altare, un uomo dai capelli neri e folti si asciugava il sudore che gli colava dalla fronte. Aveva la barba lunga ed incolta ed erano, stando alle apparenze, tre o quattro giorni che non se la radeva. Aveva un’espressione stanca. Il naso grande ed arcuato come il becco d’un aquila. Era vestito poco elegantemente: un paio di calzoni non stirati, una camicia colorata sgualcita ed un cappello di paglia in mano. L’uomo osservava in giro e di tanto in tanto, quasi meccanicamente, si faceva il segno della croce. Guardava con indifferenza mista a stupore alcune vecchie intente a pregare; guardava le pareti colorate della chiesa; guardava il pastore che con gesti meccanici ripeteva le parole di rito all’Elevazione.
Per l’aria ferma una noiosa mosca prese a volare con un ronzio sordo e nauseante. Una bimbetta sui quattro anni correva per il corridoio formato dalle due file di panche dove vi erano seduti i fedeli; aveva un bel visetto dai fini lineamenti delicati e le guance soffuse di rosa. La bimbetta corse verso il padre che era seduto su una panca nel mezzo della chiesa; questi però la respinse con un’occhiata fulminante. La bambina si rattristò e si ritirò in un angolo senza più correre. Per lei il tempo speso in quel luogo non aveva nessun valore. Era evidentemente troppo piccola per comprendere l’importanza del luogo sacro in cui si trovava. Il padre la portava a messa tutte le mattine, ma lei avrebbe preferito restarsene a casa a giocare.
La chiesa era gremita di gente più o meno indifferente a quanto accadeva sull’altare. Sullo stesso spiccava una grande statua di Cristo in croce; in basso e ai lati grandi mazzi di gigli ornavano stupendamente la statua del Cristo.
Il tempo passava e il pastore continuava a compiere il sacrificio. Arrivati a metà messa il predicatore si avviò al pulpito. Era di un grasso ripugnante ed aveva i movimenti lenti e calcolatori. Il viso immenso, tondo, rosso. Due mani grasse e pelose che tenevano una Bibbia, i piedi grandi e volgari ricoperti da un paio di scarpe nere. Parlava con enfasi ed aveva una voce liquorosa che metteva a disagio l’uditorio. Cominciò a parlare commentando un passo del Vangelo di S. Matteo, quello riguardante i falsi profeti. La sua voce risuonava vuota in quella giornata di caldo; di tanto in tanto interrompeva la predica per asciugarsi il sudore che gli colava dalle tempie. Riprendeva il discorso interrotto con sempre maggior fatica e stentava a stare ritto sui piedi. Parlava rivolto ai fedeli e illustrava loro i diversi passi del Vangelo. “Noi siamo cristiani – diceva – ma che vita cristiana è mai la nostra? Siamo esseri spregevoli (ed io con voi), che deturpiamo la terra dataci con infinita bontà da Dio. Rispondetemi: siamo noi degni di tanta bontà? Abbiamo i meriti e le capacità per abusare di questa libertà? Siamo corrotti fratelli e senza distinzione di sesso: gli uomini con le donne e le donne con gli uomini. Abbiamo in noi qualcosa di diabolico che ci rende perversi e cattivi; dobbiamo lottare fratelli, dobbiamo lottare disperatamente se non vogliamo cadere più in basso di quanto lo siamo ora. C’è una cosa – continuava – da cui dobbiamo guardarci: i falsi profeti. Non accostatevi a loro perché vi insegneranno il male; date ascolto alla mia parola e a quella di tutti gli altri sacerdoti come me che parliamo nel nome di Dio. È vero: a volte noi possiamo sbagliare e voi con la vostra spietatezza ce lo fate subito notare. Ma non parlate male di noi o di chiunque altro senza aver prima visto la «trave che avete conficcata nei vostri occhi». Vi rendete subito conto degli sbagli che commettiamo noi: ma dei vostri, dei vostri sbagli non ve ne accorgete mai? Non vi accorgete che il mondo va verso la corruzione e la perdizione? Gli anni passano e le generazioni diventano sempre più deboli ed infiacchite e questo accade per colpa nostra. Manteniamoci puri fratelli e il mondo migliorerà. Vedremo allora un Dio contento e fiero di noi; vedremo un mondo migliore e non più corrotto”.
Il prete grasso dai piedi volgari, guardò ad uno ad uno tutti i fedeli con sguardo indagatore, li tornò a guardare, scosse la testa come per dire che quella gente non capiva, respirò profondamente poi si allontanò dal palpito così velocemente come era venuto.
Nella chiesa si levò un leggero mormorio causato dalle parole del sacerdote.
Un uomo, dagli occhi grandi e semplici, discuteva con un suo simile sulle parole dette dal prete. L’uomo dagli occhi grandi in parte condivideva le opinioni del pastore, l’altro le rifiutava completamente.
L’aria ferma di quell’afoso giorno, contribuiva a rendere nervosi ed impazienti i fedeli. La messa dilungava. Gruppi sporadici di persone presero ad uscire lentamente dal luogo sacro non resistendo più al gran caldo.
Un uomo ed una donna cominciarono a parlare. I loro discorsi erano un po’ concitati; forse stavano litigando! Loro, come tanti altri, erano venuti ad assistere alla messa, ma ciò li rendeva completamente indifferenti. Ignari del luogo sacro in cui si trovavano cominciarono ad altercare con sempre più animazione. Si sentì il “ssst” di un uomo alto e magro con l’aria stanca, ma non diceva ciò per un vero e proprio interesse alla messa, lo diceva per farsi grande agli occhi della gente quasi che credendo in Dio e professando la Sua religione fosse una cosa di primaria importanza per lui.
I due smisero di bisticciare e non si guardarono più in faccia. Erano marito e moglie. Si erano sposati pochi anni prima in quella stessa chiesa ed erano conosciuti da tutti. L’uomo brontolava per suo conto guardando i fiori sull’altare, la donna aveva assunto un’aria triste e colpevole per la circostanza e si era messa, con una gran volgarità, a pregare il suo Dio che non sapeva e non voleva sapere se esisteva veramente.
Questo era il quadro della chiesa che si poteva vedere: un prete che diceva la messa, un predicatore, gente – donne e uomini – completamente indifferenti a quello che avveniva in chiesa e un caldo, soprattutto un caldo insopportabile, che gravava incerto sulle teste dei sedicenti fedeli.


CAPITOLO II

Finalmente per i fiacchi e sbuffanti fedeli, la messa finì. Il sacerdote aveva appena terminato di dire le parole “ite, missa est” che già molte persone erano uscite. Altre urtandosi e spingendosi si accalcavano verso l’uscita; molte ridevano, altre non parlavano ma si incamminavano comunque a grandi passi verso l’uscita avendo anche per quel giorno soddisfatto ai loro obblighi di perfetti cristiani.
Il sacerdote voltandosi vide la chiesa vuota; solo le panche e i confessionali sporchi lo guardavano. Nessuno si era fermato a recitare una piccola preghiera di ringraziamento, nessuno. E questo era molto triste. Lo sguardo del sacerdote fece il giro completo di tutte le panche come per rassicurarsi di quanto aveva visto prima; fu tutto perfettamente inutile. I suoi occhi color mare guardavano e non vedevano altro che il vuoto, il vuoto orribile di una chiesa senza fedeli!
Il tramonto, ormai prossimo, conferiva alla città un aspetto quasi irreale: le ultime ombre giocavano tra i muri delle case e nelle piazze; gli alberi nei giardini e le altre piante in genere, parevano adagiarsi per un lungo sonno d’attesa e laggiù, a ponente, il cielo era una violenta, forte orgia di colori sanguigni. Repentinamente il sole sparì lasciando il posto alle ombre della sera. L’aria era ferma. Tutto immobile e atono, nulla…
– Mi sto accorgendo ora – disse Harold rivolto alla moglie – che il nostro matrimonio è stato un fallimento. In questi ultimi tempi non abbiamo fatto altro che litigare. E poi per cosa abbiamo litigato? Per cose futili e banali. Oh, Beth perché non cerchiamo e troviamo un punto comune di incontro in questa faccenda? Tutto vacillerà meno dopo, sai?
– Lo sai benissimo – disse Beth – che tutto tra noi è finito. Non potremo mai metterci d’accordo tu ed io.
– Ma perché no! Proviamo almeno – sbottò Harold – Eravamo felici una volta, ricordi? Tu ed io, noi due soli. Era tanto bello. Le estati trascorse insieme prima e dopo il matrimonio, le nostre gite… ti rammenti Beth? Ti ricordi di quell’anno che andammo a trascorrere le vacanze in Italia? A Capri, ti rammenti di Capri?
– Queste – rispose Beth – sono cose che non potrò dimenticare nonostante tutto ma la realtà è un’altra. Tu non ti rendi conto che quei tempi sono finiti e che quelli nuovi, quelli che ci sovrastano, sono una cosa completamente diversa. Voi uomini siete tutti uguali: cercate di prendere noi donne dal lato sentimentale, cercate di ammansirci con sciocchi pregiudizi, con frasi già fatte e sulla bocca di tutti. Non è tanto facile ingannare una donna, rammentalo Harold.
Ci fu qualche attimo di silenzio: i due parevano meditare. Era una faccenda, la loro, comune a tante altre coppie: non si capivano più.
– Dunque – disse Harold – non metti neppure in conto di parlarne, non conta il ragionare e tutto il resto: ho capito, fra noi tutto è finito.
Harold, stanco e abbattuto andò a coricarsi senza cenare. La moglie seguendo un piano già prestabilito radunò poche cose, le mise in una valigia e fuggì di casa.
Un altro uomo l’aspettava. Elisabeth giunse all’appuntamento con mezz’ora di ritardo. Francis era là, in attesa non preoccupandosi affatto del ritardo della donna. Appena furono vicini i due si salutarono con molto calore e quindi si baciarono.
Francis aveva quasi quarant’anni. Dall’aspetto mostrava molto meno di quell’età: corporatura forte ed atletica lo rivelavano dedito alla ginnastica. Aveva il volto tondo e coperto da una fitta barba, gli occhi verdi e la fronte sfuggente.
– È tanto tempo che non ti vedevo Beth – disse Francis – perché tanto? È stato difficile per me resistere alla tua lontananza, un vero miracolo che non sono venuto a trovarti a casa tua.
Elisabeth fissò Francis con i suoi occhi leggermente strabici, poi gli gettò le braccia al collo, senza parlare, e di nuovo lo baciò.
Senza più parlare si avviarono lentamente verso la stazione ferroviaria. Era una sera tranquilla come tante altre. Una soave frescura, da tempo sognata, investiva con i suoi palpiti sommessi persone e cose. Elisabeth guardò la falce di luna che era apparsa in cielo, sospirò, ma non disse nulla. Fu Francis a rompere per primo quell’opprimente silenzio.
– Faremo grandi cose noi due insieme Beth; ho in mente progetti grandiosi. Non rimpiangerai mai il momento in cui hai abbandonato tuo marito: noi partiremo da quel momento e ci costruiremo insieme una nuova vita. Tuo marito non ti poteva dare la maternità: che vita diventava la tua? Ti saresti atrofizzata senza più alcun rimedio. Con me sarà un’altra cosa: con me diverrai madre.
– Oh Francis! – esclamò Beth – è tanto bello quello che dici. Avevo proprio perso ogni speranza di diventare madre. Ora finalmente anch’io potrò provare quella gioia.
Ci fu ancora silenzio: ambedue meditavano. Si erano conosciuti un anno prima allorché Elisabeth si era recata ad una festa da ballo indetta da una sua amica. Parlarono molto, bevvero e ballarono fino a notte tarda, poi si lasciarono promettendosi di incontrarsi saltuariamente.
Ora si erano ritrovati e quell’attimo di gioia fu paragonabile a quello in cui si baciarono la prima volta.
Tra un discorso e l’altro Elisabeth e Francis erano giunti alla stazione. Non sapevano neppure in che luogo sarebbero andati: l’importante era allontanarsi da quella città…


CAPITOLO III

Harold, a letto, pensava. Pensava di rimanere desto ad aspettare il ritorno della moglie. Passò molto tempo: Elisabeth non venne. Fu allora che Harold comprese la tremenda verità. All’improvviso divenne pallido come un cencio e cominciò a tremare.
“Elisabeth – pensava – la mia Elisabeth! Non può essere che sia fuggita con un altro uomo”.
Però, mentre pensava a queste cose vedeva il lento spostarsi delle lancette sul quadrante dell’orologio, si convinceva sempre più che quello che pensava era la pura e triste realtà. Quasi piangeva, il volto rigato dal dolore e dalla rabbia. Grosse rughe gli erano apparse come per incanto sulla fronte; queste poi, dopo lunga parentesi, gli morivano ai lati del volto, quasi a ridosso delle tempie. La sua bocca aveva assunto una piega amara di sofferenza e tedio della vita. Quasi meccanicamente gli tornarono alla mente le cose più belle e dolci della sua vita passata. Ricordava con una punta di rimpianto i fine settimana trascorsi con la fidanzata ai margini del vicino bosco; un attimo vide proiettarsi quelle immagini felici nel riquadro bianco della sua fantasia; ma anche queste immagini a poco a poco apparivano sfocate e non giungevano più nitide come la prima volta che le aveva pensate. La nausea assalì Harold che era tornato alla realtà e aveva smesso di pensare. Un brivido di freddo gli corse lungo la schiena sebbene il caldo stagnante di quella notte lo avvolgesse come in una morsa. Poi, poco alla volta, il sonno prese il sopravvento e stremato si addormentò.
Un aeroplano passò veloce. Un clacson suonò lontano: poi silenzio. La notte era scesa dolcemente sulla città e gli abitanti di quel paese felice l’accolsero frementi di gioia.
I primi pallidi raggi di sole, entrando dalla finestra semiaperta, svegliarono Harold. Per un attimo rimase immobile nella posizione in cui si era svegliato, poi prese a muoversi lentamente per il letto. Si guardò attorno come per cercare qualcosa. Infine il suo sguardo si posò sull’orologio che aveva sul comodino. Erano le sette e un quarto. Un momento fissò la finestra semiaperta seguendo i raggi bianchi del sole che si posavano sul pavimento, quindi si alzò. Si avvicinò alla finestra e la spalancò dando così libero respiro ai raggi del sole. Nella sottostante strada il traffico era in piena attività. Dalla finestra Harold vide uno strillone con un pacco di giornali che attraversava la strada. In un angolo del marciapiedi un gatto si riposava al tepore del sole. Tante mattine Harold, affacciandosi alla finestra, aveva visto la stessa scena, le stesse cose che da tempo gli erano diventate familiari. Trasse incurante un profondo respiro poi chiuse la finestra. Circa mezz’ora dopo era pronto per recarsi alla messa delle otto.
Mentre in ascensore si avvicinava al pianterreno pensò alla moglie. Fu un pensiero improvviso, non elaborato da nessun precedente pensiero. Uscito dall’ascensore si recò con aria svogliata alla cassetta delle lettere per vedere se vi era corrispondenza indirizzata a lui. Trovò infatti una busta sigillata che recava il suo nome. Esitò qualche attimo prima di aprirla, infine la curiosità lo vinse. Era una lettera di Francis. Poche righe mettevano al corrente Harold dello stato attuale delle cose.


CAPITOLO IV

Sul treno, che stava filando a tutta velocità verso Ciudad Victoria (Messico), Elisabeth e Francis discutevano sul loro avvenire. Potevano parlare molto liberamente avendo prenotato una cabina-letto per due.
– Credi che Harold abbia avuto paura delle nostre minacce, Beth?
– Puoi esserne sicuro; – rispose la donna – conosco perfettamente il carattere di mio marito. Si sarà chiuso in casa tremando come una foglia. Non avrà neppure il coraggio di parlare a se stesso di questo caso.
– Meglio – disse Francis – da quanto ho capito i fastidi non ci verranno da parte sua. Ma ora basta parlare di Harold: abbiamo cose ben più importanti da discutere noi due. Non ti pare Beth?
– Oh, tante, tante cose Francis – rispose Beth. – Il nostro sarà, t’assicuro, un mondo nuovo, tutto da scoprire. E poi con te mi sento felice. Emana dalla tua persona un fascino nuovo, mai provato o ricercato mai. Con te potrò diventare madre e questo è il lato più bello ed entusiasmante di tutta la faccenda.
– Puoi contarci Beth, tu sarai madre nel minor tempo possibile, t’assicuro. Sarà una grande gioia la nostra, mettere al mondo un figlio…
In lontananza i primi casolari di Ciudad Victoria si vedevano già distintamente. In quella città il treno avrebbe fatto una sosta di trenta minuti prima di proseguire la sua marcia nell’interno del Messico. Francis e la donna si prepararono, bagagli alla mano, per scendere dal treno il più presto possibile. Il treno diminuì la velocità e finalmente, con un lungo e monotono stridio di freni, si fermò nella piccola stazione. Un ronzìo di voci giunse all’orecchio dei passeggeri che ne restarono colpiti. Altoparlanti che gracchiavano arrivi e partenze di treni. Sui marciapiedi della stazione i venditori di bibite e panini soffiavano nelle orecchie dei viaggiatori in attesa. La stazione non era molto grande ma nel complesso piacente. Aveva in sé qualcosa di strano, di non ben definito. Grandi manifesti colorati erano affissi sulle pareti della stazione. Alcuni rappresentavano una “plaza de toro” con il nome di un famoso torero che si apprestava ad affrontare il centocinquantesimo toro. Anche Elisabeth e Francis si fermarono a guardare i manifesti, poi si confusero con la folla compatta, vociante e variopinta.
Il giorno precedente, all’uscita della chiesa, Harold incontrò un suo vecchio compagno di studi. Si chiamava Peter Barry. Un momento Harold stentò a riconoscerlo; il volto nascosto da una folta barba lo aveva tratto in inganno. Dopo tanti anni i due vecchi compagni di studi si erano ritrovati. Per un attimo restarono in silenzio con gli occhi lucidi dall’emozione e le destre che si stringevano calorosamente, poi la gioia apparve liberamente sui loro volti. Parlando si erano allontanati dalla chiesa. Avevano tante cose da dirsi: tutti quegli anni trascorsi senza vedersi avevano atrofizzato le loro persone ed erano diventati come due automa che agivano solo a comando. L’uno era impegnato nel suo lavoro e nella sua vita da scapolo, l’altro nelle faccende coniugali. Avevano quindi rinunciato a compiere ricerche per riscoprirsi a vicenda. Erano vissuti nel silenzio più completo per tanti anni che ora, ritrovandosi, non si sarebbero più voluti lasciare.
Più giovane di Harold, Peter era un uomo sensibile e delicato. Aveva rinunciato a sposarsi per potersi dedicare con più amore alla salute della madre e con più coscienza al suo lavoro di assicuratore. Quella barba che parlando si muoveva, quegli occhi buoni, la sua voce calma e suadente erano un invito all’attenzione da parte di chi lo ascoltava.
Tra un discorso e l’altro i due arrivarono a casa di Harold. Madison invitò Peter in casa sua per parlare più comodamente. Una volta in casa Harold – dopo qualche esitazione – espose il caso di sua moglie. Soggiunse anzi che aveva intenzione di recarsi alla polizia nonostante le minacce contenute nella lettera che aveva ricevuto da Francis, il quale, sotto falso nome, si era firmato Johnny Day. Peter rimase molto sconvolto dal racconto di Harold. Alla fine, dopo lungo parlare, Peter convinse Harold di non mettere al corrente – almeno per il momento – la polizia. Passato qualche tempo, se sua moglie non fosse tornata, allora faceva bene a rivolgersi alla giustizia. Harold accettò suo malgrado. Non poteva dir di no a quella voce buona e carezzevole, a quegli occhi magnetici di Peter che parevano cambiare colore a volte, diventare grandi e piccoli altre.
Peter lasciò ad Harold il suo indirizzo e disse di andarlo a trovare in qualsiasi circostanza gli fosse avversa. Si strinsero calorosamente la mano e si lasciarono.

Usciti dalla stazione Francis Scott ed Elisabeth si fermarono. Non sapevano da che parte andare. Infatti quella cittadina era ad entrambi sconosciuta. Decisero di andare avanti alla cieca; forse avrebbero trovato un buon albergo che li ospitasse. Il sole era implacabile. Battendo sui tetti delle case rendeva ancor più arroventata l’aria. Francis sudava. Si slacciò la camicia. Il cielo era sereno, la pioggia tanto desiderata non sarebbe per il momento venuta. Imboccarono un viale ben tenuto. Le case erano tutte di recente costruzione. I mattoni con cui erano costruite erano di uno strano color oliva pallido. Notarono sullo sfondo un edificio più alto degli altri. Anch’esso, come le altre case era di quel colore nauseante. Elisabeth e Francis si avvicinarono all’edificio. Sulla facciata spiccava a grandi caratteri un nome: “Hotel Nuevo Mundo”. Contenti di avere trovato un albergo, decisero di entrarvi. Varcato l’ingresso notarono che l’arredamento era abbastanza buono. Vi erano diverse poltrone di vimini e qualche tavolino di noce disseminati per il grande atrio. In un angolo l’ufficietto dove vi era il portiere.
– Desiderate, signori? – chiese il portiere con voce quasi infantile.
– Vorremmo una camera – gli rispose Francis. –
– Avvicinatevi, prego. Pernotteranno molto tempo?
– Beh, dipende.
– Per favore volete firmare in questo registro?
Firmò per primo Francis denunciando false generalità.
Infatti scrisse: Johnny Day. Elisabeth, capendo l’intenzione di Francis, firmò anch’essa sotto falso nome: Carol Day.
– Ah, siete marito e moglie – gridò il portiere. –
Gli interessati annuirono.
– Bene. Vi prego di seguirmi.
Presero l’ascensore e si fermarono al quarto piano. Un lungo corridoio si snodava monotono.
– Finalmente soli – disse Francis appena entrati nella stanza. – Ora potremo meditare sul nostro avvenire e…
– E su quello di mio marito – aggiunse Elisabeth.
Francis guardò insistentemente Beth. Il suo sguardo indagatore cercava di filtrare attraverso le vesti della sua compagna. La sua antica indole di maschio si risvegliò improvvisa. Sentiva un lungo fremito caldo corrergli lungo la schiena e si domandava se avrebbe resistito a lungo. La femmina era lì a portata di mano: perché allora aspettare dal momento che si era destato in lui il piacere? Il richiamo della carne era irresistibile: no, non avrebbe aspettato più. Francis ed Elisabeth si guardarono dritto negli occhi, ognuno scoprendo i pensieri dell’altro. L’uomo distolse lo sguardo da Elisabeth, si avvicinò alla finestra e la chiuse. In breve la stanza fu avvolta nella penombra. Lentamente Francis si avvicinò alla donna che sentiva fremere. Poi la donna sentì la dolce, tenera mano, brancolante, disperatamente avida, toccarle il corpo, cercarle il viso. Poi dalla nuca giù giù lungo la schiena fino alla rotondità delle natiche. Prese dolcemente la ragazza per mano e la trascinò – senza nessuna resistenza – sul letto. Elisabeth sentendo la mano brancolare dolcemente e tuttavia con inesperienza curiosa e garbata, tra le sue vesti, ebbe un brivido di piacere. Tuttavia la mano sapeva anche come denudarla. Fece discendere la sottile sottoveste di seta, lentamente, con attenzione, fino ai suoi piedi. Si sdraiò quindi sul corpo immobile della donna che ebbe un brivido. La baciò a più riprese e le sfiorò i capezzoli turgidi e virginali prima di immergersi totalmente nella più sublime delle estasi…
Francis si alzò ma ancora una volta baciò la donna; ancora una volta le passò una mano sui seni accarezzandoli ritmicamente; ancora una volta si fermò a contemplare – alla luce di una lampada che era stata accesa – il punto più segreto della sua compagna, che aveva violato.

[continua]

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