La Colombera

di

Rosa Maria Corti


Rosa Maria Corti - La Colombera
Collana "Le Schegge d'Oro" - I libri dei Premi - Narrativa
14x20,5 - pp. 158 - Euro 13,50
ISBN 978-88-6037-438-7

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Prefazione

Rosa Maria Corti con questa nuova opera accresce la sua produzione letteraria d’una nuova gemma che segue “Mistero all’abbazia” e, anche in questo caso, attraverso le parole della conversa Gertrude, recupera e miscela da esperta alchimista, il momento politico e religioso del XIII secolo tra il dispiegarsi della vita quotidiana degli umili e continui riferimenti alle diatribe religiose.
Nel leggere questo libro si ha il sentore mistico, il profumo della ricerca della verità, il consumarsi lento delle certezze e delle inquietudini che riconduce, simbolicamente, ad una quiete salvifica all’interno d’un chiostro.
Per comprendere appieno l’affermazione che riconduce a tale stato d’animo è necessario anticipare ogni considerazione partendo dal fatto che “La Colombera o del segreto di Templari e Magistri sul lago di Como” è il resoconto delle esperienze vissute scritto dalla conversa Gertrude Vols e compilato nell’anno 1268 nel monastero di St. Johann.
Le sue parole custodiscono il racconto di vicende velate dal mistero e dalla continua ricerca della fede, della speranza mai abbandonata di tornare nella sua terra in Tirolo e la definitiva scelta di vivere in pace dentro le mura del convento.
La protagonista è proprio Lei, Gertrude, che era arrivata al seguito della nobile signora Ildegarda sul lago di Como nel febbraio del 1262 presso il monastero benedettino di San Faustino e Giovita.
In quel lungo peregrinare non erano di certo mancate le preoccupazioni per il futuro, gli ostacoli e le difficoltà che, mano a mano, si erano presentate in quel faticoso cammino, durante i cinque anni precedenti nei quali era stata impegnata nella ricerca della sua signora che si era dovuta nascondere per evitare il peggio, poi in cammino verso Marsiglia nel sud della Francia dove si era unita ad una comunità di “pie donne” che vivevano una vita religiosa, al di fuori della vita claustrale, aiutando ammalati e indigenti.
Ed ora, Ildegarda, la nobile monaca era divenuta badessa, e la quiete del monastero riportava all’esistenza monastica come ad una comunione d’amore e ad una condivisione del proprio esistere con il prossimo.
Nella mente di Gertrude v’era una profonda inquietudine, ripensava ai numerosi cambiamenti che aveva sopportato nella sua vita, quando dopo la scomparsa di Ildegarda, s’era ritrovata sola, senza danaro, lontana dal suo mondo, senza la certezza di farvi ritorno e tutto ciò l’aveva convinta ad accettare la proposta di matrimonio d’un umile pescatore della Tremezzina, ma la sua morte, dopo uno sfortunato incidente, l’aveva nuovamente vista da sola anche se sentiva dentro di sé una rinnovata fiducia nel futuro.
Ildegarda s’era accorta che la sua conversa Gertrude era cambiata, che il suo sguardo era disperso nel vuoto, come immersa in un “torpore”, nonostante si trovasse finalmente entro le sicure mura di un convento, quasi fosse presaga di una nuova partenza per una missione che ancora una volta l’avrebbe strappata alla pace del chiostro.
Il nobile Ulrico dei Conti di Tures e di Tirolo, l’amato fratello di Ildegarda, aveva invero consegnato alla badessa una cartella di pelle contenente due missive, una per il templare Bernardo e l’altra per il Siniscalco della Domus templare di Bellagio e voleva servirsi di Gertrude come messaggera per una importante missione. Mettersi in cammino era pericoloso a causa dei continui scontri tra i vari ordini religiosi, con la probabilità di essere traditi e catturati, dovendo evitare le sfrenate ambizioni personali, sfuggire all’odio e all’invidia di piccoli feudatari vassalli della Chiesa che volevano la rovina della loro famiglia e avevano, già in passato, accusato Ulrico di eresia, di certo con l’intenzione di impossessarsi delle sue terre, dei castelli e delle sue ricchezze.
E poi il conte Havemann, uomo ambizioso, da tempo tramava contro i Templari e voleva impossessarsi del tesoro dei Cavalieri del Tempio nonché recuperare importanti documenti e, per questo motivo, si era incontrato in gran segreto con il vescovo di Coira e con Lotario, famoso per le sue scorrerie.
Ecco allora che Ulrico chiede aiuto a Bernard di Montaigu, un cavaliere templare e un amico, e la devota conversa Gertrude ha il compito di raggiungere Bernard presso l’abbazia del Tiglieto scortata dal coraggioso scudiero Ludwig.
Ma l’esistenza di Gertrude è una vita di preghiera, di meditazione e lavoro, perché solo “Dio può indicare la via da seguire”.
Nel suo pericoloso cammino accompagnata da Ludwig si ritrova a contatto con le inquisizioni, le accuse di eresia all’ordine del giorno, i seguaci dei Catari che consideravano la Chiesa romana madre delle fornicazioni, “basilica del diavolo”; con la convinzione generale che le fortune dell’Ordine del Tempio fossero immense grazie ai privilegi concessi dalla Chiesa, dal re di Gerusalemme, da sovrani e principi cristiani anche perchè i Templari non pagavano le decime alla Chiesa, erano esenti da tasse e tributi statali e potevano amministrare direttamente i territori conquistati anche se altre Case, come quella degli Ospitalieri o quella dei Teutonici, erano divenute ostili e non vedevano l’ora di impossessarsi di quelle enormi ricchezze.
Per questo motivo i Cavalieri Templari, che la leggenda voleva custodi dell’Arca della Santa Alleanza, del Graal e di un tesoro inestimabile, si erano rivolti al Priorato di Sion che aveva il suo quartiere nell’abbazia di Nostra Signora del Monte Sion a Gerusalemme.
E poi v’era chi improntava la sua vita alla povertà e all’obbedienza. Coloro che andavano in pellegrinaggio per la maggior parte della loro vita.

Le atmosfere de “La Colombera o del segreto di Templari e Magistri sul lago di Como” di Rosa Maria Corti, hanno un senso di magico, di simbolico e ogni segno può assumere numerosi significati: una reliquia e un manoscritto potevano rappresentare tutto e il suo contrario.
Nel lungo peregrinare dei protagonisti di questo romanzo ci si immerge, paradossalmente, in una dimensione senza tempo, indefinita nel suo misterioso dispiegarsi e, ancora oggi, ci possiamo rendere conto di quanto potere attrattivo abbia l’Ordine dei Templari e la sua storia, tenendo conto che i best sellers sulla materia sono proliferati come funghi.
Dal racconto di Rosa Maria Corti germinano i simboli che ogni lettore potrà intendere a suo modo, ma esiste una particolare chiave di lettura che può ricondurre ad un mondo che, in definitiva, viveva tragicamente e profondamente il conflitto tra il Bene e il Male, che obbligava l’Uomo ad una scelta perentoria: ogni luogo era pervaso da iscrizioni, segni, simboli, figure misteriose, reliquie celate o presunte, un mondo composto da “signa e res” come affermava Sant’Agostino.
Inevitabile la ricerca continua dell’Uomo per avvicinarsi al mistero, alla segreta custodia di un potere divino, d’un tabernacolo con il Sacro Chiodo, d’un Sacro Calice, di un’Arca Sacra; la continua ossessione nel guardare “Il visibile come traccia dell’invisibile”: un’umanità contagiata dalla brama di potere, dilaniata dalle dispute politico religiose, sottomessa ad alleanze effimere e tradimenti all’ordine del giorno.
Nel mondo della conversa Gertrude, tutto è legato indissolubilmente al filo del destino, così i desideri di una donna, i progetti di ogni individuo, gli eventi che possono mutare senza ragione, la vita stessa.
In un mondo di pellegrini e mercanti, di uomini d’arme e religiosi, di potenti e umili non rimaneva che “il ringraziamento a Dio per la protezione durante un lungo viaggio”.
“La Colombera” di Rosa Maria Corti è un tuffo letterario in questo mondo e la sua narrazione è avvincente e, grazie ad una trama che non risparmia colpi di scena e un continuo susseguirsi di avvenimenti, vengono riportati in modo impeccabile l’ambiente storico, il periodo difficile e cruento, le lotte intestine, i conflitti religiosi tra i vari Ordini, e poi, domina indiscussa la figura di Gertrude, voce fuoricampo autentica protagonista del romanzo, fragile solo in apparenza ma, in realtà, donna di forte carattere e capace di mediare, di trovare soluzioni anche nelle situazioni più difficili.
Ecco allora che il silenzio irreale d’un convento nel raccoglimento in preghiera fa da contraltare con la sosta in una taverna mangiando saporiti missoltini, una fumante zuppa di cipolle, lardo affumicato, pane nero e focaccine di grano magari con un buon boccale di vino: forse, come ripeteva spesso Ildegarda, “bisogna cercare quello che unisce e non ciò che divide”. Paganamente parlando, s’intende.
E, alla fine di tutto, dopo aver fatto onore alla tavola, passare al “nutrimentum spiritus” nella quiete del proprio Io, dove il silenzio si fa infinito, vivendo la realtà aspirando al divino, lasciarsi impadronire dalla voglia di scrivere e… meravigliarsi della potenza e del mistero delle parole.

Massimo Barile


La Colombera


Ai miei genitori
e a Giorgio, mio marito


La vita, per essere piena e reale, deve contenere
la preoccupazione del passato e dell’avvenire in ogni attimo del fuggevole presente; il lavoro quotidiano deve essere compiuto per la gloria dei trapassati e per il benessere dei posteri.

J. Conrad


NELLA QUIETE DEL MONASTERO

Nella quiete del monastero finalmente potevo riassaporare un po’ di tranquillità.
Quante volte, prima del mio ritorno in Tirolo, risvegliandomi all’alba, mi ero sentita cogliere dal panico, dai timori del futuro, per quanto tempo le preoccupazioni del giorno precedente si erano riaffacciate puntuali alla mia mente! Anche se la speranza di ritrovare un giorno la mia signora e quella di poter fare ritorno in patria non mi avevano mai abbandonata, per mesi il primo mattino era stato assai difficile.
Per quanto mi fossi sforzata di stare lontana dai guai, di fare il bene, di cercare la pace, ostacoli e tentazioni si erano presentati spesso sul mio cammino in quei cinque anni che mi avevano vista, dopo essere giunta al seguito della nobile Ildegarda sul lago di Como nel febbraio del 1262 presso il monastero benedettino di San Faustino e Giovita, impegnata dapprima nella ricerca di quest’ultima, poi in cammino verso Santiago de Compostela ed infine nella popolosa Massilia1, al sud della Francia, dove mi ero unita alle mulieres religiosae pauperes2 della città, desiderosa di sperimentare, anche se per breve tempo, una vita religiosa al di fuori della comunità claustrale lavorando in mezzo agli indigenti ed agli ammalati.
Per la verità anche il mio rientro in monastero, in quella dolce conca dove i meli a primavera erano nuvole bianche o rosate e le viti ricami preziosi che contornavano castelli ed abbazie, aveva comportato qualche difficoltà. Ricordavo bene la spiacevole sensazione di sentirmi al centro di sussurrati commenti, la fatica di anteporre nuovamente le esigenze della vita comunitaria alle mie preferenze, dopo la libertà di cui avevo goduto e che pure era stata per me talvolta fonte di disagio.
Nonostante ci fosse Ildegarda, la nobile monaca ora divenuta badessa, a ricordarmi che l’esistenza monastica era comunione d’amore, condivisione con il prossimo, la tentazione di restare sola era talvolta forte.
Sentivo la mia mente come frastornata, avevo l’impressione che il mio spirito non concordasse con la mia voce. Mi sembrava l’inquietudine mia riflesso del sentimento che serpeggiava fuori le protettive mura del convento, mentre ripensavo ai cambiamenti che s’erano avvicendati nella mia esistenza, quando, dopo la scomparsa di Ildegarda, sola, guardata con sospetto, senza denaro, smarrita e lontana dal mio mondo, senza la certezza di potervi un giorno fare ritorno, avevo accettato la proposta di matrimonio di un umile pescatore della Tremezzina. La sua morte, a causa d’uno sfortunato incidente, mi aveva di nuovo vista sola eppure con una rinnovata fiducia nel futuro, con un’energia che mai avrei pensato di possedere. Adesso invece mi sentivo nuovamente come l’erba durante l’inverno, rigida e secca e per di più debole a causa di una tosse fastidiosa contratta nell’edificio riservato ai conversi poiché non riuscivo a fare a meno di affacciarmi alla finestrella che dava sul panorama delle montagne a sud del convento, in direzione della pianura, nonostante l’aria fosse ancora gelida.
“Dall’incuria della mia condotta liberami o Signore”, mi ripetevo spesso, pensando al mio recente malessere e non solo a quello.
Per fortuna sorella Hilda e sorella Walburga erano state tanto gentili a suggerirmi un cataplasma a base di farina di miglio ed olio di ravizzone, una sorta di polentina che, per non ustionarmi, mi applicavo sullo stomaco con l’ausilio di un sacchetto di iuta coperto da un panno di lana acciocché l’impiastro non si raffreddasse troppo in fretta.
Anche i suffumigi con la menta messa in acqua bollente, come avevo imparato dalla monaca erborista, che sempre riservava una piccola parte dell’orto alla coltivazione di quella che lei definiva un’erbaccia benefica, cominciavano a dare i loro frutti.
Presto forse avrei potuto di nuovo raggiungere il coro dei conversi e forse anche quella sorta di tediosa mestizia che mi assaliva ai vespri simile al “demone del meriggio” si sarebbe dileguata come neve ai primi tepori di marzo.

1. Marsiglia.
2. Erano talvolta così designate le beghine, pie donne che, in Case dette beghinaggi, di solito alla periferia delle città, intendevano vivere in piena indipendenza sia dalla famiglia di origine che dagli uomini. La prima di queste comunità sorse a Liegi, poi esse si diffusero soprattutto in Francia, Germania e Paesi Bassi, divenendo un’alternativa al matrimonio e al convento.


SUPREMUM FATUM

Come spesso accade, senza tener conto dei nostri desideri, dei nostri progetti, il destino stava tessendo nuovamente i fili degli eventi che, ancora una volta, avrebbero visto protagonista Gertrude.
Ildegarda s’era ben accorta che la sua conversa prediletta era cambiata, sembrava immersa in una sorta di torpore, pareva aver perso la capacità di gioire di ogni piccola cosa, fosse anche solo dello sbocciare di un fiore, come accadeva alcuni anni addietro nel piccolo ospizio della Carolza sui monti della Valle Intelvi, in quel rifugio improvvisato che era stato scelto per loro quale meta in grado di metterle al riparo dai tragici eventi che si andavano prospettando.
Il suo sguardo era spesso perso nel vuoto, come se il suo spirito si trovasse altrove.
In cuor suo Ildegarda si sentiva in colpa per averla trascurata anche se, d’altra parte, dopo la sua nomina a badessa, erano davvero numerosi i problemi che giornalmente si trovava a dover risolvere all’interno di quella piccola comunità.
Forse la richiesta di suo fratello, il nobile Ulrico, che in un primo momento le era apparsa assurda, giungeva opportuna.
Il colloquio s’era svolto alcuni giorni dopo Pasqua, quando, lasciato il castello vicino a Meranium3, il conte aveva raggiunto il monastero.
Nel cuore della biblioteca deserta, dopo il Salve Regina, quando le monache si erano ormai ritirate nelle loro celle, sotto le alte volte di pietra, in mezzo a preziosi codici copiati e miniati con tanta pazienza, Ulrico le aveva consegnato una piccola cartella di pelle ed era stato esplicito nel dirle che intendeva servirsi di Gertrude come messaggera per un’improrogabile missione.
“Sapete bene, cara sorella, in quali difficili momenti stiamo vivendo. Una città combatte contro un’altra, nel recinto delle stesse mura sorgono gare accanite che vedono il benessere della comunità sacrificato alle ambizioni personali e gli animi sono più che mai divisi.
Dopo la morte di nostro padre e quella di nostro fratello, il seguito che avevamo si è molto assottigliato, per contro non si sono estinti l’odio e l’invidia di quei piccoli feudatari vassalli della Chiesa che volevano la rovina della nostra famiglia e che per questo mi hanno ingiustamente accusato di eresia. Ho motivo di credere che costoro stiano nuovamente tramando contro di noi grazie all’appoggio del Gran Maestro del Deutscher Orden. Il conte Havemann è un uomo irrequieto, ambizioso e soprattutto di dubbia fede. Dice di parteggiare per l’imperatore ma so per certo che proprio recentemente si è incontrato in gran segreto con il vescovo di Coira e con Lotario ed Henricus di Heberl che darebbero la vita per vedere i nostri castelli smantellati e per impossessarsi delle nostre terre nonché delle nostre ricchezze.
Per questo motivo ho provveduto a rendere più munita la dimora che abbiamo ereditato da nostra madre e che mi consente di esservi più vicino, ma temo per una rivolta dei nostri sudditi ai confini con la Bassa Engadina, su quelle terre che ci sono state cedute dai Reichemberg. Purtroppo Lotario è un abile sobillatore e tristemente famose sono le scorrerie che compie con i suoi uomini. Neppure l’abito che voi portate e la dignità della vostra carica riuscirebbero a fermarlo qualora le sue intenzioni fossero veramente proditorie.
Il dispaccio del nuovo signore di Tarasp purtroppo sembra confermare i miei timori.
Per questo motivo ho deciso di chiedere aiuto a Bernard di Montaigu, quel cavaliere templare che vi ha riaccompagnata sul lago di Como. L’amicizia che ci lega, la sua prudenza nel consiglio, i suoi legami con i vertici dell’Ordine, sono motivi che mi fanno sperare in una soluzione delle spinose questioni che attanagliano il mio animo. Inoltre so per certo che Havemann sta tramando contro i Templari e desidero avvertirlo.
Poiché, a parte voi, solo Gertrude conosce l’identità di Bernard, sarà lei a raggiungerlo presso l’abbazia del Tiglieto4; del resto, non è prudente che io abbandoni le nostre terre proprio in questo momento ed è tempo che mi rechi a Tarasp per valutare di persona la situazione.
Mi fido di lei, amata sorella. In questi anni ha dato prova di notevole intraprendenza e la sua capacità di indagare e trovare la verità è fuori discussione”.
“E se rifiutasse?”
“Non lo farà, vi è troppo devota. Inoltre voi siete la nuova badessa ed ella vi deve obbedienza”.
“La badessa Guglielma che mi ha preceduta, che Dio l’abbia in gloria, la reputava una persona discreta e capace e sicuramente all’altezza dell’incarico delicato che intendete affidarle, cosa di cui anch’io sono convinta”.
“Allora qual è il problema?”
“Come anche voi avete convenuto il nome della nostra famiglia è stato troppe volte pronunciato anche parecchie miglia fuori della contea. Nessuna strada è sicura, non ci si può fidare di nessuno. Non vorrei le accadesse qualcosa!”
“Non preoccupatevi, la vostra conversa è una donna fragile solo all’apparenza e comunque non sarà sola, viaggerà scortata dal mio scudiero. Ludwig è forte e coraggioso, forse un po’ troppo impulsivo ed ambizioso ma Gertrude è capace di mediare, tollerare e pacificare”.
“Possa Dio proteggerli e proteggere anche voi”.

3. Merano.
4. Abbazia del Tiglieto. Si tratta del più antico insediamento cistercense in Italia. Situata ai confini tra le province di Genova e di Alessandria, sull’Appennino ligure, poco lontana dall’abitato di Tiglieto, l’abbazia di Santa Maria alla Croce, chiamata dagli abitanti della zona la “Badia”, secondo fonti cistercensi fu fondata il 18 ottobre 1120 da alcuni monaci provenienti dalla Borgogna e precisamente dall’abbazia de “La Ferté”, una delle prime quattro dell’Ordine insieme a Clairveaux, Morimond e Pontigny.


I CAVALIERI TEUTONICI

Dalla piccola cappella a piano terra di castel Weggenstein, situato a qualche miglia a nord-est di Meranium, lo sconosciuto venne accompagnato da un servente attraverso ripide scale e ballatoi fino ad un’alta galleria che presentava in fondo una porta che immetteva in una piccola sala. Il domestico aprì la porta, invitò lo sconosciuto ad entrare e ad attendere l’arrivo del conte, dopo di che silenziosamente si eclissò.
La sala aveva il soffitto rivestito di legno e munito di travetti, alloggiava un grande camino sulla cui cappa facevano bella mostra alcuni trofei di caccia ed alcune finestrelle.
Lo sguardo dell’uomo, però, fu subito colpito dalla bellezza degli affreschi che ornavano le pareti. Gli parve di riconoscere le vicende di un romanzo arturiano che lo aveva sempre affascinato, in cui si narrava la storia di Garello che, dopo la dichiarazione di guerra del perfido Ekunaver, consegnata a re Artù da un gigante, lasciava la corte del suo sovrano per prepararsi alla guerra e cercare alleati per quest’ultimo.
Sulla destra dell’ampio camino erano invece raffigurati oltre che alcuni stemmi, anche figure al naturale di donne e uomini, fra i quali un biondo e prestante cavaliere che, appoggiato ad una balaustra ma ritratto di spalle, non aveva una precisa identità.
Come inseguendo un pensiero segreto lo sconosciuto sorrise poi spostò lo sguardo sugli arredi della sala. Appoggiati alle pareti si trovavano bauli, panche imbottite di morbide stoffe e cassapanche finemente scolpite. Accanto ad una delle finestre che si affacciava su uno sperone roccioso era invece collocato uno scrittoio dove erano alcune carte geografiche, numerosi manoscritti ed una pergamena con alcune insegne militari accompagnate da didascalie con notizie sul comandante o sul vessillifero di ciascuna insegna.
Sentendo un improvviso scalpiccio l’uomo alzò gli occhi verso la porta proprio mentre il conte Havemann faceva il suo ingresso nella sala.
“Siate il benvenuto nella Casa del nostro Ordine. L’amicizia profonda che mi legava a vostro padre mi ha spinto a convocarvi e ad offrirvi un’opportunità degna delle vostre ambizioni, che vi consentirà di realizzare i vostri sogni. Conosciamo la vostra passione per le armi, la vostra intraprendenza, il vostro focoso carattere, come voi conoscete il nostro ideale di servizio ai bisognosi, l’attività di ospitalità e di assistenza ai pellegrini, che svolgiamo nell’ospitale di questa città e in moltissimi altri, attività per la quale abbiamo bisogno di mezzi sempre più ingenti e che ci accomuna ai Templari. Con questi ultimi abbiamo sempre condiviso molti obiettivi militari e religiosi, ma, oggi, siamo intenzionati ad abbandonare la loro Regola. Molti Templari hanno, infatti, sostituito il rigore della loro disciplina con un’indulgenza permissiva che sconfina nell’eccesso. Le speculazioni politiche e gli intrighi hanno preso il posto degli antichi ideali.
Alcuni Gran Maestri, invidiosi della nostra autonomia e della sovranità incontestata di cui beneficiamo sulle terre selvagge e desolate del Baltico Orientale, sembrano intenzionati a voler costituire uno stato nello stato nel sud della Francia, nell’accessibile Linguadoca, dove molti ricchi proprietari terrieri catari o simpatizzanti di questi ultimi hanno loro donato cospicui possedimenti. Si dice che, in quelle terre, molte delle più alte cariche dell’Ordine siano ricoperte più spesso da Catari che da Cattolici e che alcuni Maestri templari abbiano segretari arabi e rapporti con le comunità ebraiche specialmente in campo finanziario. Questo ha suscitato enorme scalpore e sempre più numerose sono le accuse di corruzione, d’eresia, di apostasia che si levano contro di loro.
Siamo al corrente di voci sempre più insistenti di un’azione persecutoria in atto nei loro confronti che rende di vitale importanza trovare il tesoro dei Cavalieri del Tempio e recuperare alcuni importanti documenti prima che finiscano nelle mani degli Ospitalieri5.
Abbiamo ragione di credere che alcuni di questi documenti segreti siano in possesso di Rainoldo de Varena, maresciallo templare reduce da Gerusalemme, dove pare abbia partecipato alla campagna in Egitto, ed indicato come il prossimo Magister della Domus Templi in Regno Sicilie.
Attualmente egli sovrintende alla mansione di Castel Negrino, dipendente dalla precettoria milanese di Santa Maria del Tempio. Ora dovete sapere che la mansione di Castel Negrino è posta a controllo di un importante itinerario che salendo da Aicurzium a Lecco, prosegue per Varena, Colico e Chiavena, fino a raggiungere il Passo dello Spluga, principale ingresso dei pellegrini provenienti dal nord e diretti verso la pianura lombarda.
Poiché abbiamo saputo di un vostro incarico in quelle terre abbiamo deciso di affidarvi una missione a compimento della quale sarete abbondantemente ricompensato con la vostra ammissione, quale frates domus hospitalis Sanctae Mariae Teutonicorum6, nel Consiglio dei dignitari in una delle nostre basi in Prussia.
Il vostro spirito di osservazione sarà tutto ciò che vi occorrerà in questa missione per fornirci un rapporto dettagliato di tutto ciò che scoprirete.
Il brindisi che seguì, con un ottimo bozanarium e la consegna allo sconosciuto di parecchie monete d’argento e d’oro zecchino, non lasciarono dubbi circa la decisione presa da quest’ultimo che, subito dopo essere stato congedato, si apprestò a ripercorrere il cammino fatto con il servente e a raggiungere il cavallo che lo attendeva legato nei pressi del castello.

5. Ospitalieri. L’Ordine dei Cavalieri dell’Ospedale di San Giovanni, detti anche Giovanniti, era insieme a quello dei Templari e dei Teutonici, tra i principali ordini cavallereschi sorti durante le Crociate. I suoi membri, cavalieri col mantello nero e croce bianca, erano contemporaneamente monaci e guerrieri con il compito di difendere la Terrasanta e i regni cristiani d’Oriente. Vennero considerati rivali dei Templari poiché questi ultimi sostenevano i Guelfi mentre gli Ospitalieri parteggiavano per i Ghibellini.
6. Si tratta dei Cavalieri Teutonici, il cui nome originario era Ordine dei Cavalieri di Santa Maria in Gerusalemme. Come quello dei Templari e degli Ospitalieri aveva una rigida organizzazione gerarchica, a capo della quale c’era un Gran Maestro. La missione era chiara ed univoca: battersi contro gli infedeli in nome della Croce.

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