Mai per sempre

di

Sarah Zingales


Sarah Zingales - Mai per sempre
Collana "Le Schegge d'Oro" - I libri dei Premi - Narrativa
14x20,5 - pp. 98 - Euro 11,00
ISBN 9791259512277

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In copertina: fotografia dell’autrice


Pubblicazione realizzata da IL CLUB degli autori in quanto l’opera è 1^ classificata nel concorso letterario Jacques Prévert 2023 sezione narrativa


Dagli scenari della Val d’Elsa, puntellata da tronchi arcuati e tralci rigonfi, ai carruggi di Pisa, stretti come fili di una ragnatela, sino al tintinnio dei pescherecci ormeggiati nel Porto Mediceo di Livorno, si muove il lento moto delle combinazioni di vicissitudini umane e fra itinerari di angoscia, passione ed affanni, sopravviene l’accettazione che la vita scorre come l’Arno, che letargico ed incessante nel proprio alveo, suggerisce che l’unica abitudine certa, è quella di non abituarsi a nulla.


Motivazione dell’attribuzione del I posto al concorso letterario “Jacques Prévert” 2023 sezione narrativa

«Nel libro di Sarah Zingales, dal titolo “Mai per sempre”, le molteplici manifestazioni del vivere si alternano e si miscelano nel flusso vorticoso delle vicende e delle metamorfosi dell’esistenza, dove emergono scenari assai differenti, tra sentimenti e passioni, inquietudini ed affanni esistenziali, fino alla capacità di “accettazione” della vita che diventa consapevolezza della limitante condizione umana davanti al Tempo e al Destino che dominano l’intero scenario narrativo.
Ecco allora che la storia di Sofia e della sua famiglia, si intrecciano con una grande delusione sentimentale che crea sconforto nella donna perché si sente ferita nell’amore che stava donando.
Nella fase finale del processo narrativo si apre una sorta d’indagine che verrà condotta da Sofia e Diletta per scoprire le vere cause della morte del padreo.
La vicenda assumerà dei risvolti incredibili ed impensabili quando la verità verrà alla luce: si assisterà ad un colpo di scena tragico e diabolico.
Sarah Zingales crea ed alimenta una trama interessante che coinvolge il lettore anche grazie ad una scrittura sempre precisa e penetrante, capace di alimentare gli impulsi di un intreccio narrativo che regala inaspettati colpi di scena.
Sarah Zingales offre una visione narrativa che penetra nel profondo degli universi emozionali dei protagonisti e si avverte la continua tensione nel modulare le cadenze interiori che si miscelano con le vicende esistenziali e le evidenze della sua intenzione narrativa.»

Massimo Barile
presidente della giuria del premio letterario
J. Prévert 2023 sez. narrativa


Mai per sempre


A Sofia

MAI PER SEMPRE

Mai
per sempre
parole così distanti
da attrarsi irrimediabilmente
che quel mai
può divenire sempre
e frantumarsi
come non mai.

da “Temporali dell’Anima” di Sarah Zingales


Nell’appartamento situato in una stretta stradina del centro storico di Livorno, Sofia barcollò fra gli scatoloni che ostacolavano ogni suo movimento.
Gli addetti della ditta di traslochi, le avevano accatastato anni di vita nella maniera più improbabile ed ora toccava a lei sbrogliare la matassa.
Tutto pareva inutile ed importante allo stesso tempo.
Dalle finestre spalancate, affacciate sul cortile interno dell’antico palazzo, arrivava l’aria umida e tiepida di una giornata di sole e lo sciabordio dell’acqua salmastra proveniente dalla vecchia darsena, ove il libeccio trasportava il tintinnio dei pescherecci ormeggiati nel caratteristico porto Mediceo.
Sofia si specchiò in una delle ante della bifora e subito dopo nell’altra, come faceva nelle vetrine dei negozi per verificare se l’immagine successiva di sé stessa, fosse migliore della precedente.
Osservò le sue curve sinuose, perfettamente proporzionate ma si spazientì, perché al loro posto avrebbe voluto spigoli.
Trattenne il respiro per assumere una linea slanciata ed infine sbuffò presa dallo sconforto.
Sistemò i folti e lunghi capelli ondulati con un fermaglio ma i ricci cadevano scomposti sul viso rotondo e gli zigomi alti.
Sul trespolo della voliera Atos si muoveva in maniera agitata e disordinata.
Alzava la cresta a ventaglio, all’erta e incuriosito dagli spostamenti degli ultimi giorni.
In atteggiamento di difesa, gonfiava ed arruffava il piumaggio smeraldo con spruzzi dorati ed emetteva acuti soffusi, come se si sentisse in pericolo e cercasse di apparire più grande.
Sofia trascinò un imballaggio sino al frigorifero.
Vi salì sopra per afferrare il cesto della frutta.
La superficie della confezione sfondò a causa delle rotondità del suo fisico e si sentì come sopra ad una zattera che ondeggiava in mare aperto. Riuscì a malapena a stare in equilibrio, senza orizzonti in vista che la tranquillizzassero.
Pensò a sua madre che, in fuga dall’Ucraina, sarebbe arrivata l’indomani.
Appuntamento presso il centro accoglienza della città.
L’incontro la angosciava. Non voleva ospitare la donna nel suo appartamento.
Aveva organizzato il trasloco il giorno precedente all’appuntamento, per avere la scusa che tutto fosse fuori posto.
L’avrebbe accompagnata nell’appartamento di Pisa, dove aveva vissuto, di appartenenza di Gelsomina prima e Diletta dopo, perché riallacciare un legame tranciato all’improvviso, non sarebbe stata cosa facile.
Soprattutto per il momento storico.
Da settimane, le immagini di morte e distruzione arrivavano dallo schermo del televisore.
Certo, si era allarmata, nonostante, sin da febbraio le telefonate della madre, divennero quotidiane e si era documentata Sofia, sulle cause del conflitto, le cui fasi principali sconfinavano tra i limiti personali e quelli geografici.
Prese una banana.
Aprì il sacchetto di goji misto a pistacchi e noci pecan.
Scavalcò con fatica, gli scatoloni dissestati sul pavimento e spingendoli in qua e là, creò un varco per arrivare a riempire la ciotola dove Atos stava emettendo un fischio per attirare attenzione.
Poi cercò la moca.
La riempì d’acqua e polvere macinata sino quasi a farla esplodere, come se dalla bevanda dovesse recuperare tutta l’energia e l’ottimismo che aveva perduto durante quella interminabile giornata.
L’aroma si sparse ovunque, quasi fosse l’effluvio benedetto dell’incenso.
Bevve, soffiando rapidamente, tentando di ricaricarsi ad ogni sorso.
Si sedette sul pavimento shabby chic, passando la mug fumante da una mano all’altra, per poter adagiare i glutei abbondanti.
Dal basso tutto pareva ancora più arduo da organizzare.
Tirò a sé un borsone rigonfio e lo sistemò sotto al capo.
Appoggiò la tazza accanto a sé, allungò il corpo sul parquet che sapeva di colla e si assopì.
Quando aprì gli occhi, ci mise un poco a capire dove fosse.
Alzò il busto di scatto, cercando di allungarsi verso una sedia poco distante.
Nel movimento rovesciò la tazza accanto a sé che creò una macchia scura che il pavimento assorbì all’istante.
Presa dalla fretta, si tolse la maglietta che utilizzò per asciugare la chiazza ma i contorni scabri avevano forgiato l’impronta di un ricordo sospeso.
Sfregò a più non posso, aggiungendo dell’acqua, emettendo un mugolìo sordo, misto a pianto.
Il marchio prese forma, come un timbro indelebile.
Con la maglietta in mano ridotta a cencio, guardò la stampigliatura.
Sentì le lacrime rigarle il volto che scacciò strofinandosi velocemente il volto.
Poi lanciò il cencio in direzione di un angolo sgombro, che prima di cadere a terra, toccò una delle pareti, lasciando una scia color caffè latte.
In segno d’arresa, con la bandiera ridotta a brandelli, pensò che nonostante il boicottaggio forzato, la coscienza le stava ripresentando il conto.

***

In fuga da Kharkiv circa un mese dopo lo scoppio del conflitto, Diletta arrivò a Livorno stremata dopo l’odissea dell’attraversamento della frontiera russa, sotto le bombe e la minaccia dei fucili.
Si sentì fuori asse proprio come la torre pendente toscana.
Quel tiepido giorno di fine marzo, come d’accordo, Sofia si recò al PalaModì della città per incontrarla, ma attese qualche ora prima di rivedere la madre.
Gli sfollati erano stati accompagnati presso la questura di Livorno che assieme alla Prefettura e alla Protezione Civile, impartiva informazioni per le formalità burocratiche, i controlli sanitari anti-pandemia e la distribuzione di mascherine.
Cercò di scorgere la figura della madre, al di fuori delle transenne, legate l’una all’altra da nastri giallo-azzurri, per delimitare la zona degli arrivi.
Come Sofia, un capannello di gente si era distribuita lungo le barriere facendosi posto in prima fila, gesticolando animatamente per farsi riconoscere da familiari e amici.
Quando Sofia intravide Diletta scendere la scaletta di uno dei bus della solidarietà, ricurva su sé stessa, in spalla una borsa di plastica, con una evidente scritta di una multinazionale svedese, tirò un sospiro di sollievo misto ad affanno.
Aveva sentito la madre al telefono sino alle ventiquattro ore prima e poi più nulla.
Fece un balzo in avanti, facendosi largo fra la moltitudine e si aggrappò alla barriera come al cancello della scuola materna, quando da piccina attendeva, impaziente, l’arrivo della madre per fare ritorno a casa.
Come nel peggiore degli incubi però, la voce non le uscì schiacciata da un vociferare confuso all’unisono. Pareva che l’emozione avesse paralizzato tutti i muscoli del corpo.
Riuscì, tremante e con fatica, a fare un passo indietro.
Seguiva con lo sguardo quella esile figura, divincolarsi fra donne e bambini con ancora il terrore negli occhi e lo sguardo verso il cielo, per assicurarsi che nessuno bombardasse.
Anziani in ciabatte e l’esistenza stravolta di chi ha perso tutto. Nulla pareva reale se non il sogno che accomunava ognuno di potere rientrare in patria.
Ragazze giovanissime, rimaste vittime di esplosioni ed il corpo avvolto da bendaggi.
Visi cerei e sparuti, con le labbra serrate, come se i volti avessero ingoiato il sorriso.
Il sole stava lasciando spazio a minacciose nuvole quando, improvvisamente, una pioggia incalzante, si abbatté sulla città.
Distratta dai difficili coordinamenti degli operatori che si dimenavano, per gestire il flusso migratorio che cercava rifugio dall’acquazzone, Sofia, come un parabrezza senza tergicristalli, perse di vista, in pochi attimi, la madre assente da anni.
Cercò di dimenarsi fra la folla che stava accalcando la recinzione e che, in modo disattento, apriva i parapioggia comparsi improvvisamente, come se tutti avessero controllato il meteo.
Un senso di debolezza mista a nausea la colse inaspettatamente.
Sentì un forte ronzio nelle orecchie simile al suono di una sirena e poi più nulla.

***

La drammatica cronologia del conflitto Russia-Ucraina che iniziò nel corso del 1991, con lo sfaldamento dell’Unione Sovietica e l’indipendenza disomogenea delle ex Repubbliche Sovietiche, ripercorreva gli eventi principali di una storia nella storia.
Quella di Sofia.
Con la rivoluzione arancione, del 2004, l’Ucraina rimasta impantanata in anni di corruzione e mancanza di crescita economica, aveva cercato di stabilire relazioni con l’Unione Europea al fine di attrarre investimenti nel Paese, allentando i legami con la Russia.
Nel corso dello stesso anno, Sofia ignara dei conflitti al di fuori dei propri confini, acconsentì al trasferimento di Diletta in Ucraina, interrompendone la quotidianità.
Nel febbraio del 2014, a Kiev, dopo mesi di proteste in piazza Maidan, il popolo ucraino riuscì a cacciare il presidente filorusso Yanukovich, reticente a firmare il trattato di associazione e creare una rapida serie di cambiamenti, nel sistema politico dell’Ucraina, fra cui il ripristino della costituzione.
Dopo la rivoluzione del 2014, la Crimea appartenente all’Ucraina fu occupata e annessa alla Russia.
Con una insurrezione lampo, Vladimir Putin incoraggiò la rivolta dei separatisti filorussi nel Donbass, regione delle grandi miniere di carbone e cuscinetto di sicurezza nell’ipotesi di un allargamento della Nato in Ucraina, violando il memorandum del 1994 dove l’Ucraina si impegnò alla rinuncia delle armi nucleari in cambio di assicurazioni e indipendenza da Russia, Stati Uniti, Regno Unito, Cina e Francia.
La guerra che ne deriverà negli anni successivi causerà la morte di ventiduemila persone.
Nel 2017 Sofia darà l’ultimo saluto a nonna Gelsomina e undici mesi dopo a nonno Dante.
Nel dicembre del 2021 la Russia avanza la pretesa che l’Ucraina non si sarebbe unita alla Nato, minacciando una risposta militare se tale richiesta non fosse stata soddisfatta.
Gli Stati Uniti e altri membri della Nato respinsero simili pretesa, avvertendo la Russia di applicare sanzioni rapide e severe se avessero invaso l’Ucraina.
La guerra energetica messa in atto dalla Russia contro l’Occidente Europeo viene rilanciata con vigore. Il colosso di Stato Gazprom annuncia che chiuderà i rubinetti del Nord Stream che rischia di inguaiare Germania ed Italia, mettendo al lastrico aziende di primaria importanza ed impoverire i budget familiari.
Nel novembre del 2021 un gelo interiore pervade Sofia, travolta dall’ennesima delusione personale, proprio mentre tra Russia ed Ucraina inizia il conflitto che espanderà l’effluvio di morte e distruzione lungo i confini mondiali.
Nel febbraio 2022 la Russia invade l’Ucraina segnando una brusca escalation della crisi russo-ucraina e Diletta torna in Italia.

***

Diletta aveva mosso i primi passi nella cucina nello spazio campestre della Val d’Elsa, puntellata da estese di vigneti e ulivi.
Mentre nel cortile campeggiava il vociare allegro delle amichette intente a giocare a palla prigioniera e un, due, tre, stella, Diletta ritta sulla sedia della cucina, con il grembiule legato con un fiocco, si divertiva a trascorrere i pomeriggi a fianco alla madre, ad affondare le manine nella fontanella della farina sino a comporre una palla che poi lasciava lievitare. Stendeva con la bottiglia la frolla ricamandone la pasta con la punta di un coltello, lasciando libera la fantasia di creare fantasiose sagome che finivano sulla teglia vicino al fuoco per la cottura.
Seguiva con attenzione le istruzioni per la preparazione della finocchiona che accuratamente veniva dosata con le spezie e all’occorrenza correva nei campi, inseguita da nugoli di farina macinata a pietra, con il cesto di vimini dondolante, in cerca del finocchio selvatico per inserirlo nella carne macinata che poi veniva insaccata in cieco di manzo.
Il lungo tavolo era organizzato affinché tutti gli ingredienti, in ordine sparso, fossero predisposti per la preparazione del menù affinché però, tutto fosse in ordine all’arrivo dei clienti nella locanda.
A pomeriggio inoltrato, quando l’effluvio dei biscotti sminuiva l’incantesimo dei giochi, Diletta, dal cuore grande come nonno Almirante, invitava le amichette che, in attesa dei prelibati dolcetti, si aggrappavano al davanzale della cucina al piano terra.
Ai tempi di nonno Almirante, la casa colonica, nucleo centrale del podere, racchiuso nella propria essenzialità e costituito da vari appezzamenti di terreno, disseminati da case modestissime, con ordini di arcate in cotto, comprendeva il piano per i lavoratori, la stalla, il forno, l’aia e le caratteristiche di un feudo.
I territori erano suddivisi in piccoli poderi dati in uso ai contadini, un tempo lontano chiamati vassalli, mentre la riserva era destinata al “signore”, quella che Almirante faceva coltivare per sé.
Nella casa colonica oltre ad avere posto la propria residenza, Almirante, uomo onesto e concreto, dotato di straordinaria umanità, ospitava i coltivatori che avessero voluto usufruire del generoso vitto e alloggio.
L’intento era quello di sostenere la crescita di Dante, nato dopo la morte della moglie, affidandone la cura alle nutrici del podere, godere dei piaceri della campagna e assicurarsi della buona salute dei braccianti.
Poco prima della nascita del figlio, in seguito al Patto d’Acciaio, l’alleanza fra Mussolini ed il Führer che decretò l’entrata dell’Italia nella Seconda guerra Mondiale, lo spirito antifascista di Almirante si fece sempre più acceso ed iniziò l’attività clandestina per sostenere i partigiani, che dalle montagne scendevano, stremati, nel casolare, per trovare cibo e munizioni.
Per la statura imponente, Almirante, poteva ricordare la caricatura di un gigante dal buon cuore, come il cartone animato, sponsorizzato dalla Ferrero ai tempi del Carosello, dallo sguardo fiero e coraggioso, capace di farsi valere dalle malefatte di Joe Condor, che minacciavano il villaggio.
La casa rurale, disposta su due livelli, aveva il piano terra che si apriva su una grande stanza, semplice ed essenziale. L’unica ad uso comune.
Il focolare, rivolto verso una parete, era rialzato dal pavimento con spazio ai lati, per potersi sistemare vicino al fuoco durante l’inverno.
La madia, in legno di pioppo, serviva per fare riposare l’impasto del pane.
La vetrina, con le ante in vetro, era formata da due mobili in legno massiccio sormontati.
Il lavandino, in pietra, era collegato da una pompa al pozzo esterno e l’enorme tavolo che occupava tutta la stanza, attorniato da tronchi d’albero mozzati e sedie impagliate.
Al di sopra del lavello, un mobiletto pensile ad una sola anta utilizzato come dispensa per il cibo avanzato, che sarebbe stato consumato al pasto successivo.
Una scala in legno interna, conduceva alla colombaia, adibita all’allevamento dei piccioni, la cui carne, considerata assai pregiata per le proprietà nutritive, veniva arrostita davanti al fuoco, poiché proferiva il potassio necessario per il buon funzionamento dei muscoli.
Al di fuori, l’aia dove la cura degli animali da cortile, non dava mai tregua. Non esistevano avvenimenti che potessero distogliere i contadini dalle loro incombenze, se non il tranquillo ritrovarsi attorno alla grande tavolata per consumare i genuini pasti, che lo stesso Almirante si preoccupava di preparare, colloquiando serenamente delle vicissitudini della giornata.
Per la sua capacità di saper pensare in maniera funzionale e sempre pronto a gestire situazioni complesse, ad Almirante ci si rivolgeva per consulti, problemi finanziari ed anche personali, come fosse il capo famiglia.
Almirante aveva adibito un dormitorio al piano superiore affinché i contadini che non volessero fare ritorno nelle loro baracche, potessero usufruire, a fine lavoro, di una branda confortevole, attrezzata a seconda delle stagioni.
Ripeteva a sé stesso che più i lavoratori stessero bene, più producevano.
Al canto del gallo, era il primo ad alzarsi per raccogliere le uova dal pollaio e verificato che ce ne fossero a sufficienza per una grande frittata, ringraziava, ad uno ad uno, i ruspanti per i generosi doni.
Dalla madia, alzava con cura l’impasto del pane e lo posizionava sul fuoco, il cui effluvio, una volta cotto, si espandeva al piano superiore, donando il buongiorno come una carezza.
Dante, contrariamente al padre, era istrionico con un eloquio vago e privo di dettagli, dal temperamento impetuoso, in continua ricerca di stimoli che potessero mantenerlo in uno stato di sollecitazione.
Sin da bambino aveva imparato, grazie alle premure delle balie, a manipolare le donne per ottenere attenzioni su di sé e in età adulta, sia per il volto perennemente imbronciato, sia per il fascino magnetico e lo sguardo ipnotizzante, aveva già più donne di quante potesse gestirne.
Dopo la morte di Almirante, i braccianti che grazie all’ospitalità dell’uomo erano riusciti a risparmiare abbastanza per sistemare le proprie umili dimore, lasciarono il casolare.
Dante prese in moglie Gelsomina, un imposto imperativo morale, atto a nascondere un concepimento avvenuto prima del matrimonio.
Con l’arrivo di Diletta, i coniugi decisero di sfruttare l’arte culinaria appresa da Almirante, per aumentare le entrate di denaro.
Sulla facciata anonima della casa, appesero una semplice insegna per attirare i viandanti che, percorrendo lunghi tragitti, potessero fermarsi per un poco di ristoro.
All’interno della cucina, nei grandi pentoloni di rame, bollivano per ore, zuppe di cavolo e cipolla, ribollita, ragù d’anatra e pappa al pomodoro.
Accanto alla vetrina, un lungo bancone in legno di noce, adibito a piccolo emporio, per la vendita di beni di prima necessità, venduti sfusi e impacchettati con carta paglia.
Al piano superiore, per chi lo richiedesse, si poteva usufruire di un letto confezionato con lenzuola in lino, in sostituzione alle brande.
Alla fine degli anni ’60 un piano regolatore urbanistico, atto a implementare l’attività edificatoria all’interno del territorio, trasformò l’aria periferica, in laccio strategico, per aprire la maglia frammentaria della viabilità, in nome di un interesse collettivo ed urbano.
Alcuni casolari furono adibiti ad attrezzature di interesse sovra comunale. Fra queste l’apertura di un centro, un edificio su tre piani, al cui piano superiore si trovavano ampie aule per l’insegnamento e per rappresentazioni teatrali amatoriali. All’esterno quello che era un campo aperto, era delimitato da un cancello d’ingresso ed un giardino attrezzato, arricchito da una zona verde, con panchine in ferro a doghe, ideate per il ritrovo spensierato occasionale.
Lo scopo di evitare lo spopolamento della zona e ridare valore al territorio, evitando la migrazione verso le città, ebbe un effetto boomerang.
Gli anziani che videro l’innovazione come uno sfregio su un’opera d’arte che loro stessi avevano forgiato, seguirono il flusso migratorio dei figli verso le città vendendo a stranieri che, nei casolari decadenti, venivano ispirati da forti emozioni.
Dante decise di vendere parte delle terre e mantenere la locanda.
La solitaria e bianca strada di campagna si trasformò, ben presto, in un crocevia che collegava, in un batter d’occhio, due arterie principali che raggiungevano le città in poco tempo.
Grazie allo snodo stradale che aumentò vertiginosamente il lavoro, la locanda dovette apportare importanti modifiche strutturali.
La toilette, fuori dall’uscio, fu annessa all’interno del locale.
L’anonima facciata, era stata dipinta di giallo vivo e la semplice insegna fu sostituita da una luminosa.
L’ampio locale a pianoterra, sino ad allora adibito a cucina e sala da pranzo, fu suddiviso in due vani e completamente modificato.
La cucina fu ricoperta di maioliche, con le ante in legno e l’aggiunta di una stufa economica ed un piano cottura a sei fuochi.
Appesi alle travi del soffitto sventolavano ventilatori a quattro pale ed il grande tavolo fu sostituito da altri di varie misure, apparecchiati con eleganti tovaglie in fiandra, piatti in porcellana opaca e bicchieri in vetro trasparente.
Sparirono il bancone adibito a piccolo emporio, la madia, la vetrina sormontata.
Sparì il lavabo in pietra.
Unico superstite, il camino, cuore pulsante di un trascorso che continuava a palpitare.
L’infaticabile lavoro di Gelsomina e l’aiuto di Diletta non erano sufficienti per gestire il flusso dei clienti che ogni giorno affollavano la locanda.
Il contesto organizzativo, fu strutturato attraverso una rete di conoscenze, tutte al femminile.
Furono ingaggiate Alma per il riordino delle camere, Filomena come aiuto cuoca, Irma per il servizio ai tavoli. Dante si occupava della cura degli animali da cortile.
Quando alla locanda si presentò Adelina, dallo sguardo acuto e penetrante, la giovane donna fu immediatamente inserita nell’organico, per le forme generose e le poppe abbondanti.
“Ma abbiamo personale in abbondanza” sbottò Gelsomina sbattendo rumorosamente il mestolo sulla pentola.
Dette un’occhiata di sbieco alla donna, evidenziando il disappunto, con uno spasmo fulmineo del viso che le contrasse i muscoli in una smorfia.
“Non stare ad abbaiare alla luna… se un si va all’Arno, un si vede l’Arno… piglierai tempo per te, suvvia” stridette Dante, come un falco che puntava alla carnosità, ben carenata, della preda.
Lanciò un’occhiata di alterigia verso Gelsomina il cui fascino, negli anni, sfiorì velocemente, come un fiore sopraffatto da coccidi latenti.
Teneva sempre i capelli striati di grigio, stretti in una coda di cavallo, indossava grembiuli mono colore, che libravano sul suo corpo asciutto, amplificando un fruscio, ad ogni passo, come vele al vento.
Un giorno, alla locanda arrivò Ray, un giovane risoluto di origine ucraine, dalle spalle larghe e la schiena ampia che si muoveva in atteggiamento dinoccolante, oscillando le braccia come volesse sempre spazio intorno a sé.
Sprigionava la convinzione di potersela cavare in qualsiasi circostanza e trasmetteva questa sensazione a chiunque si trovasse al suo fianco.
Appoggiata dalla madre, Diletta pregò il padre di dare, al giovane, un lavoro nonostante la perplessità di Dante che sentiva minacciato il suo territorio muliebre.
Poche settimane dopo, Gelsomina prese sul serio il consiglio del marito e, nel tempo libero, iniziò a frequentare i corsi di teatro, nello stabile a pochi passi dalla locanda. Il recitare a ruota libera le proprie emozioni, le concesse di conoscere sé stessa con una intensità e una verità differente. Le permise di fare i conti con le pulsioni che la caratterizzavano e che fino ad allora aveva represso.
Un pomeriggio, la donna, sorpreso il marito e Adelina in atteggiamento equivoco, esausta dei continui tradimenti, sbottò come la Mirandolina di Goldoni:
“Piace l’arrosto anche a me. E del fumo non so che farmene.”
Si fece liquidare una cospicua somma di denaro, sciolse la coda argentata, indossò un leggero vestito a stampa floreale ed entrando in cucina con la valigia in mano gettò il grembiule, come fosse un cencio.
“Diletta tu che fai? Vieni con me?”
Diletta stava preparando una crostata di mirtilli.
Teneva lo sguardo sul mattarello che rotolava sulla frolla, in cerca di un rifugio sicuro per nascondere la commozione.
“Ne abbiamo già parlato mamma. Io ti voglio bene ma ne voglio anche al babbo.”
Mise la pasta nella teglia e la riempì di composta con movimenti lesti.
“Non capisco però, perché te ne vai solo ora? Sapevi come era tuo marito… e finché morte non ci separi, non vale più?”
Gelsomina si schiarì la voce.
Si sedette accanto alla figlia con la valigia a fianco a sé.
“Vedi tesoro. Non tutto è fatto per durare. Ho vissuto sino ad ora, più di quanto mi resti ancora.
Oggi ho la possibilità di scegliere se volgere gli occhi al cielo non come atto di disperazione ma per vedere sorgere il sole, come se lo vedessi per la prima volta.”
“Ed io? Io che faccio mamma?”
“Puoi venire con me, te l’ho già chiesto. Sei maggiorenne. Non posso importi nulla.”
Diletta infilò la teglia nel forno.
Regolò i gradi di cottura.
Si ripulì le mani sul grembiule e si avvicinò alla madre.
“Ho solo capito che ora tocca a me sorvegliare quel grullo del babbo da tutte le sue bischerate.
Spero solo che Ray…”
Era in procinto di aggiungere qualcos’altro ma fu interrotta dal tacchettare dei passi pesanti dell’uomo, che entrò nella cucina fingendo di non avere udito il proprio nome.
Sapeva di stalla e di fieno. E aveva la barba incolta.
Pareva un buttero maremmano. Dallo scollo dello smanicato in fustagno fuoriusciva un vello lanoso, indossava calzoni cosciali in pelle di vacca ed un cappello in cuoio sul capo.
Dette uno sguardo di sbieco alle due donne.
Afferrò il fiasco sul tavolo e si versò del vino.
Bevve d’un fiato e si passò la mano sulla bocca.
“La mamma se ne va in città” sussurrò Diletta accarezzando i capelli sciolti della donna.
L’uomo fece un gesto di assenso con la testa.
Toccò il bordo del cappello in cenno di saluto e, senza proferire parola, si congedò falcando l’uscio.
Dopo qualche settimana dalla partenza della madre, Ray dovette lasciare il lavoro.
“Voglio venire con te.”
“Con me? E perché mai?”
“Perché… perché sto bene in tua compagnia.”
“Ma torno in Ucraina.”
“Bene. Ti accompagno.”
“Cosa hai in mente? Ho visto come mi giri intorno ma tu neanche mi piaci.” Diletta accusò il colpo ma come un guerriero cosacco, tornò al contrattacco. “Non posso pensare che te ne andrai senza neanche sapere quando tornerai. Il ristorante ha bisogno di te. Mio padre ha bisogno di te.”
“Ho già chiarito con tuo padre.
Tornerò quando potrò. Adelina si occuperà di tutto, non lo hai ancora capito?”
“Già. Adelina… Va bene. Allora ti dico una cosa. Sono io che ho bisogno di te. Non lasciarmi.”
Lo afferrò per un braccio ma lui si scostò bruscamente.
“Voglio che nessuno abbia bisogno di me. Crea dipendenza. Mi spiace Diletta.”
L’impalcatura delle aspettative creò uno scarto doloroso tra quello che Diletta avrebbe ambito e quello che di fatto era. Doveva rimettere la propria vita in asse ma la sensazione di sconforto continuava imperturbabile a consumare i suoi momenti di veglia sino a quando le si prospettò l’occasione di lasciare, per un periodo, la locanda.
Acconsentì per allontanare l’assillo di Ray.

***

[continua]


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