Nel Palpito del Mondo

di

Sergio Baldeschi


Sergio Baldeschi - Nel Palpito del Mondo
Collana "Le Schegge d'Oro" - I libri dei Premi - Poesia
14x20,5 - pp. 72 - Euro 7,30
ISBN 978-88-6037-9405

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In copertina: Immagine di Sergio Baldeschi


Pubblicazione realizzata con il contributo de Il Club degli autori per il conseguimento del 1° posto nei Concorsi letterari Marguerite Yourcenar 2008 e Marguerite Yourcenar 2009


Prefazione

Nella silloge di poesie “Nel palpito del mondo” di Sergio Baldeschi, emerge la volontà di fermare il proprio sguardo, sempre attento e critico, sulle manifestazioni della realtà,del vissuto, riguardo le condizioni esistenziali ed il comportamento stesso dell’essere umano.
Nella sua visione, la vita odierna “inibisce corpo e anima”, conduce nel disordine, disperde nei “circuiti dell’illusione”, scaraventa nel mare magnum delle simulazioni che non conducono a niente di positivo.
Ci si muove nella cruda realtà e si devono cercare di “sfogliare” le pagine della vita, con la speranza di contemplare nuove emozioni, nuove estasi: alla ricerca di una “scossa magica” che conduca in un “volo lirico” nello scrigno del cuore, nei ricordi della propria vita, nella “tela intima” del faticoso percorso, quasi a fare i conti con una tessitura “d’arazzi d’agropungente memoria”.
La sua parola si proietta “nel supremo frangente dell’assoluto” e si mette in ricognizione d’ogni movimento, sguardo, gesto, emozione come in un “transfert alchimistico” che intende ridisegnare la mappatura dell’esistenza: la miscela è complessa ed include la fragilità e la precarietà del vivere, i dolci disinganni e le “spettrali metamorfosi”, l’infinito amore nel suo animo e il silenzio struggente, la sensazione di vuoto lasciato dalla perdita della madre e l’abisso di sofferenza nell’inconscio dei “segreti irrisolti”.
La percezione sensoriale di tali evidenze è profonda ed il poeta, come fosse “reduce da una sofferenza nascosta”, plasma la sua poesia tra le fragili metamorfosi e una scenografia pervasa da continue visioni e suggestioni, in un “nudo abbraccio” senza tempo, in una infinita sensazione che oltrepassa simulacri temporali.
Sergio Baldeschi dissemina le sue parole nei sentieri enigmatici delle poesie con virtuosismi lirici, con una elegante tessitura esistenziale che fa da contrappunto ai frammenti memoriali: tutto viene ricondotto nella “magica scatola dell’anima” che contiene sempre la latente sofferenza nascosta, in costante sospensione tra lenta riemersione dagli “abissi dell’incompiuto” ed inaspettati palpiti del cuore che possano “inebriare l’anima di nuove libertà”.
Nella sua poesia si avverte questo processo in divenire alla ricerca di una “semplice formula dell’anima”, incisa nel cuore a testimoniare l’umano fato, l’abbandono di una vertigine dell’anima stessa, come a rigenerare il “palpito profondo”, fino alla rivelazione che desidera trascinare il cuore oltre la linea, alcune volte impenetrabile, del proprio Essere.

Massimo Barile


Nel Palpito del Mondo


Nel palpito del mondo

L’inebriante volo del palpito
fluisce dalle foreste del cielo…
la benefica oblazione di mia madre
l’elaboro all’offerta,
è un tintinnio d’amore
che nell’alfabeto dei secoli
spiccia… la mia ricca povertà.
Letizia e tormento,
si fondono
nell’empirica osmosi del cuore
e su fogli d’epoca
tracciano… sentieri di vita.
Madre… non lasciare mai
la gomena di fede che ci unisce,
illumina il percorso che mi attende
e svelami…
dove sono disseminate le trappole.
Getta la purezza della mia anima
sopra questo presepe mutilato
e trascinami, ora e sempre…
nel palpito del mondo.


Giusy

La mia amica Giusy
non vede più la sua ombra da troppo tempo,
è un tronco di marmo
adagiato e sorretto tra i braccioli di un letto,
ha grosse stigmate che le segnano mani e piedi…
carne sepolta sotto asettiche lastre,
sembra la pietà di Michelangelo.
Il suo respiro… è rimasto aldilà
di quelle pareti che la circondano,
schizzato via su un motorino pieno di sogni,
ora ha solo un buco nel collo
per sorseggiare l’aria
e grandi occhi per comunicare,
nella midriasi di due corolle…
un succo dolce e melodioso
le sgorga dall’abissale silenzio dell’anima,
mentre un sudore acido
lentamente la divora,
ha le sembianze di un formicaio
che scorre tra le piaghe spolpandone i contorni.
Spesso vado a trovarla,
lei è felice… lo percepisco dal suo sguardo,
che d’improvviso s’accende
e a ellisse, orbita e volteggia frenetico,
per lei… sono una clessidra di luce
che si spezza ad ogni battito di ciglia,
un raggio appoggiato sul comodino.
Malgrado la mia balbuzie…
sono tante le cose che racconto a Giusy,
a lei piace leggere il cielo attraverso le mie parole
e spaziare oltre i confini di quella finestra,
poco importa se il volo è a sobbalzi.
Quando lascio l’angolo ovattato di Giusy,
una fitta nel costato spoglia il mio sorriso,
la sua sbirciata obliqua… è sofferenza nascosta,
forse… gemella del mio cuore.

Opera 1° classificata al concorso Internazionale Marguerite Yourcenar 2009


La mia sfida d’amore

La mia sfida d’amore,
sarà la tua libertà…
getterò un’alzaia policromata,
tre fusi orari più in là del cielo,
per tirarti fuori
da quelle anagrafe
fredde e asessuate
che ti sbiancano l’anima.
Figlia di un nuovo destino,
sei esplosa nella mia vita
come primitivo albore,
dolce opalescenza di uno spasimo
che s’alterna e divampa
nell’assoluta assenza di te.
Io che sono reduce
da una sofferenza nascosta…
m’intingo di quella distanza
che nell’attimo traspare viva,
sospesa tra sussurri e desideri,
nell’anodino trascorrere
di un sogno che presto sarà realtà.
Solo una volta
mi sono specchiato
nel tuo silvestre sguardo
fatto d’arcobaleni spezzati
e di amari silenzi… ma dentro te,
c’erano pulviscoli d’immensità
che spaziavano rapidi
oltre l’azzurro più azzurro,
in un crescente clangore d’ali.
Il sentiero delle stelle
oramai è gravido nell’attesa…
con la tua fibbia sul fiocco di fata
preparami un sorriso,
perché presto io sarò li
e il mio gesto sarà…
la mia sfida d’amore.

Opera 1° classificata al concorso Internazionale Marguerite Yourcenar 2008


Ad un passo dall’amore

Ad un passo dall’amore
si spensero le stelle…
sotto i plumbei cieli dello zodiaco,
un’orchestra d’artiglieria
sibilava metalliche sinfonie.
Zahra, piccola bambola mutilata,
suonava a guisa di falce
il suo strumento di morte…
occhi infissi nel vuoto,
fuggiti dal seno minato
di una madre snaturata,
parlavano di epicedi in calzini bianchi
e di farfalle bruciate in volo.
Una voce da usignolo imbalsamato
grammofonava un’anima intrisa d’aceto,
che io… avrei voluto asciugare
e scagliare oltre le meridiane del mondo,
farle sentire l’affetto di una vera famiglia,
un pasto caldo,
raccontarle che i sogni esistono,
che la magia di una carezza, di un sorriso,
possono riaccendere qualsiasi cuore.
Ma la sua mano appesa alla mia sanguinava
come larva spezzata
nella sua fragile metamorfosi
e febbrilmente tremava i suoi ultimi palpiti.
Lembi di carne stringevano il sacro e il profano,
un rosario e un Kalashnikov,
gli unici amici che aveva
e così… per un perverso gioco del destino,
ci trovammo uniti, indivisibili,
in un abbraccio nudo, senza tempo,
infinite sensazioni crogiolavano in quel gesto,
che fu buio e luce
di una bambina soldato, diventata angelo,
proprio lì… ad un passo dall’amore.


Una guerra infinita

L’iconografia della paura
passa in rassegna
sulle strade di Kabul,
screziati lembi di luce
fiammeggiano la propria sorte
su obici e mine.
Nel deserto Afgano,
la perversione
sboccia da perfide ombre,
riaccende aridi spettri
e nell’aria brilla…
tutto il suo carico di morte.
Una terra imbottita d’odio
saetta nel cielo
una folgore carica di pietà,
offerta sacrificale
per i templi dell’orrore.
L’anima si fa diafana,
uno stupore implume
accinge lo sgomento,
stille d’eterno
carosellano un’alba di sangue.
Occhi vuoti
come fondi di bottiglia,
ricompongono le spoglie
di generosi angeli;
il palpito s’aggruma d’incognite,
mentre un sogno di libertà
asfalta nuove speranze
e ricuce ghirlande d’amore
ai simulacri del tempo.
Domani,
un’altra battaglia ricomincia,
perché la pace,
questa pace, è davvero…
una guerra infinita.


Haftling 165.820

Haftling 165.820
non è Abracadabra, né un numero primo…
ad Auschwitz, questo era il mio nome,
mentre Arbeit Macht Frei
era il nome del mattatoio
dove spolparono la mia anima.
Quindici anni
e scoprire del mondo…
la faccia più oscura e devastante,
traghettato negli inferi deserti dell’odio
a spellare l’adolescenza
sui fili spinati,
cavia inerme,
perennemente braccata
dall’ombra del provvisorio.
Da rigurgiti di tempo,
creste di cenere
fioriscono memorie su manti di neve,
risento l’impietoso ritmo dei passi
allungarsi famelico
e implacabili uniformi nere
rapire il mio cuore.
Rivedo i grugni metallici
di cinici Crucchi
bruciare i veli dell’amore,
ingabbiare arcobaleni
ed inchiodare nel cielo
la cruda realtà
che tramutò l’uomo in bestia.
Fui sopraffatto da sprangate,
marchiato con la stella di David
e gettato con altre anime
dentro funesti blocchi di cemento
dall’atmosfera scleroticamente funebre…
pigiami a righe e zoccoli pesanti
facevano parte di un progetto criminale,
di una coazione planetaria, universale,
un martirio sposato
dalla profezia di un pazzo.
Come sardine,
fummo stipati su letti a castello…
sembravamo la prospettiva perfetta
dei loculi di cimitero,
così freddi e scricchiolanti d’ossa.
Nell’ossequiosa impotenza vegetativa
non potevamo negare di esistere,
zombi addestrati a tutto,
arrancavamo nel nulla assoluto
cancellando le menti
nell’oscura traversa della vita.
Un manipolo di automi deformi,
stillavano le proprie risorse
nell’involuzione infame dell’essere
e gettavano emaciati carichi di luna
sotto ritagli di coperte.
Pupille forgiate sotto spruzzi di piombo
tremavano febbrilmente
nell’infame gioco del destino.
Rantoli secchi ed ansimanti
lentamente si spegnevano
nel muto vespro della sera,
ad effetto domino
cadevano l’uno sopra l’altro…
elmetti e stivali di cuoio
folleggiavano deliranti
sopra un nauseabondo puzzle di cadaveri,
danzavano sulla dignità,
violentando sogni e speranze,
mentre lunghe lingue di fuoco
inghiottivano per sempre…
il sangue dei vivi.
Facevo già parte dell’eterno,
quando un’orma di libertà
mi divelse dal respiro della terra.
La mia giovane pelle,
fatta forse di una scorza speciale,
si ritrovò tra le braccia di un soldato
dall’accento sconosciuto…
a quel gesto di grande umanità,
la mia bocca impastata, collassata,
ebbe solo la forza di balbettare:
il mio nome è… Haftling 165.820.


Un maledetto pugno di dollari

In quest’andare un po’ sbiadito,
una falsa scenografia di colori
proietta sul divano la mia noia…
la calibra di obsolete visioni
e rumori inquisitori.
Una volta c’era il cinema
ad alzare al cielo le mie piume,
a trascinare il DNA
dentro spirali di celluloide,
dolcissimi videoclip,
entrati di prepotenza
nella magica scatola dell’anima.
Rivedo l’ologramma dei sogni,
inchiodato su una sedia di legno
del vecchio teatro di Montecerboli,
ieratiche immagini
che sfogliavano lo stupore
nelle grandi corolle di un bimbo,
virtuosismi che il cuore
alitava su lucenti nastri di luce.
Nel buio della sala,
annodavo il pomo d’Adamo
a un’irreale silenzio,
mentre tra uno scoppio di gomma
e un biascicare di semi,
ruggenti sensazioni
prendevano corpo…
ricordo l’aspro odore
dei Western di Sergio Leone,
penetranti
come un’essenza feroce e primitiva;
erano gli anni dorati
di Clint Eastwood,
angelo peccatore
dal sorriso velleitario;
gli anni della Cardinale,
fresca e docile cerbiatta
che scalpitava
sulle feconde note
di Ennio Morricone
e occhieggiava istinti felini
sotto l’ombrellino
trinato di malizia.
Elitario il senso
che radunava il fervore
alla fonte di quelle immagini…
dissetandolo di pura fantasia.
Ma le sequenze,
sono come noi…
avanzano impietose
lungo la strada dei ricordi,
invecchiano e poi muoiono,
portandosi dietro
una nostalgica scia
di miti ed eroi.
La suspense,
che pennellava il palpito
a viventi quadri mitologici,
sembra svanita, dileguata,
nelle oscure selve dell’etere.
Solo qualche infiorescenza
d’eterna suggestione,
forse illusa di farmi piacere,
compare di tanto in tanto…
sono i gloriosi ritorni
di vecchi lungometraggi,
ancora brulicanti
di profonde risonanze.
La pellicola della vita
però… è un’altra storia,
nessuno può cancellarla
nemmeno…
un maledetto pugno di dollari.


Brivido d’amore

Nel difforme tumulto
d’orpellante sentimento,
s’addensa l’apatia
che non corrisponde più
all’attesa degli eventi.
Dove sei madre?
In questo cielo
incalzato da lividi rialzi,
non c’è dispensa d’amore
che possa ricoprire
il vuoto che hai lasciato…
getto ponti a dialoghi e sguardi
in sinestesia con altro luogo,
altro stadio,
ma lo spazio che ci divide…
sembra uno scudo impenetrabile,
una spada rovente
che brucia gli occhi e taglia il cuore.
Qui… tutto parla di te;
piccole cose…
coriandoli di vita
dispersi dentro un cassettone di rovere,
o nella tazzina di un caldo caffè
che amaramente sorseggio
e mando giù.
Mi sta stretto madre
questo infinito
che cresce oltre l’infinito;
vorrei virare
verso gli abissi della tua immensità,
sulle rotte che azzerano il tempo
e trasmutano in passato
l’essenza del divenire.
Sono fermo, immobile,
appostato sul valico della luce…
come un epeira
ricamo trame di speranza
ed affido all’anemofilia di un bacio
il mio dolce brivido d’amore.


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