A Romea e Ombretta,
sempre nel mio cuore.
A Luana e Federico,
mi ricordano cos’è l’amore.
CAPITOLO 0
Il dubbio
Una vita normale, penso si possa classificare così. Il desiderio della maggior parte delle persone è di avere una vita normale. Dopo essersi levati di dosso gli adolescenziali sogni di gloria, è il minimo sindacale che una persona si possa augurare. La normalità però non è mai oggettiva, come ogni cosa in questo strano mondo. Ogni attimo, ogni momento è una tessera di un puzzle che compone la propria esistenza e proprio come in un puzzle mano a mano che le tessere vanno completando il disegno, si intravede cosa si è costruito. Si visualizza il proprio operato. Non è una cosa banale e non tutti hanno il privilegio di riuscire in questa analisi. Anche l’età in cui si riesce a vedere quanto detto è importante perché chi ha la fortuna di visionare il disegno incompleto, ha anche la possibilità di cercare di cambiare le cose con pennellate di diverso colore. Ciò che si vede però, non sempre è quello che ci si era immaginati di vedere o quello che si pensava di aver costruito. Ecco quindi, che cominciano a cadere i primi avamposti di certezze e false convinzioni che avevamo fin lì utilizzato come cardini della nostra esistenza. Se si ha la forza e la volontà di affrontare un cambiamento, se non ci si lascia schiacciare dalla paura dell’ignoto, allora le cose che ci circondano improvvisamente mutano. Ogni cosa, ogni pensiero viene osservato da una angolazione diversa. Tutto ciò che conoscevamo o che ci ostinavamo a credere di conoscere ci riserva sorprese e ci rende consapevoli del cambiamento. Qualsiasi cosa vediamo amplifica una coscienza nuova, capace di farci realizzare le nostre reali dimensioni, sia fisiche che spirituali.
È un viaggio lungo e pericoloso, navigato su barche di carta nel mare agitato della follia, dove ogni porto non è più la propria meta. Un marinaio che non vuole più tornare sulla terra ferma, perché sa che nulla può più trovare di conforto nelle terre conosciute. Un uomo che si trasforma in cercatore di se stesso, spinto dai sogni e dai propri pensieri. Quello che non è lecito sapere è se alla fine questo viaggio ci farà approdare alle terre sospirate o si verrà inghiottiti dal mare della pazzia. Ciò che nessuno sa è quando il viaggio comincia e quando finisce, se tutto questo è reale o immaginario.
Ricordo di un paesaggio
Cinto d’asfalto l’animo mio soffre.
Alti palazzi scimmiottano finte imponenze
orde di frenetiche formiche
rincorrono invano briciole di ricchezza.
Un ricciolo di vento riporta alla mente
dapprima verdi e sinuose onde
e di spalla aguzzi tratti
ad interrompere vastità d’azzurro.
Sul viale chiome brunite scuotono il capo
dinnanzi a sittanta frenesia
un clacson mi fa tornar alla realtà
non c’è posto in città per la poesia.
CAPITOLO I
Dove sono?
Requiem
Mi volto verso il buio
che non può far paura, per chi come me
dal buio s’è formato.
Nessuna più la speranza
di tornar indietro
poiché non ha più senso
rivendicar del torto preso.
Sento l’aria di questo lugubre posto
a me tanto caro
nell’ora e nel gelido inverno.
Senza rumore, senza silenzio
il nulla ha preso il sopravvento.
Sono solo e la strada sembra lunga
non v’è che da immaginare l’alba.
Sono triste perché il mondo dorme
e dentro di me c’è il mondo.
L’alba arriverà laggiù.
Laggiù io, non ci sarò.
Ci sono momenti o periodi nella vita in cui credi di impazzire. Ogni cosa che ti circonda ti genera un immenso senso di disagio e talvolta questo disagio se prolungato, diventa profonda frustrazione. Vorresti che inesorabilmente le cose mutassero il senso di marcia, che la tua vita cambiasse in qualche modo. Giorno dopo giorno tutto diventa più difficile da compiere, anche le cose più banali o semplici si tramutano in imprese impegnative. La volontà di riuscirci è quella che si è persa, la forza di reagire. Una caduta in un pozzo senza fondo. Si vive questo precipitare nel vuoto e si percepisce un disallineamento con la realtà. Si avverte una asincronia con il tempo e il modo in cui stiamo vivendo. La lotta per tentare di tornare alla pari è un’ardita sfida, una corsa verso una via d’uscita. La vedi, la distingui e con ostinazione cerchi di raggiungerla. Qualcuno ti potrà dire che sei depresso, ma tu lotti per trovare la via, combatti una feroce battaglia. Poi un giorno, accade qualcosa che era solo nei piani del destino e tu ignaro, cadi nella rete e ti accorgi di essere sul fondo. Da questo luogo dell’anima soltanto, acquisisci la consapevolezza e sospinto da una forza che non pensavi di possedere riesci a colmare il vuoto. Con una potenza di dubbia natura riesci a raggiungere la fine del tunnel. Alle volte, però, raggiunto l’obiettivo, scopri che la porta d’uscita non è la fine, ma solo l’inizio di qualche cosa d’altro. Così accadde a me.
Improvvisamente la mia situazione era diventata insostenibilmente diversa. Tutto era cominciato a essere tremendamente immoto, silenzioso. All’inizio mi ero spaventato, quando d’un tratto, aperti gli occhi non avevo trovato più nulla di tutto ciò che conoscevo, che avevo di famigliare. L’oscurità mi avvolgeva e dentro di me sentivo un’incredibile sensazione di irrequietezza. Non ero legato, ma libero nei movimenti. Pensai con orrore a una qualche forma di cecità, ma anche i suoni erano scomparsi. Quale diavolo di malattia mi era venuta? Pensai. Eppure mentalmente ero lucido. Le cose non mi sembravano diverse da prima, forse mi era giunta una qualche sorta di pazzia? La sensazione di irrequietezza si faceva sempre più opprimente, come un peso sullo sterno che impedisce il respiro e che con immonda fatica, solo l’istinto di sopravvivenza riusciva a far vincere questa resistenza.
Non ricordo a cosa fosse dovuta questa sensazione, solo ad un certo punto riaprii gli occhi e mi sembrò di essermi risvegliato nel cuore della notte, dove non vedi nulla se non flebili ombre e senti suoni lontani che vivono la loro vita. A te non appartengono, è la vita di altri. Ti poni la domanda se sei sveglio o stai ancora sognando, ma non riesci a darti risposta.
Ero sdraiato, ma dove? Il pavimento era duro, ero per terra, forse ero svenuto. Faticavo al momento a muovermi, mi doleva la testa ed ero indolenzito nel corpo, probabilmente da una caduta.
Cominciai a pensare ad ogni genere di cosa, anche la più strampalata pur di convincermi di essere ancora vivo.
Un pensiero, ricorrente, aleggiava a cose del passato, a parole sentite o addirittura studiate. Così mi giunse alla mente Dante, che scrisse: Nel mezzo del cammin di nostra vita, mi trovai per una selva oscura. Questa frase benediceva questa mia situazione e una sorta di invidia pulsò nel mio cervello, perché almeno Lui sapeva dov’era. Lui sapeva di essere in una selva, reale o immaginaria che fosse, quella situazione se l’era scelta.
Ma io dove sono? Ecco cosa continuavo a ripetermi da quanto non lo sapevo nemmeno più.
Di libri d’orrore ne avevo letti parecchi e qualcuno anche di fantascienza e questa poteva essere una di quelle situazioni tipo rapimento degli alieni oppure prigioniero sacrificale per qualche rito satanico. Realmente cominciai a pensare di essere diventato pazzo, anche se non me ne rendevo conto. Dovevo trovare una chiave, una via che mi permettesse di uscire da questo buio, da questa nebbia.
La prima domanda che devo pormi è, perché sono ancora sdraiato? Riesco a muovermi? Pensai. Travolto dagli eventi mi ero addirittura dimenticato di muovermi. Dovevo cominciare a cercare un confine un limite a questa prigione o cos’altro fosse.
Mi accorsi in un secondo momento che pur non vedendoli, i miei arti sembravano rispondere agli stimoli. Stringevo i pugni e muovevo le gambe, tutto funzionava come doveva. Ero sdraiato perché sentivo una pressione sulla schiena e sembrava fosse un pavimento di pietra. Cominciai a tranquillizzarmi, almeno avvertivo la presenza di cose conosciute anche se la situazione in generale non migliorava.
Forse ero stato rapito per un riscatto, e messo in una sorta di pertugio come si sente usino fare in Barbagia, – ma io non sono ricco e nemmeno benestante – mi dissi, quindi chi diavolo poteva volere un riscatto da un impiegato?
È senz’altro qualcosa d’altro, di cui per ora ignoro il motivo, mi convinsi alla fine. Forse ho fatto senza volerlo uno sgarro a qualcuno o forse mi hanno scambiato per qualcun altro, pensai, del resto capitava molto spesso, sembrava assomigliassi a parecchia gente.
Comunque dovevo fare qualche cosa, mi girai lentamente carponi e cominciai a vagare nel buio. Questo limbo nebbioso mi avvolgeva e mi soffocava senza lasciarsi impietosire dalla mia innocenza.
Lo spazio attorno a me sembrava infinito e per quanto cercassi di avanzare, non raggiungevo nulla. Il pavimento era freddo ma non mi dava particolare fastidio, le ginocchia non dolevano nonostante la posizione accucciata. Avanzavo nell’oscurità, confuso cercando una fine, la fine di qualcosa. Una stanza, se questa è una stanza avrà pure una fine, mi ripetevo per motivarmi.
Vinto ormai e intento a fermarmi, sentii con le mani il pavimento cambiare direzione. Ecco finalmente la fine, oppure solamente un inizio. L’inizio di un muro.
Il muro di mattoni pieni, che ora toccavo, mi ricordava l’infanzia. Vicino a casa c’era una fornace, dove questi mattoni venivano cotti e lasciati ad asciugare, e noi ragazzi della via si andava a giocare là in mezzo. Ritornai lucido, sembrava che la parete piegasse un pochino, non era lineare. La parete sembrava essere curva, molto lievemente il muro si piegava verso l’interno come fosse un ampio cerchio.
Proprio un ampio cerchio, come la forma del camino della fornace. Il pinnacolo alto più di trenta metri che svettava là in mezzo e che con la sua bocca chiusa da una lastra di ferro, ci faceva immaginare l’entrata in un altro mondo.
Strisciando a contatto del muro, i ricordi cominciavano a schiarirsi e ad appropriarsi della mia mente. Proprio ricordando la bocca del forno, un pensiero mi lacerò il cuore appena improvvisamente toccai qualcosa di conosciuto.
Avrò le pulsazioni a mille, pensai, mentre con i palmi esploravo questo nuovo materiale. Più caldo. Era legno, senza dubbio e di forma rettangolare, dovevo provare a vedere se al di sopra di questo ve ne erano altri. Come avevo sospettato, ce n’erano altri. C’era una scala. Era quella scala? Quella di cui nessuno poteva essere a conoscenza, perché la immaginavo io, io solamente.
Una gradinata di legno che partiva dal cielo all’uscita del camino della fornace, che affondava le radici nella terra e scendeva fino chissà dove, perdendosi nelle viscere del mondo e della mia fantasia.
Se fosse stata quella, avrebbe voluto dire che ora ero sul fondo, dove la scala finiva e forse dove tutto finiva. Mentre lo sconforto mi avvolgeva la gola col suo soffocante scialle, giunsero al cuore parole che avevo scritto anni prima e che mai come ora parevano reali.
La stanza dei sogni
Una ripida scala s’impone all’abisso
chinando se stessa con feroce pendenza
che diviene affannoso l’incedere
e incupisce la sveltezza nel passo.
Raggi di sole si lanciano impavidi
nel baratro perdendosi nel vuoto,
come l’ardito da alte scogliere
si lancia sprezzante, sfidando l’ignoto.
Lamentosi e sinistri cigolii dai legni
animano sospetti e angosciosi timori,
rallentando l’incauto incedere
inarrestabile verso l’oscurità.
La fiamma sinuosa d’una candela
d’ipnotico danzare rapisce i pensieri,
disegnando variegate ombre nelle forme.
S’addolcisce un poco, lo sguardo impaurito.
Un turbinio di ricordi risorge dal buio,
sollevati come foglie da favonio autunnale.
In questo regno, tutto è fragile
anche il solo batter di ciglia
basterà a far svanire tali fatui frammenti.
Ecco forse, ora comprendevo meglio dove mi trovavo, o almeno tentavo di convincermi per dare un senso a questi interminabili momenti di solitudine. Cercai di nuovo il gradino di legno per avere nuovamente un contatto, una materiale conferma. Mentre afferravo di nuovo il pianale però, venni sommerso da una innaturale violenta stanchezza, che mi fece cedere le braccia e il viso picchiò il suolo. Non capivo se a dolere fosse più il volto o il cuore pieno di terrore. Mi sentivo crescere dall’interno un mortale torpore che saliva lentamente alla testa, come le nebbie d’autunno in campagna volgono al cielo. Strinsi i pugni dalla rabbia, ma ormai ero come un pugile suonato, che al tappeto attendeva la conta dei dieci numeri che decretano la sua sconfitta.
Di nuovo ignaro di tutto rivolsi a fatica lo sguardo alla terra. Intontito e costretto al sonno da arcane subdole forze, che riportarono la mia anima nuovamente verso luoghi scuri e lontani.
Di nuovo verso il nulla.
[continua]