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Truman Capote







(Articolo di Massimo Barile – Rivista Il Club degli autori n° 187-188-189, Novembre 2008)


Truman Capote:
Sull’orlo dell’abisso. A sangue freddo

Truman Capote è uno scrittore che non è mai entrato nella mia personale biblioteca, mi riferisco a quella limitata serie di scaffali dove sono riposti i libri che tengo sempre a portata di mano: sono i libri degli scrittori che mi hanno affascinato, che hanno suscitato l’anima, che hanno aperto le porte a nuove prospettive. Truman Capote non è uno di questi scrittori.
Ho letto da tempo il famoso A sangue freddo, poi Colazione da Tiffany e, infine, l’ultimo Preghiere esaudite: se devo essere onesto, ciò che reputo più importante abbia mai scritto Truman Capote è l’intervista-saggio a Marlon Brando dal titolo Il Duca nel suo dominio. Una meravigliosa intervista che, tra le sue mani, diventa una sorta di breve racconto, a volte quasi autobiografico, che rende omaggio a Marlon Brando e a Truman Capote. Pare incredibile ma è vero.
Ciò che leggerete, in queste mie considerazioni e riflessioni, è esclusivamente ciò che ho avuto modo di capire mentre leggevo e rileggevo alcuni scritti di Truman Capote. Tutto ciò che scriverò vi sembrerà ammantato da una mia personalissima visione della sua figura e dalla scarsa, direi quasi inesistente, compatibilità tra me e Truman Capote. Solo seguendo questa direzione o linea di condotta, sono riuscito a scrivere alcune pagine che, comunque, vivisezionano e rendono al meglio la sua personalità e la sua esperienza letteraria.
Tutto ciò che leggerete è necessariamente crudo, spietato, cinico. Come Truman Capote.
I lettori più attenti avranno già capito cosa intendo dire. Buona lettura e mi raccomando… calma e cold blood.

Di sicuro A sangue freddo fu una nonfiction novel che dimostrò come Truman Capote sapeva affrontare le situazioni complicate, anche le più disperate e strazianti, sanguinose e devastanti. Quell’impresa, certamente difficile da portare a termine, lui era riuscito a svolgerla nel migliore dei modi, come un abilissimo chirurgo. Non era stato facile. L’assassinio della famiglia Clutter, un reale fatto di cronaca, accaduto a Holcomb, nel Kansas, nella notte del 15 novembre 1959, doveva essere riversato nel romanzo in modo “immacolatamente vero”, con neutralità. Dopo aver letto sul giornale che un agricoltore di nome Herbert Clutter, la moglie Bonnie e due dei loro quattro figli, sono stati uccisi dopo essere stati legati e imbavagliati nella notte, Capote si sente come attratto da questo sanguinoso fatto di cronaca. Poi, quando i due assassini Dick e Perry, vengono arrestati a Las Vegas e confessano di avere ucciso i quattro componenti della famiglia Clutter, Truman Capote si rende conto che sono proprio i due assassini che rendono la tragedia ancora “pulsante” e inizia a organizzare numerosi incontri con loro. Ecco allora che la costruzione del romanzo diventa molto più complessa, deve tenere conto di numerose testimonianze, di ricostruzioni delle scene del delitto, di rivelazioni più o meno veritiere, ed il tutto deve essere presentato in modo omogeneo e credibile più del vero. I due esecutori della strage, Dick e Perry, saranno processati, riconosciuti colpevoli di assassinio e condannati all’impiccagione.
Truman aveva speso sei anni della sua vita in quel maledetto posto nel Kansas. Fino all’esecuzione dei colpevoli. Truman Capote assisterà all’esecuzione su espresso volere dei due condannati. Questa vicenda avrà una forte e pesante influenza sul futuro dello scrittore. Gli effetti si vedranno qualche anno dopo, come un lento virus che si insinua subdolamente nel corpo e, solo dopo anni, esplode con tutta la sua virulenza.
Sei anni. Sei anni immerso completamente in una situazione mentale così stressante, in un lento recupero d’ogni notizia utile, in una costante scarnificazione della storia dalle considerazioni superflue, sempre intento a ricercare ogni minima traccia, come un segugio sempre a fiutare le prede: certamente non era stata impresa facile o raccomandabile.
Non a caso, il cinico Truman, dopo quell’esperienza così faticosa eppure vantaggiosa per le sue tasche, aveva voglia di godersela: a bordo dello yacht del vip di turno, sbevazzando ogni cosa e facendo incetta di snacks. Era giusto ed umanamente comprensibile.
Nel gennaio del 1966 era uscito A sangue freddo, enorme successo, un best seller che per trentasette settimane rimase nella classifica del New York Times. Un anno dopo il film con la regia di Richard Brooks, con Truman che non accettava le scelte del regista, l’innesto d’un nuovo personaggio nella trama, le varie modifiche, fino al punto di diventare rabbioso.
Eppure, apparentemente, tutto andava a gonfie vele. Truman Capote era onnipresente, pareva avere il dono dell’ubiquità: pubblicava Un ricordo di Natale, scritto dieci anni prima; poi aveva iniziato un nuovo racconto, Il Giorno del Ringraziamento, che sarà pubblicato nel 1968; partecipava a incontri e dibattiti televisivi, rilasciava interviste come fossero long drinks, si trastullava durante vacanze in lussuose ville, dava ricevimenti e si godeva il successo.

«È come entrare in cucina e trovare rifiuti sparpagliati ovunque» così s’era espresso quando gli era stata richiesta una riduzione cinematografica del romanzo di Francis Scott Fitzgerald, Il grande Gatsby, che pure apprezzava. Nel 1972, per la rete televisiva ABC, aveva realizzato un documentario dal titolo Truman Capote dietro le sbarre con lo scrittore che intervistava alcuni detenuti nella prigione di San Quentin e poi, perfino un programma nel quale intervistava famosi penalisti sul crimine in America. Insomma un filone d’oro da sfruttare nel miglior modo possibile.
Pochi anni dopo, a causa dell’alcol, durante le partecipazioni a trasmissioni televisive, interviste, o eventi pubblici, la sua condizione mentale sarà penosa: dal ridicolo si passerà al dramma.
Nel 1979 finalmente sembra risorgere, facendo appello a tutta la sua volontà: cerca di risollevare il suo stato di salute, si cura con attenzione, fa una dieta, un trapianto di capelli, un lifting. Cerca anche, disperatamente, di riprendersi a livello mentale e affitta un piccolo studio che dovrebbe essere il suo rifugio sicuro dove scrivere con la massima concentrazione. I racconti che scriverà in questo periodo daranno vita a Musica per camaleonti e Truman, con grande enfasi, affermerà: «Vi è in esso tutto ciò che io so a proposito dello scrivere. È quanto di meglio io possa produrre, e voglio che tutti vedano che è il lavoro di un grande scrittore. Quando verrà fuori, l’anno prossimo, i miei amici ne saranno molto orgogliosi».
Non passerà un solo anno che, dopo aver freneticamente viaggiato tra America ed Europa, quasi a dimostrare a se stesso che era tornato ad essere il grande Capote, “The Genius”, dovrà affrontare l’ennesimo crollo fisico: le frequentazioni rischiose, gli anni d’uso e abuso di alcol, cocaina e sostanze d’ogni genere producevano i loro nefasti effetti. Senza scampo.
E quando, a chi lo conosceva anche solo di vista, capitava di vederlo in qualche posto, la considerazione ricorrente era: «Non mi sembra Truman, ma è Truman». È proprio lui.
Durante la supervisione della riduzione cinematografica di Bare intagliate a mano, a Los Angeles, si trova in uno stato così pietoso che lo riportano a New York e poi in ospedale.
Nell’estate dell’anno seguente vi saranno frequenti ricoveri per crisi dovute ad abuso di alcol e varie droghe. Iniziano le allucinazioni e… lasciarlo solo diventa pericolosissimo. Ormai non lavora più, non scrive più, le Preghiere esaudite diventano un incubo e non riuscirà più a creare una sola pagina di quel libro «così bello così ben costruito così unico» fino a farneticare «nessuno può scrivere così bene». Verso la fine del mese di agosto è ospitato da Joanne Carson, a Los Angeles. Alla mattina, al suo risveglio, dice a Joanne: «Non sto affatto bene… ma presto starò meglio». Le impedisce di chiamare un medico e continua a parlare con lei, per ore, fino al momento in cui si ferma.
Tutto si ferma.
Truman inizia il nuovo cammino con la sua anima, non rimane che la sua opera, la scrittura nata da un personaggio veramente singolare. E «raggiunse la zona alberata, proseguì all’ombra, lasciandosi alle spalle il cielo sconfinato e la voce del vento che passava, sussurrando, in mezzo al grano». Come nelle ultime parole del suo famoso A sangue freddo.

«Sono come uno squalo: l’unico animale che non dorme mai; che muove la coda nell’acqua senza mai fermarsi».
Come un moderno dracula, affonda gli incisivi nelle prede, negli agnelli sacrificali che hanno creduto nella sua amicizia, nella sua innocuità: credevano fosse uno di loro, ma non era così.
La sua esperienza umana e la sua opera letteraria erano state una scrittura e riscrittura di “margine”, un incessante equilibrio tra morte e vita, un barcamenarsi sulla linea di confine, tra realtà e “lucida follia”. Si era mosso con abilità nei meandri sconosciuti, aveva dato fondo a tutta la sua astuzia per emergere e lo aveva fatto fin dall’inizio: fin da quando era entrato nella redazione al The New Yorker come umile copyboy, con il compito di tenere in ordine gli uffici e raccogliere i disegni da pubblicare. Era una mansione da svolgere in silenzio ma Truman si comporta da insolente, crea scompiglio, non si lascia soffocare e non si sente l’ultimo anello della catena, vagabonda per tutti gli uffici, su e giù per i piani, con quella sua voce stridula che si sente da lontano, con quel suo modo di vestire con pantaloni larghi e comode scarpe da ginnastica… Poi comincia a frequentare le redazioni di Harper’s Bazaar, il primo contratto con la Random House per Altre voci altre stanze… e poi la scalata.
Una vita vissuta a sangue freddo, quasi immedesimandosi con gli esecutori della famosa strage dei Clutter, quei due giovani assassini che aveva conosciuto a fondo, che aveva intervistato, che aveva studiato, analizzato fin nei minimi particolari.
E infine, nell’ultimo capitolo della sua vita, le Answered Prayers.
Preghiere esaudite sarà un reportage al vetriolo, tra gossip e maldicenze allo stato puro, e Truman Capote, dopo aver annotato vizi e meschinità per quindici anni, quasi come un guastatore in avanscoperta tra le linee del nemico, metterà nero su bianco, una sorta di vivisezione dei personaggi “incontrati”, una spietata esecuzione a freddo, una devastante e lunga elencazione delle zone più oscure dell’uomo, delle loro tragedie, del loro misero quotidiano, e, in alcuni casi, della loro schifosa e merdosa fine. E meno male che ne porterà a termine solo tre capitoli.
Lo strumento usato sarà il bisturi e non certo il fioretto: tagli netti, sanguinanti, ferocia allo stato primitivo, cinica osservazione per decretare la nullità d’una persona.
In alcune pagine, vien voglia di chiudere il libro: pare di entrare nelle intenzioni di Capote e fissarne la frattura tra ciò che sicuramente nasceva dal suo stato alterato dovuto all’alcool e alle droghe e ciò che invece, forse solo minimamente, riusciva ancora ad uscire dalla mente lucida dello scrittore. Una frattura insanabile fra se stesso e il mondo circostante. Un essere umano costretto all’angolo, una volta brillante e strafottente, ridotto ad una increspatura di se stesso; uno scrittore, una volta capace di scrivere, sulla propria pelle, A sangue freddo, ed ora, ridotto a cianciare di gossip come un redattore di settimanale che vive del pettegolezzo o dei fatti degli altri. I residui d’un essere umano che si aggrappa alle stronzate che facevano personaggi famosi del suo tempo e con i quali, fino a poco tempo prima, aveva bevuto cocktails e fatto battute banali. Prima sguazzando tra di loro, nelle piscine, nelle ville, nei loro yachts, nelle loro lussuose dimore, insieme a loro in vacanza nei luoghi più famosi, ed ora disperso in una galleria senza uscita. Il buio assoluto dopo le scintille della vita.
Le domande che nascono spontanee su questa condizione umana, sono fin troppo scontate. Forse è meglio tralasciare e far calare il pietoso velo.
Una sottile luce illuminava ancora il suo volto, la sua “piccola lanterna” per muoversi tra le strade, l’ultima ombra da accarezzare come fosse una sua proiezione, senza età e senza risposte.
In verità, quei tre capitoli delle Preghiere esaudite non erano altro che il prolungamento dell’agonia di Trummy.
Il grande Capote che un tempo sgattaiolava sotto le luci della ribalta e ora pareva un volto in penombra, una maschera surreale, due mani che non plasmavano più niente: riportavano pettegolezzi da portinaia.
La sua mente tendeva ad inglobare la nocività della vita, le tossine dell’esistenza e delle esperienze, arrivava a lambire i limiti della dissolvenza umana, un inarrestabile decadimento fisico, un crollo mentale fino all’abisso.
Truman Capote pagherà il suo tributo alla vita… perchè la vita, come tutti sappiamo, presenta sempre il conto.
Alla fine. A sangue freddo.

Massimo Barile



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