Poesie dedicate alla figlia Valeria

Ugo Colla ha voluto dedicare questa pagina interamente alla figlia Valeria, inserendovi tutte poesie a lei ispirate.


La bambina aveva un dono nelle mani

C’era una volta una bambina
che aveva un dono nelle mani
ma non lo sapeva ancora.
Quel giorno la sua amata nonna
cadde per terra e si fece male,
tutti corremmo ad aiutarla
ma lei lo fece in modo speciale.
Si mise accanto a lei piangendo,
cominciò ad accarezzarla nel punto
dove sembrava avesse più dolore.
Disse la nonna: “Ricordate
quel che vi dico, la bambina
ha un dono nelle mani
e le sue mani potranno fare
del bene a tanta gente.”

Sono passati molti anni,
la bimba è diventata donna,
il suo lavoro è fisioterapista
e ancora i ”grazie” di tante persone
ricordan le parole della nonna.
Ancora quella bimba ha un dono
nelle mani per aiutare
e portare sollievo e conforto,
nel cuore per andare con il cuore
incontro a chi sta soffrendo.


Il tuo giusto volo (a mia figlia)

Avevi il tuo baschetto parigino,
andavi incontro a un rosso
tramonto invernale
sul nostro mare.
Vedemmo il tuo saluto con la mano
e quel solare sorriso di sempre
allontanarsi con l’autobus.
Non so perché ma fu come capire
che la vita adulta si schiudeva
davanti a te, allora quindicenne,
come il primo capitolo di un libro
ancora tutto da leggere.
Ripenso spesso a quel momento
come alle sere in piazza
Nostra Signora dell’Orto
o in passeggiata a Chiavari
con quel filo d’ansia in agguato
finchè non ti vedevo spuntare
da lontano con le tue amiche.
Ti riportavo a casa,
mamma davanti alla TV
ci guardava rientrare contenta,
vi raccontavate tutto fino a tardi,
io chiudevo la porta di casa
su quel calore, come di favola,
che avvolgeva noi tre insieme
e non si è perso mai,
anche negli anni delle distanze,
anche quando,convinti e felici,
ti abbiamo visto prendere
il tuo giusto volo verso un limpido
cielo settembrino, nella dolce
campagna emiliana di fine estate.

(Da “Tra le antiche pareti”, 2019, Divinafollia Editrice)


Quando la sera le mura di casa

Quando la sera le mura di casa
non hanno che il poco calore
delle mie secche parole
ed esse nascondono il bene
la certezza d’amare che veglia
nei meandri dell’anima

Quando anche il lavoro diventa
equilibrismo senza rete
e la stanchezza fa sordi ai richiami
muti alle offerte di dialogo
d’uno strano frenetico mondo

Quando ormai passati i trent’anni
occasioni di piacere si perdono
nelle scelte forzate del vivere

Quando si litiga per niente
e dieci minuti di silenzi son troppi
meglio la gioia di riconquistarsi

Quando proseguire è un’impresa
arretrare una viltà
chiudo gli occhi, sai
e ti vedo nella tutina rosa
che abbiamo già pronta

sguardo incredulo
grande ricchezza dello stupore
che più non conosciamo
e ti immagino nell’attimo in cui
capirai che sì sono io proprio io
tuo padre


Ninna nanna per Valeria

Quando il sonno ti accoglie
una parte di te si allontana.
Quella tua tranquilla immobilità
mi smarrisce.
Non so dove andrai, forse
ti perderai cercando le nostre mani
le nostre voci, ogni volta dimenticando
che tornerai.
Quanto vorrei seguirti,
scacciare i mostri,
evitarti i precipizi
che popolano il lungo
tunnel della notte.
Possiamo soltanto
abbracciarti al risveglio,
venire ogni tanto nel buio
ad ascoltare il tuo respiro lieve
come fruscio d’ali
d’una piccola farfalla impaurita.


Pranzo di Natale

Angeli
che di tanta grazia la vestirono
per presentarla a noi
nel mattino che molta
notte dell’anima ha cancellato.
Erano i tuoi, miei
cari scomparsi,
la carezza della benedizione,
il viaggio buio verso il nostro mondo
rinato alla speranza per questo
timido abbraccio che sembra
avvolgere la Terra e ad uno
ad uno spegnere
ultimi ferini bagliori.
Natale e tu forse dormi
debole ancora, finalmente serena,
anche oggi ad ore stabilite
è permesso respirare l’aria
magica del fresco nido.
Ma accanto a questa via di portici
che vicoli attraversano in festa di luci
ritrovo le stradine silenziose
che sanno d’amaretti e di moscato.
La casa da anni abbandonata
oggi profuma d’antico e di buono,
il caminetto non più cadente porta cesti
di frutta dorata e squillano le voci,
dalle finestre invitano i più piccoli
a lasciare il pampano, a salire.
Corre la gioia tra i fini ricami
della tovaglia (quella di tua madre)
ma una lenta nebbia nasce
dal fumo della zuppiera
i rosei volti allontana non il miracolo
d’averli ritrovati proprio oggi.

Tutti invitati per il primo
pranzo di Natale con lei
che nei tratti, nel lampo degli sguardi
già consola e vuol ricordare
che nessuno di loro è morto, mai,
perché in lei si ripete la storia.

Nessuno muore mai se ritorna
e un tenero vagito l’accompagna.


Un’altra vita

Ti dondola sul lungomare,
Valeria, una vecchia canzone,
tua madre la fa sottovoce,
ti strofini gli occhi, ora già sogni.
Seduto in panchina vi guardo.
Una nave si perde in lontananza.
Se anch’io mi assopisco il mare
non nasconde la morte del creato,
la foce ancora non raccoglie
i miseri resti dei pesci,
il sole conforta e non offende.
E il bar non diffonde monotoni
suoni di video-game. Grazie dei fiori
da più limpida aria accarezzati.
La riva del fiume è la spiaggia
dei ragazzi poveri e sereni.
Si mescolano le grida
all’allegro canto del tramway.

Per noi, amici, un caffè all’aperto
da un tavolo all’altro nasce
nell’unità la sola poesia.
Non scalpita il nostro tempo,
scivola nell’armonia dei versi.
Sussulto. La mamma ti dondola ancora.
Lontano, la grande mano metallica
afferra l’aria, la rende rovente.
Dai pochi angoli vivi
della terra invasa da lame infuocate
non rinunciamo a lottare
contro il deserto che avanza.


Grandi cedri del Libano
del millenovecentodieci,
voi sentivate mia nonna
chiamare ansiosa i ragazzi
persi nel canto dei grilli
fra l’erba ondeggiante
al vento della sera.
Vedeste un giorno di mia madre
i primi passi impacciati.
Sempre maestosi sapete
quanto più breve è il sogno
umano di vita incontaminata
ed ora incontrate i miei occhi
da poco sgranati sul mondo.
Per noi, bambini di oggi
rimane una timida speranza
nel ritorno dell’Eden.
Nuovo amore scenda negli animi
per i tanti vostri fratelli,
il rimpianto per quelli uccisi
dalla scure dell’uomo, potente e suicida,
cari cedri del Libano
che i rami avete protesi
come braccia materne a difenderci
dalla folle arsura della terra.


Ti sto accompagnando all’asilo
per lasciarti in nuove mani.
È il primo giorno.
Fugge il tuo sguardo già rapito
da sogni di mondi inesplorati.
Il grembiule bianco ha ricami di fiori
il tuo viso è fresco, luminoso,
più dolce il tuo bacio nel commiato.

Ora ti lascio andare
e per un attimo vedo te sposa,
la mia felicità, il mio rimpianto.


Finché avremo vita
ci troverai e potrai chiedere
come ieri, con quel leggero tremito
nella voce ed occhi impauriti:
«Teniamoci per mano, tutti,
quando il treno entra in galleria…»


Lettera a Valeria per il suo primo giorno di scuola
(18 Settembre 95 – Ricordando Marino Moretti…)

Ripenso a ieri, a quel tepore di metà settembre
che sembra dire all’estate
di non abbandonarci così presto.
L’onda accarezzava i sassi e il vostro
vociare festoso di bimbi, sul lungomare,
allontanava la malinconia delle sdraio
già riposte in fila, degli ombrelloni chiusi.
Mentre correvi insieme agli altri
dall’altalena allo scivolo e ritorno
dai cavalli meccanici, più in là,
lontani ormai anche nel tuo tempo
giungevano lievi le note del «Ponte
sul fiume Kwai», con dolce suono d’organino antico…

Ripenso a ieri ed oggi sei già in aula,
seduta in quarta fila, dritta, attenta,
quasi severa. Il tuo vicino, quello con gli occhiali,
forse il filosofo che c‘è in ogni classe,
con gesto rapido e gentile delle dita
ti sfiora i capelli e tu sorridi.

Soltanto ieri eri così piccola…


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