Microcosmi al gusto di malto

di

Vincenzo Mazzone


Vincenzo Mazzone - Microcosmi al gusto di malto
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
12x17 - pp. 82 - Euro 8,00
ISBN 978-88-6587-3328

Clicca qui per acquistare questo libro

Vai alla pagina degli eventi relativi a questo Autore


Ringraziamenti

Grazie a Giuliana per la prefazione e il supporto, e grazie a te Joshua, per avermi insegnato che non sempre i libri che leggiamo sono fatti di carta.


Note dell’autore

La frase che dà inizio al capitolo quattro è tratta da una poesia di John Donne.

Alcune delle citazioni presenti su questo libro sono anonime perché così, mi si sono presentate.

La poesia nel capitolo 4 “Colsi un fiore” è di Tagore.


Credevo di iniziare a vivere
mi stavo preparando a morire.
Credevo di morire
mi stavo preparando a vivere

(Leonardo Da Vinci)


A Josh
e a tutti coloro
che non hanno
mai smesso di
credere in me.


PREFAZIONE

“Conoscere i luoghi, vicino o lontani, non vale la pena, non è che teoria; saper dove meglio si spini la birra, è pratica vera, è geografia.”

(Goethe)

La nostra cultura, la cultura italiana o europea in genere, dà un significativo peso al sapere, inteso erroneamente come nozionismo avulso dal contesto. Cresciamo i nostri figli illudendoli che la proprietà d’uso di un congiuntivo, piuttosto che l’enumerare con precisione i monumenti di questa o quella città siano la chiave di un sicuro successo nella vita. Ciò li rassicura, e rassicura noi, d’altro canto, come potremmo invece spiegargli che l’imponderabile quid che costituisce il Sapere in senso pieno non risiede in nessun testo, non è consultabile in nessun volume, non si svelerà ai loro occhi miracolosamente solo perché chini da ore alle loro scrivanie?
Meglio dunque per tutti raccontarci che il conoscere la data di nascita di questo o quel personaggio storico fa e farà di noi degli adulti responsabili, realizzati, felici. Meglio pensare che la Vita, come la Scuola, dia i voti, premi i buoni e castighi i cattivi.
Salvo poi dover ammettere, un giorno, che non è così. Alla soglia dei trentasette anni, benedico ogni singolo istante passato ad ascoltare chi mi è stato accanto, e rimpiango i troppi momenti trascorsi chiusi nella mia stanza a tradurre greco o latino. Sommando elementari, medie, superiori e università, potrei elencarvi un numero più che congruo di docenti che hanno incrociato la mia crescita, ma tra di loro pochissimi Insegnanti.
Quel poco che so della vita lo devo più probabilmente ai miei nonni, il cui titolo di studio non credo abbia neanche sfiorato i termini dell’obbligo, a loro e alle altre meravigliose persone che ho avuto la fortuna di conoscere, a coloro che mi hanno aperto il loro cuore, narrandomi le loro esperienze e i loro sogni.
Se il vostro obiettivo è il Sapere, allora viaggiate, come orde di turisti cinesi, fotografate più monumenti e piazze possibili, solo per dire agli amici “So dov’è! Ci sono stato!”, ma se ciò che vi preme è invece la Conoscenza, allora aprite la porta di casa vostra, il vostro cuore e la vostra mente a coloro che vi circondano, imparate ad ascoltarli, ad ascoltare le loro parole, i loro silenzi, a comprendere i loro sguardi e i loro gesti. Perché la vera Conoscenza rifugge i testi e risiede solo nell’Animo umano.

Giuliana Spagnolo


Microcosmi al gusto di malto


MICROCOSMI AL GUSTO DI MALTO

Ho passato gran parte della mia vita viaggiando.
Pensavo che la conoscenza di luoghi, modi di vivere, culture diverse dalla mia, potesse in qualche modo accrescere il mio bagaglio di esperienze, e che questo, alla fine, mi aiutasse a vivere meglio.
In parte è vero, ma terminato ogni viaggio, ritornato alla vita di sempre, era come se mancasse qualcosa. Come se in realtà il viaggio non fosse ancora finito.
È un po’ come pranzare in un ristorante di lusso, le pietanze hanno nomi impronunciabili e, terminato il pasto, si hanno le papille gustative eccitate, ma la pancia vuota, quasi come se nulla ci sia finito dentro.
Ho capito col tempo: i luoghi più belli da visitare sono intorno a noi. Le persone che ci circondano, le loro anime, il loro “IO”, sono mondi fantastici, dove imparare una moltitudine di cose. Una sorta di “do ut des” spirituale, in cui si dà e si riceve vita, emozioni e sfumature che l’occhio poco allenato non riesce a cogliere.
Questo libro altro non è che un diario di viaggio, un viaggio iniziato e finito in un turno di lavoro, dove ogni tavolo, e ogni persona incontratavi, altro non sono che singolari microcosmi emotivi.


IL MEZZO

Avevo ereditato un locale, un Pub per essere precisi, ma non lo gestivo io, avevo lasciato in mano il tutto al bar manager che vi lavorava da anni. Questo mi permetteva di vivere lasciandomi il tempo di viaggiare, cosa quest’ultima, che come avrete già intuito, amavo molto.
Ora, per i profani (e spero i meno non me ne vogliano), il Pub non è un locale come tutti gli altri, un luogo dove si va, solamente per bere o incontrare altra gente, il Pub è uno stile di vita. È una passione. Il Pub è, come diceva un vecchio serial jingle, “Where everybody knows your name” (dove tutti conoscono il tuo nome).
In pratica e in teoria: il Pub è casa tua.
È un universo a sé, un porto franco, dove esistono delle regole non scritte che, per un arcano motivo ignoto a ognuno di noi, tutti conoscono.
Ecco, senza nulla togliere ai bar, o alle discoteche, o alle coffe rooms, il Pub è veramente un luogo magico, e quando sei lì, al banco, di fronte alla tua mezza pinta (rossa, bionda o scura che sia) è come se il resto del mondo smettesse finalmente di puntare gli occhi su di te e, per magia (appunto!), uno stato di leggerezza ti avvolgesse tutto.
I soliti sarcastici diranno che questa sensazione si prova ovunque se si ha in corpo la giusta quantità di alcool, ma non è così… credetemi.
La musica giusta, la birra giusta, l’odore del legno, la puzza di fritto che arriva dalla cucina o dal cameriere che vi passa accanto, l’odore di mare del vecchio pescatore che, seduto accanto sorseggia una mezza pinta… tutto questo e molto altro rendono magico il Pub e il momento in cui lo si sta vivendo.
Il mio Pub era situato nell’affascinante cittadina di Dundee, Nuova Scozia, all’incrocio tra la Gellavly st e Dock st a poche centinaia di metri dal mare del Nord. Il Pub e il mare sono legati da un filo misterioso e invisibile, forse per la struttura (tutto quel legno ricorda gli antichi vascelli) o forse perché il Pub è un luogo spartano che, come il mare, non fa differenze; tutti sono uguali a tutti, dal pescatore al banchiere, dallo studente alla casalinga, dal vecchio al giovane.
E forse la magia sta proprio in quest’annullamento socio-temporale.
Il mio locale non era molto grande, quindici tavoli nei quali ci stavano comodamente sedute sessanta persone e un gran bel banco. Questo al piano terra. Al primo piano, degli appartamenti che spesso davo in affitto ai ragazzi che lavoravano per me, e poi, ricavata da due stanze, la mia casa, spesso in disordine, anche se la vivevo pochissimo.
Sulla scelta della birra non vi erano molte possibilità, ero rimasto in patria, primo perché gli scozzesi sono un popolo molto legato ai propri prodotti, e poi perché le birre scozzesi, sia per gusto sia per gradazione, sono tra le migliori al mondo. Servivo tre tipi di rossa una scura e quattro chiare. Tranne una birra cecoslovacca tutte le altre quindi erano scozzesi.
Dietro al bancone si stagliava un retro banco ricco di bottiglie di rum, whisky e whiskey (la “e” indica la differenza tra scozzese e irlandese).
Come spesso accade nella vita di ognuno di noi, quando tutto sembra si stia svolgendo in una perfetta consuetudine, ecco presentarsi alla nostra porta l’incerto, che senza bussare irrompe con violenza, modificando inevitabilmente il corso degli eventi.
Ero nel bel mezzo dei preparativi dell’ennesimo viaggio, meta l’Africa, quando Frank (l’uomo che mi mandava avanti il Pub) mi comunicò la notizia che se ne sarebbe andato. Motivi personali fu la giustificazione, e gli credetti: da sempre sincero e onesto con me, in più di un’occasione mi aveva dimostrato la sua fedeltà professionale.
Ancora due settimane e poi sarei rimasto senza una persona capace di portare avanti la mia attività.
Due settimane sono davvero un periodo breve per comprendere quei segreti che spesso hanno bisogno di un’intera vita ma tant’era. A malincuore dovetti rinunciare al viaggio e approfittare di quell’insignificante lasso di tempo per imparare da Frank le basi per riuscire quantomeno a tenere aperto il locale.
Incominciai a conoscere i fornitori, i segreti per spillare una buona birra (fino a quel momento mi limitavo solo a berla, senza sapere che la bontà è direttamente proporzionale alla spillatura), le differenze tra i vari distillati e il modo in cui erano invecchiati, gli accostamenti con le pietanze. Mi feci anche un’elementare cultura sulla musica, più che altro per non fare brutta figura se qualcuno mi avesse chiesto il nome del gruppo o del cantante che stavo passando alla radio, ma soprattutto, iniziai a conoscere i clienti.
I nomi, i volti, cosa bevevano.
Non avete idea di quanto sia imbarazzante quando un cliente chiede “il solito” (anche con una certa soddisfazione) e chi sta dietro al banco non si ricorda cosa beve, diciamo che la situazione sta al barman così come il chiamare con un nome diverso la propria donna in momenti intimi sta al fedele compagno.
Una volta in un famoso locale di Manatthan lessi questa verità su una targa dietro al banco “le confidenze fatte dai clienti al barista, se ne vanno via al primo colpo di straccio sul bancone”; aveva ragione anche quel tale che definì i baristi come gli psicologi dei poveri, oltre ad essere dei bravi ascoltatori, bisogna anche ricordare tutte le storie che ci vengono raccontate e, allo stesso tempo, eliminarle dalla mente subito dopo che l’ospite è uscito dal locale.
Mi ci volle un bel po’ per metabolizzare tutte queste nozioni, ma alla fine ci riuscii.
Avevo rinunciato a un viaggio, senza sapere che stavo per intraprenderne un altro molto più affascinate.
Un viaggio durato circa vent’anni, dove ogni istante fu una lezione, dove ogni sorriso, ogni lacrima, pur non appartenendomi, mi coinvolsero, dove il confidarsi divenne poesia, le persone che mi trovai davanti penne, il mio locale foglio, ed io l’avido lettore intento a carpire pagina dopo pagina la melodiosa e allo stesso tempo entropica armonia della vita.
Un viaggio il cui ricordo è ancora perfettamente nitido, anche a distanza di molto tempo; i visi, gli sguardi, gli attimi. Tutto si è impresso nella memoria senza l’ausilio della macchina fotografica.


1

Teresa aveva diciannove anni e occhi neri come la notte. E con la notte aveva in comune l’armonia dei silenzi, che nel buio divengono musica, e un luminoso pallore lunare che nulla invidiava al calore del sole.
Teresa, incerta come l’oscurità.
Seduta al tavolo vicino all’uscita, stringeva in mano il fazzoletto, i begli occhi neri gonfi di pianto. Di fronte a lei Michael, col suo bicchiere di birra mezzo vuoto e lo sguardo rivolto verso il nulla.
«Passami quella cazzo di birra!» le urlò Michael. I clienti del tavolo vicino si voltarono, richiamati dal tono più che dal linguaggio, ci fu per un attimo uno scambio di sguardi, poi i vicini si rituffarono subito nei loro bicchieri e nei loro discorsi da pub e i due si ritrovarono di nuovo soli.
Teresa soffocò un singhiozzo e allungò la mano per prendere il bicchiere, con lo di spirito di chi fa qualcosa senza averne cognizione.
La sua aria servile, la sua apparente sottomissione non le appartenevano, e fu proprio questo a far capire a Michael di essere ubriaco. Si alzò e si diresse verso il bagno. Ne uscì con i capelli bagnati, sintomo di una velata coscienza a voler ritrovare lucidità.
Lo vidi barcollante, mentre con non poca fatica, si faceva largo a spallate tra le persone che aspettavano il loro turno.
C’era molta gente quella sera, i Beatles attraverso la radio cantavano Across the universe.
Lei era lì, lo aspettava insieme ai suoi diciannove anni e alla sua statuaria bellezza. Non appena Michael trovò la sedia, si riattaccò al bicchiere.
Pablo, lo studente spagnolo che serviva ai tavoli, osservò la scena in attesa di un mio comando, gli feci cenno che era tutto ok e si diresse verso un altro gruppo di clienti.
Michael lo intercettò e ordinò un caffè.
Poi il silenzio tornò a sovrastare le due figure al tavolo, infine fu lui a interromperlo.
«Quando lo hai saputo?» chiese.
Lei non rispose subito, si asciugò gli occhi ancora una volta con il fazzoletto.
«Oggi.» rispose.
«Figlio di…» sbottò Michael.
Questa volta i ragazzi del tavolo vicino non si voltarono.
«Non si fa mai i fatti suoi.» proseguì mentre beveva un sorso dal suo bicchiere in attesa che Pablo arrivasse col caffè.
Teresa fu pronta a rispondere
«Te la prendi con lui quando dovresti prendertela con te stesso.» fece una pausa. «Quando contavi di dirmelo?» i suoi occhi avevano oramai terminato le lacrime.
«Che importa, te lo avrei detto, ma dovevo essere io a farlo… vai a fidarti degli amici.»
Arrivò il caffè, e Michael approfittò della presenza del cameriere per ordinare un’altra birra.
Una sorta di bolla poliuretanica si era formata attorno a quel tavolo, mentre nella sala tutti bevevano, parlavano, ridevano e agivano con totale indifferenza. I singhiozzi e le parole che fuoriuscivano dalla bolla si amalgamavano tra loro per poi stemperarsi e disperdersi nel vocio che aleggiava nel pub.
«Non lo hai capito? Non lo hai ancora capito?» mormorò lei; tutto il suo corpo adesso si forzava a trattenere le lacrime.
«Cosa?» disse Michael che aveva ritrovato la sua lucidità. «Che mi aspetta un periodo difficile? Che ci vedremo di meno e che forse non ti vedrò mai più? Certo. Certo che l’ho capito, ma volevo dirtelo con i miei tempi e con i miei modi. Ora tutto si complica perché si è aggiunto il tuo dolore, e per me è un altro ostacolo. Io voglio che tu sia serena, perché questo mi dà forza. È egoismo lo so… ma è la lotta per la sopravvivenza, e anche questa condizione fa parte delle regole del gioco.»
Il pendolo segnò le ventitré, un treno stava arrivando e, in quella bolla formata dall’indifferenza, stava nascendo un legame (affetto? amore?) che sino a quel momento sembrava estraneo.
Michael si alzò dal tavolo e si avvicinò alla cassa, lei lo seguì senza proferire parola. Dal locale, insieme con loro, uscirono i sogni di due giovani, inghiottiti dalla notte.
Rividi Michael dopo più di un anno, i suoi occhi erano diversi, così come quelli di Teresa. Insieme avevano vinto il cancro, questo li aveva comunque segnati, e certo i loro sogni erano più quieti, ma erano comunque lì.
Nella lotta per la vita è prevista qualsiasi condizione, a patto che il comune denominatore non cambi.
Michael e Teresa non avevano mai smesso di sognare.


2

Avevo da poco chiuso il locale dopo le consuete operazioni di pulizia, e finalmente ero salito nel mio appartamento per riposare. Non appena mi addormentai, squillò il telefono. La cosa m’irritò, specie perché sapevo di avere ben poco tempo per dormire. Guardai fuori prima di rispondere: era buio. Non sapevo se il buio di una notte appena iniziata o il buio di una notte che stava per finire, dubbio sintomatico del fatto che avevo di nuovo strabevuto. «Pronto» il mio tono fu alquanto stizzito. Dall’altro capo del telefono una voce piagnucolante «Scusa se ti disturbo, ma ho bisogno di parlare con qualcuno» Anna. Probabilmente il ragazzo l’aveva lasciata di nuovo. Guardai la sveglia vicino al televisore: le quattro. Anna mi aveva svegliato nel cuore di una notte che stava per finire. «Tranquilla non avevo sonno.» Non so mentire.
Anna apprezzò il mio tentativo, la sentii sorridere per una frazione di secondo, poi di nuovo piagnucolò: «Ti passo a prendere tra mezz’ora» riappese.
Sprofondai nel letto, fu il citofono a svegliarmi. «Cristo!» saltai su, raccattando i panni che avevo lasciato per terra qualche ora prima, e corsi a rispondere, prima che il fastidioso suono svegliasse i ragazzi nelle altre stanze.
Scesi, era ancora buio, la macchina con i fari accesi era dall’altro lato della strada, la raggiunsi, aprii la portiera e mi accomodai al suo fianco. Nell’abitacolo c’era uno strano odore ma non dissi nulla. Mi accesi una sigaretta. Anna fissava lo sterzo e piangeva. «Vuoi che guidi io?» lei, per tutta risposta, inserì la marcia e partì così bruscamente che dovetti tenermi.
Adorata figlia unica, cresciuta in un mondo tutto suo, eterea e dalla mente brillante, giovane promettente socia del più rinomato studio locale di architettura. La vita fino a quel momento aveva mostrato ad Anna solo la più bella delle sue molteplici facce. Era innamorata di Carlo e viveva in questo sogno (così chiamava la sua storia) da un paio d’anni. Qualche screzio di tanto in tanto poi tutto si risolveva con uno sfogo e un pianto, il più delle volte questo rituale si svolgeva a casa mia, a prescindere se fosse notte o giorno. Volevo sinceramente bene ad Anna, la donna perfetta; ma, ovviamente, troppo perfetta per uno come me. «Dove stiamo andando?» chiesi infine, poiché continuava a tacere. Attesi qualche istante, poi continuai «Anna, vuoi smetterla di piangere e spiegarmi cosa è successo?»
Finalmente parlò: «L’ho trovato nella mia macchina in overdose di crack.» Questa volta toccò a me restare in silenzio, benché mi fossi trovato più volte in brutte situazioni, questa mi lasciava senza parole. «Stava morendo, capisci?» continuò «stava per morire…»
Di nuovo il peso del silenzio nell’abitacolo. La morte… la Vecchia Signora. Anna queste scene le aveva viste soltanto nei film, comodamente seduta sulla sua poltrona, ora, da spettatrice, si era tramutata in protagonista, ma quello non era un film. Si fermò davanti al Pronto Soccorso. Scese. La seguii come un automa, ancora in silenzio. Carlo su una barella, sconfitto, fissava il vuoto. Neppure si accorse di noi.
Un medico riconobbe Anna «Per questa volta è salvo.» Disse allargando le braccia, quasi a voler sottintendere che ci sarebbe stata una prossima volta, e probabilmente non sarebbe andata così bene. Non si dilungò in spiegazioni scientifiche, terminologie mediche e quant’altro, non c’era bisogno, non ne valeva la pena, l’unica spiegazione poteva e doveva darla Carlo, poi si allontanò. Anna si avvicinò al suo ragazzo e gli accarezzo la mano, lui, colto da un barlume di coscienza, si voltò dall’altro lato, quasi a non voler lasciare trasparire il senso di vergogna. Uscimmo e ci avviammo verso la macchina. La brezza fresca della mattina mi risvegliò dal torpore causato dall’incedere degli eventi.
«Mi dispiace» fu l’unica cosa che dissi. Lei non rispose. Aveva smesso di piangere, era un’altra persona. Anna era cambiata in una notte, i suoi occhi splendevano sempre, ma di una luce diversa. Aveva smesso di sognare, aveva visto la faccia oscura della vita, quella crudele, impietosa, e non le era stato concesso il tempo di metabolizzare.
Mi riaccompagnò sotto casa e mi guardò cercando di abbozzare un sorriso, anche lei non sapeva mentire. «Non ho sonno» mormorai «andiamo a fare colazione» non mi andava di lasciarla sola. «No, sto bene, ti chiamo più tardi.» Se ne andò non appena richiusi lo sportello.
Non ho più visto Anna, il giorno stesso partì per l’America. Di lei mi resta il ricordo del suo sguardo, lo sguardo di chi ha visto svanire i suoi sogni nel giro di un minuto; e la rabbia, la rabbia di non averle saputo spiegare che la vita ha mille altri volti, che il dolore spesso, scava solchi nei nostri cuori solo per dare alla gioia la possibilità di riempirli. Anna, possa l’armonia ritornare a splendere sul tuo volto.


[continua]


Se sei interessato a leggere l'intera Opera e desideri acquistarla clicca qui

Torna alla homepage dell'Autore

Il Club degli Autori - Concorsi Letterari - Montedit - Consigli Editoriali - Il Club dei Poeti
Chi siamo
La Rivista
La voce degli Autori
Tutti i nostri Autori
Per iscriversi
ClubNews
Il notiziario gratuito
Ultimi inserimenti
Homepage
Per pubblicare
il tuo 
Libro
nel cassetto
Per Acquistare
questo libro
Il Catalogo
Montedit
Pubblicizzare
il tuo Libro
su queste pagine