Conoscenza e valore saggi di filosofia

di

Vittorio Varese


Vittorio Varese - Conoscenza e valore saggi di filosofia

15x21 - pp. 154 - Euro 11,80
ISBN 978-88-6037-9535

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Prefazione

La conoscenza e l’azione rappresentano tradizionalmente due dimensioni contrapposte della “facies humana”; nondimeno successivamente alla sistemazione kantiana di questa veduta risalente ad Aristotele (ma notevolmente mitigata in Platone sulle orme di Socrate) l’opposizione suddetta è venuta attenuandosi nella produzione di Fichte, di Hegel e degli idealisti italiani secondo un movimento secolare culminato, attraverso lo spiritualismo e la filosofia dell’azione, nel pragmatismo, nella filosofia del linguaggio come attività e nella psicologia contemporanea.

Infatti nella prospettiva del pensiero odierno l’uomo può conoscere la realtà soltanto così “come è per l’uomo”: i fatti e le cose “vivono”, cioè acquistano consistenza di realtà come di valore nel pensiero e nell’azione.

A sua volta la storia può essere definita come la coscienza attuale del passato (Gentile e Croce); ma sarebbe più esatto dire non “che è tale” ma che tende a ricadere, nel fatto, come coscienza attuale.

Infatti a questo movimento causale ed entropico che possiamo chiamare “dell’alienazione” si contrappone il momento etico del recupero della verità del passato; quest’ultimo da intendere non come insieme di contenuti precostituiti e dotati di assoluta oggettività ma come punto di riferimento nella dimensione attuale del valore: il dover riconoscere, il dover giudicare, il dover credere.

Pertanto il compito della filosofia di oggi consiste nella riflessione sulla conoscenza e sulla prassi dell’uomo cioè nell’elaborazione di un pensiero critico che si riflette sulle diverse produzioni culturali – non escluso se medesimo una volta divenuto un fatto culturale – e così facendo concorre accanto alle altre manifestazioni culturali a creare le diverse dimensioni della realtà umana.

A questa problematica è informato il presente testo che vuole essere un piccolo contributo al tema dei rapporti tra conoscenza e valore.

Vittorio Varese


Ringrazio la dott.ssa Angela Goggiamani (INAIL) e il dott. Giorgio Varese (Ospedale Giustinian, Venezia) per le esemplificazioni medico-legali (saggio “Causalità e nessi condizionali”) già apparse in un articolo pubblicato su “Temi romana”, 1990.



Conoscenza e valore saggi di filosofia


CONSIDERAZIONI SULLA PARTE ANCORA VALIDA DELLA DOTTRINA MORALE DI KANT

In questo scritto, concernente i limiti entro i quali conserva oggi validità la dottrina morale di Kant, mi sono proposto di riesaminarla con un procedimento critico; pertanto: enunciazione dei principi ed esplicitazione delle derivazioni logiche mediante le quali Kant è pervenuto a costruire la famosa morale del “dovere per il dovere”; tutto ciò prescindendo da ogni giudizio di valore (e quindi da ogni adesione o negazione sentimentale) in ordine al corso storico (la civiltà cristiano-germanica con particolare riferimento alle manifestazioni più radicali del movimento protestante) che di quella morale costituisce il necessario presupposto e ambiente di formazione, ma guardando soltanto alla consistenza attuale delle sue assunzioni e alla cogenza delle deduzioni.


SINTESI DEL SISTEMA ETICO KANTIANO

1 (POSTULATO)

Le azioni dell’uomo devono realizzare la sua natura razionale.

Osservazioni: qui emerge subito un certa debolezza del sistema e la necessità di sottoporre questo postulato a una critica che distingua la componente fattuale della razionalità, oggi diremmo statistica (che risulterebbe piuttosto negativa) dalla componente valorativa (maggiore importanza o dignità della ragione nei confronti di altri aspetti della facies humana: istinti, emotività e affettività); a quest’ultima valutazione della componente razionale dell’uomo si potrebbe opporre, infatti, che essa richiede un termine finale nella catena delle regressioni (il dover essere del dovere) che non potrebbe consistere altrimenti che in un principio superiore, reale ed ideale, nell’ambito di una impostazione astorica dell’etica come quella di Kant: l’essere trascendente delle religioni storiche o della filosofia classica, medioevale e razionalista; l’autorità di fatto del positivismo o la società ideale delle utopie compresa quella comunista.
In mancanza di questo ulteriore grado o istanza di convalida (sempre secondo questa obiezione) non si spiegherebbe perché l’uomo “dovrebbe” anteporre i valori dell’intelletto, della ragione o della fede a quelli del senso o della vita (v. infatti l’appello di Nietzsche a “rimanere fedeli alla terra”).

La critica suddetta, come meglio vedremo in seguito, diviene invece superabile attribuendo un corso storico alla ragione dell’uomo e in particolare alla identificazione di questa, nel campo dei giudizi pratici o di azione, con la categoria del “dover essere”.


2. UNIVERSALITÀ DELL’IDEA IMPERATIVO DEL DOVERE

Questa natura razionale dell’uomo si manifesta nell’idea imperativo del dovere; quali che siano gli atteggiamenti particolari in ordine ai concreti problemi pratici, che sorgono dai fatti dell’esistenza, nessuno può dubitare che tu devi fare quello che devi fare (imperativo categorico).

2.1 Il suddetto “assioma del dovere” costituisce un atteggiamento della volontà, universale e irriducibile, quindi “a priori”, che permane oltre ogni formulazione particolare di obblighi e diritti e deriva dalla capacità esclusiva dell’uomo, in quanto essere razionale, di avvertire la distanza incommensurabile che separa “ciò che” è da “ciò che deve essere”.

Osservazioni: in senso contrario si può opporre che la separazione tra “essere” e “dover essere” è una formazione storica prodotta dalla civiltà cristiano-germanica che non si rinviene, oltre che nei popoli primitivi, neppure nel diritto romano classico; significativa in quest’ultimo è la qualificazione delle situazioni giuridiche attive come “jus” (da jubeo) vale a dire come capacità di potere e di comando alla quale il giusnaturalismo contrapporrà la qualificazione delle medesime come “diritto” (da directum) ossia come giusta valutazione, conforme a un principio superiore, dei diversi interessi in conflitto.


3. LE FORME A PRIORI DELLA VOLONTÀ MORALE

L’assioma del dovere si concreta e si realizza nelle “forme a priori” della volontà nel senso che il comportamento può dirsi “morale” soltanto se la volontà è qualificata dalla categoria formale del “dover essere”.

3.1 La qualificazione morale è pertanto puramente formale e situata a un livello superiore rispetto ai particolari contenuti del dovere nell’azione occasionati dalle circostanze di fatto.

3.2 La qualificazione morale dipende esclusivamente dalla legge del dovere che la ragione impone a sé medesima.

3.3. Ogni morale che faccia derivare le proprie qualificazioni (buono/cattivo e giusto/ingiusto) da un comando esterno alla ragione (vale a dire da una fonte “eteronoma”) rappresenta una violazione dell’imperativo categorico in quanto quel comando dovrebbe essere obbedito in vista di una possibile sanzione, premio o castigo, e sarebbe pertanto un imperativo ipotetico.


4. LE FORMULAZIONI DELL’IMPERATIVO CATEGORICO

Le forme “a priori” della volontà, che attribuiscono la qualità morale dell’azione, sono rappresentate dalle seguenti tre formulazioni dell’imperativo categorico:

4.1 Agisci secondo quella massima che possa valere in ogni tempo e in ogni luogo come legge universale.

4.2 Agisci in modo da trattare l’umanità sia nella tua persona che in tutte le altre sempre come fine e mai come mezzo.

4.3 Agisci in modo che la tua volontà possa essere considerata come istitutiva di una legislazione universale.

Osservazioni: contrariamente a quando ritiene Kant il criterio di “universalità” non consente di mantenere la qualificazione etica su di un piano rigorosamente formale id est indipendente dal contenuto dell’azione; infatti nella natura umana vi sono diverse componenti messe in rilievo dalla moderna psicologia (intelletto e ragione, affettività e sentimento, sensibilità e istinto) e diverse sono le qualità e le situazioni dei singoli individui; si tratterà allora di decidere quale aspetto della natura umana, quale situazione o interesse, debba avere la prevalenza ed essere elevato a criterio di valore universale.
Non è pertanto l’universalità del comando morale (o giuridico) che determina i valori di moralità e di giustizia (honeste vivere, alterum con laedere, suum unicuique tribuere) ma sono questi ultimi che determinano ciò che deve trattato secondo universalità id est secondo ciò che è eguale o diseguale rispetto all’atteggiamento dei singoli come dell’Autorità.
Del resto nella formulazione delle tre versioni dell’imperativo categorico Kant enuncia una precisa regola contenutistica (la seconda) che non deriva dalle altre due (l’universalità della regola di azione) ma al contrario le determina (ha valore universale quel comportamento che tratta l’umanità sempre come fine e mai come mezzo); dove però si palesa ancora quella presupposizione di un maggior valore della componente razionale dell’uomo nei confronti delle altre che costituisce il postulato di tutto il sistema (maggior valore che anche Freud entro certi limiti sottoscriverebbe ma che Schopenauer e Nietzsche decisamente respingono).
A meno che, per conservare il carattere formale dell’imperativo categorico, il requisito dell’universalità venga inteso come “condizione di reciprocità” (non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te); nel qual caso però, come rileva esattamente Schopenauer, il comportamento (come avviene delle relazioni internazionali tra gli Stati) risulterebbe sostanzialmente egoistico e utilitaristico e il preteso imperativo categorico degraderebbe a imperativo ipotetico (legittimando tra l’altro la schiavitù come istituzione universale applicabile nell’antichità a qualunque uomo con perfetta condizione di reciprocità tra i diversi popoli che si manifestava nell’istituto “juris gentium” del riscatto). E appena il caso di aggiungere che l’imperativo morale così inteso non sarebbe obbligatorio (a parte le sanzioni del diritto) dal punto di un vero o se credente “superuomo” che confidi di trovarsi sempre dalla parte favorevole (v. ancora Schopenauer).


4. 5. I “POSTULATI” DELLA RAGIONE PRATICA

La dottrina morale suesposta ha dei “postulati” o meglio dei presupposti della sua accettabilità secondo ragione; questi “postulati” sono: la libertà del volere; l’esistenza dell’anima; l’esistenza di Dio id est di un garante della conciliabilità tra moralità e felicità; conciliabilità che può essere considerata come il “bene sommo” cui può tendere l’uomo.

5.1 Libertà del volere: è presupposta nell’imperativo categorico; se l’uomo deve obbedire a questo imperativo vuol dire che egli può scegliere; questa possibilità di scelta deriva dall’appartenenza dell’uomo oltre che al mondo sensibile (o “fenomenico”) anche al mondo intelligibile (o “numenico”) e in quest’ultimo mondo egli è libero.

Osservazioni: se l’uomo appartiene distintamente (vel) a due mondi: quello sensibile (governato dalla causalità) e quello intelligibile (nel quale vige la liberta) l’uomo in tanto sarà libero in quanto il suo comportamento non sia determinato causalmente in tutti e due (et) questi mondi (leggi di De Morgan); a meno che non si consideri pura apparenza o esperienza psicologica la necessità del mondo sensibile (cosa che il Kant della “Critica della ragion pura” non accetterebbe). In termini più concreti il ragionamento di Kant è del tutto aprioristico e arbitrario dal punto di vista della moderna psichiatria che anche quando non accetta più le suggestioni di Lombroso (l’idea del “delinquente nato”) ritiene che la coscienza del dovere ossia del valore morale o sociale dell’azione possa mancare in dipendenza di tare ereditarie o di condizionamenti educativi e ambientali.

5.2 Anima immortale: nella vita terrena l’uomo non può realizzare integralmente la moralità in dipendenza dei condizionamenti causali del mondo sensibile; si deve pertanto postulare una esistenza ultra mortem e infinita nella quale la realizzazione della moralità o volontà buona sia effettiva.

Osservazioni: nel sistema di Kant i condizionamenti da parte del mondo sensibile e i relativi conflitti sono condizione della moralità; in altri termini l’etica di Kant è un’etica di “contrasto” (tra le diverse componenti della personalità) e di “disciplina” (delle facoltà inferiori da parte della ragione) in quanto è diretta a realizzare la priorità della ragione sulla “natura” (simile è il motto stoico: “marcet sine adversario virtus”). Pertanto con l’eliminazione della possibilità del conflitto sparirebbe (dal punto di vista Kant) anche la moralità o virtù: nessuno ha mai pensato seriamente di fare una legge per ordinare agli uomini di nutrirsi e il tentativo da parte di Kant di estendere la qualificazione di “dovere” agli impulsi naturali ha un vago sapore di ridicolo.

5.3 Esistenza di Dio: la virtù o moralità per divenire “sommo bene” e cioè la meta cui razionalmente deve tendere l’uomo deve essere conciliabile con la felicità; il virtuoso e solo il virtuoso è degno di essere felice; ma nel mondo dell’esistenza terrena si rinviene piuttosto una opposizione tra moralità e felicità; occorre quindi postulare un “garante” dell’accordo tra virtù e felicità e questo garante non può che essere Dio.

Osservazioni: si noti “non può che essere Dio” soltanto se il medesimo è la fonte del comando morale altrimenti non si vede perché un essere superiore, trascendente e onnipotente dovrebbe fungere da operatore di sanzioni per un comando (l’imperativo categorico) che l’uomo e soltanto l’uomo pone a sé medesimo; per quanto concerne poi la conciliazione tra moralità e felicità si può osservare che se la ragione è la dimensione umana di maggior valore, la felicità che compete alla virtù dovrebbe essere la razionalità-moralità stessa indipendentemente da ogni felicità da benessere che in ultima analisi si riferisce alla soddisfazione della componente sensibile e affettiva della natura umana.


6. IL REGNO DEI FINI

Conformandosi all’imperativo categorico la volontà dell’uomo partecipa a una dimensione superiore al mondo sensibile che può essere chiamata “il regno dei fini”; questa dimensione può essere definita come il mondo soprasensibile in cui si realizza la perfetta comunione degli uomini guidati dalla razionalità e dalla moralità.

Osservazioni: questa conclusione del sistema morale di Kant è stata sviluppata da Fichte per affermare la tendenza dell’uomo verso un orizzonte morale ultimo e perfettamente razionale che guida le nostre azioni ancorché sia conseguibile mediante approssimazioni soltanto verso un punto (asintotico nel linguaggio matematico) situato all’infinito; Kant sembra invece presupporre che l’uomo in quanto essere razionale appartenga già a un mondo sovra-sensibile che costituirebbe una realtà sostanziale (v. proposizione n 5.1) e non una meta ultima e irraggiungibile; pertanto dal punto di vista di un “interpretazione deduttiva” del suo sistema (trasformazione degli assiomi e dei postulati in conclusioni utilizzabili praticamente), peraltro non compatibile con la sua collocazione storico-culturale, il discorso di Kant si avvolgerebbe in una petizione di principio in quanto la conclusione del sistema (possibilità di pervenire a una “realtà in sé” tramite la legge morale) ne costituirebbe anche la premessa indispensabile (la ragione, fonte della pretesa “legge morale”, come “realtà in sé”).


VALUTAZIONE CRITICA

In conclusione: la dottrina morale di Kant quali che siano i suoi meriti (se considerata da un punto di vista superiore alla medesima e risalente in definitiva all’idea del Bene di Platone) e il suo valore storico (particolarmente apprezzabile in epoche di crisi come quella che oggi viviamo) deve ritenersi debole da un punto di vista logico soprattutto perché non riesce a superare e a risolvere l’opposizione esistente tra “essere” e “dover essere” nella dimensione “trascendentale” della ragione quale carattere universale della natura umana: il fatto che l’uomo abbia una componente razionale non comporta che egli debba coltivarla a scapito della sensibilità e dell’affettività a meno che si identifichi questo “dover essere” con le consolidazioni de praesenti e sempre rinnovantesi della razionalità (interessi, valori e realizzazioni) nella facies humana secondo un movimento dialettico di questa (esattamente intravisto da Fichte e successivamente perfezionato da Hegel) che dovrebbe rappresentare in un tempo il postulato e la proposizione conclusiva del sistema (carattere circolare e non assiomatico dei sistemi filosofici di provenienza razionalista e di svolgimento nell’idealismo inteso lato sensu).
Invece nella filosofia di Kant i “postulati della ragione pratica” (libertà del volere, anima e Dio) sono al tempo stesso le “uscite” o conclusioni ultime del sistema e per la loro imponenza meriterebbero un “punto di appoggio” ben più consistente che presunta razionalità perenne dell’umanità; identificata da Kant con un “dover essere” collocato al di fuori del corso storico e quindi necessariamente “formale” in apicibus ma nelle conclusioni pratiche rimesso alla formazione illuministica dell’uditorio (per usare una felice espressione di Perelman) dell’epoca di comparizione.

Da questo punto di vista (ancoraggio della categoria morale a una “natura umana perenne”), oggi non più sostenibile, potrebbe sembrare più soddisfacente la spiegazione del dovere verso il prossimo data da Hume che lo ricollega alla capacità caratteristica e irriducibile dell’uomo di sentire come propri i sentimenti altrui di piacere o di dolore (nello stesso senso ma con diversi svolgimenti v. Schopenauer); questo sarebbe il “principio costitutivo” della moralità e la conclusione delle regressioni del “dover essere”; vale a dire la dimensione fattuale e storica (e non “a priori”) che ha determinato il passaggio dai giudizi di fatto ai giudizi di valore e che è stata “consolidata” dall’esperienza cristiana.
Tuttavia la spiegazione del comportamento etico in termini di “simpatia” (empatia nel linguaggio della psicologia di oggi), data da Hume, non riesce a superare l’opposizione tra la dimensione dell’essere e quella del dover essere: infatti l’empatia come partecipazione all’altrui stato d’animo può manifestarsi sia nel senso della solidarietà con l’altrui sofferenza (empatia buona) sia nel senso del godimento (empatia cattiva) come avveniva negli antichi ludi circensi e come sperimentano oggi gli spettatori di sport violenti oltre che nelle vicende che caratterizzano tutte le manifestazioni del fanatismo umano.
Ne consegue che l’empatia non può fornire il fondamento della categoria morale che sposta sempre al di là del fatto anche psicologico il giudizio sul valore del medesimo.
A sua volta però il “dover essere” va oggi considerato, per non incorrere nella regressione “ad infinitum”, non come una positività universale e necessaria (sia pure trascendentale nel linguaggio di Kant) ma come una dimensione residuale di carattere storico, un’istanza ultima o punto di riferimento e ancoraggio di qualsiasi giudizio etico (e in questo senso “trascendentale”) che trova la conciliazione con l’essere, al quale si oppone, nella determinazione dialettica che nel momento storico presente della civiltà occidentale si è consolidata tra i due termini (essere e dover essere); dialettica intravista efficacemente da Fichte, per cui ogni concreta realizzazione del “dover essere” ricade nel fatto e apre le prospettive di pensiero e di azione verso una realizzazione successiva secondo un processo indefinito e mai concluso che acquista però concretezza soltanto nell’ambito della cultura storicamente realizzata da cui quella contrapposizione ha preso vita (Hegel); infatti questa determinazione antagonistica – sconosciuta a gran parte del mondo classico e non ancora pienamente sviluppata nei Vangeli come sta a dimostrare, tra l’altro, la legittimazione della schiavitù – rappresenta nel mondo occidentale l’esito di un corso millenario (filosofia greca e romana, attività culturale della Chiesa, elaborazione del diritto romano-giustinianeo da parte dei giuristi medioevali, filosofia razionalistica, cultura dell’Illuminismo) e trova in definitiva la sua fonte nell’opposizione tra materia e spirito, anima e corpo, fatto e valore che rappresenta il contributo più importante della civiltà cristiana al pensiero contemporaneo (ma v. già in Platone il mito dell’auriga e quello di Er) mediante il distacco dell’uomo dalle tendenze collegate alla sua natura animale; al di fuori di questi dualismi religiosi e metafisici ad un tempo, l’idea-imperativo del dovere sembra destinata svanire nella pura fattualità del sentimento (come potrebbe essere il sentimento del dovere di combattere e quindi di arrecare del male per la patria o il partito o l’idea ecc.).

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