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Hoc Erat in Votis (Scelta di poesie)
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Prefazione
Giancarlo Albisola Albertalli, il maggior poeta “gay” piemontese e canavesano vivente, raccoglie in questo libro una scelta delle sue poesie, tratta dal volume “Altri” pubblicato nel 1995 per i tipi della Casa Editrice “Cultura e Società” con presentazione postuma di Natalia Ginzburg, comprendente il meglio dei suoi due libri principali “Poesie per un ´diversoª” e “Così”, nonché delle “Poesie giovanili” e delle “Poesie sparse”.
A scoprire il Poeta sono stati dapprima Pier Paolo Pasolini, il quale gli ha pubblicato le prime poesie su “Nuovi Argomenti”, e poi Natalia Ginzburg e Franco Fortini, i quali hanno pubblicato una scelta delle poesie del suo primo volume in apertura dell’Almanacco “Nuovi Poeti Italiani N° 1”, edito da Einaudi nel 1980.
Il volume completo è stato pubblicato in seguito da Rebellato.
Natalia Ginzburg, quando incontrò per la prima volta il Poeta, ne riportò una impressione favorevole: le sue poesie per quel giovine le parvero aver colto nel segno e ne propose a Franco Fortini e a Italo Calvino l’inclusione nel volume.
Anch’io mi dichiaro convinto della bontà della scelta. E come Natalia Ginzburg sono certo che il passare del tempo metterà nella giusta luce la sua opera e le darà spessore.
Ma sentiamo la Ginzburg: “I due libri principali di Albisola Albertalli sono le “Poesie per un diverso”, scritte fra i trenta e i quarantacinque anni, che sono contrassegnate da una concezione “laica” della poesia, ed hanno per protagonista il giovine R… (Rafele), un ragazzo conosciuto dal Poeta in una clinica per malattie nervose, il quale, fatto oggetto di derisione e di scherno da parte dei suoi compagni (o, meglio, d’un suo compagno) perché era un ragazzo particolare, è caduto ammalato e non è più guarito, e le poesie del volume “Così”, scritte fra i quarantacinque e i sessant’anni, le quali hanno per protagonista il giovane Lelio, morto tragicamente nelle acque del Po in giovanissima età.
Il tema principale della poetica di Albisola Albertalli ha come sfondo la sua amicizia per Rafele e per Lelio. Ma il sentimento che Egli prova per l’uno si confonde, nel succedersi dei due libri, con quello che Egli prova per l’altro, tanto che i due giovani, pur nella contrapposizione dell’aspetto fisico e dei rispettivi caratteri (pallido, biondo ed esangue Rafele, bruno, caldo e sensuale Lelio), tendono ad identificarsi ed a integrarsi a vicenda, quasi fossero le due faccie di una stessa medaglia. E queste sono anche le caratteristiche dei due libri corrispondenti”.
Altri due giovani ricorrono nella presente scelta: Bibe, l’“anima nera” di un “ragazzo perduto”, il quale ha condotto il Poeta, come è accaduto per Rafele con i suoi compagni, letteralmente alla rovina, e Mowgli, il protagonista della “Elegia Esistenziale”, detta anche de “Gli Angeli Caduti”, per il quale è stato fatto dalla critica il nome di Tadzio, e che è la descrizione della Torino degli anni ’52-‘53, gli anni dell’“esistenzialismo”, nella quale una intera generazione di intellettuali torinesi, tuttora viventi, si è riconosciuta. Essa è anzi, “tout court”, la Elegia della Città di Torino.
In seguito, a partire dagli anni ’70, il Poeta è approdato a Roma.
L’opera completa di Albisola Albertalli avrebbe dovuto essere pubblicata, per conto di Einaudi, sul principio degli anni ’90, a cura di Franco Fortini e di Natalia Ginzburg, che ne scrisse la prefazione, ed era già stato “isolato” per il volume il titolo di “Altri”, titolo in seguito adottato dall’Autore.
Purtroppo, per via della morte di Natalia Ginzburg, avvenuta dopo un breve mese di malattia, l’8 ottobre 1991 e poi di Franco Fortini (nel frattempo la Casa Editrice, per le note vicende, era passata di mano) e di Giulio Einaudi, non se ne fece più nulla.
Così nel 1995 il Poeta provvedeva a far pubblicare l’edizione completa delle sue poesie, intitolata “Altri”, per la Edizioni di “Cultura e Società”.
La scelta che l’Autore propone adesso, per i tipi della Casa Editrice Montedit, è rigorosa e severa (il Poeta ha “scremato” molto, ma ha “scremato” bene), salvo forse che per l’inclusione del “Notturno romano”, del ’62, una lirica a lui cara, ma che io non avrei trascelto.
Personalmente ritengo che le poesie migliori del primo volume siano le prime dodici, fra le quali spiccano le tre brevi liriche del ’62, “Sine titulo”, “Angelo della luce” e “Apocalittica”, la terza sopratutto, che è forse, in assoluto, la cosa migliore che Egli abbia scritto in versi, poi la Elegia N° 14 “La luce” o “Di Kohoutèk”, la Elegia N° 15 “Rafele, Tu perdona” e la Elegia “Puer Aeternus”, colla quale il giovine R… passa la mano al giovane Lelio.
In seno al secondo volume, “Così”, mi hanno molto colpito la Elegia N° 2 dei “Tristi tempi” e la Elegia N° 3 “For a dead Poet”, in morte del giovane Lelio, poi le principali elegie che seguono, tutte lunghissime, ma tutte di prima qualità (segno che il Poeta sa padroneggiare egregiamente il proprio verso, come attestano i 130 endecasillabi circa della “Puer Aeternus”, scritti tutti d’un fiato e tutti ispirati), e sono: la Elegia N° 5 detta la “Ugo Foscolo”, la Elegia N° 6 de “Le Tre Parche”, la N° 8 “Le Quattro Stagioni”, la N° 13 “Le bianche statue”, la N° 14 detta de “L’anima nera” o de “L’Apocalisse”, che ha per destinatario Bibe, la N° 15 “Di Viverone”, tutte ambientate fra Roma e il Canavese, e finalmente la Elegia N° 16 “Dell’alloro”, colla quale l’Autore celebra l’apoteosi del giovane Lelio, anche lui poeta.
Ma il meglio della sua produzione, ha scritto Franco Fortini (e io sono d’accordo con lui), è costituito dalle sue splendide “prose”, perché Albisola Albertalli, come il Campana, alla prosa è nato subito “maturo”.
Del ’61, infatti, è la prima delle sue “prose”, la “Elegia in folle”, scritta improvvisamente dopo nove anni di quasi assoluto silenzio, la quale è anche la sua prima opera della maturità, dell’anno successivo è la “Toccata in folle” (K595, Dodecafonica)”, la quale è forse la più levigata delle sue “prose”, e che richiama, per il linguaggio “disarticolato” il Campana, del ’71 è la “Elegia Esistenziale” detta anche de “Gli Angeli Caduti”, che le si può collocare degnamente accanto, e finalmente tutta la parte centrale della Elegia N° 3 “For a dead Poet”, anch’essa in prosa, che è dell’ottobre del 1980.
Delle “Poesie sparse” le più riuscite mi paiono essere, oltre alle tre liriche del “Trittico” del ’63-‘64, “Le Muse Inquietanti (Omaggio a De Chirico)”, scritta con linguaggio “cifrato” ed in chiave metafisica, e la breve “Epigrafe per la propria tomba”, del 1987, colla quale il Poeta fa ritorno, per un istante, al verso libero e colla quale si conclude la sua scelta.
Quanto alle “Poesie giovanili”, che stanno all’insegna dell’ermetismo, non mi resta che sottoscrivere quanto scriveva Natalia Ginzburg nella sua prefazione: “Mi pare azzardato affermare, come ha fatto qualcuno, che esse costituiscano il meglio della sua produzione. Credo piuttosto di poter affermare, senza timore di incorrere in errore, che esse stanno alla “Allegria” di Giuseppe Ungaretti, come le poesie giovanili del Gozzano stanno al “Poema Paradisiaco” del D’Annunzio e non sfigurano al loro confronto.
Per quel che riguarda la collocazione delle sue poesie (è ancora la Ginzburg che parla), Albisola Albertalli mi pare appartenere al filone dei poeti “post-moderni” e “citazionisti”, dei quali, date alla mano, Egli si può considerare l’anticipatore”.
Il nuovo credo, infatti, che Egli si propone di raggiungere in poesia è quello di un ritorno all’ideale dei classici, impostato sull’uso quasi esclusivo dell’endecasillabo sciolto, del quale Egli ha fatto il “perno” della sua poesia. Tre poeti gli sono venuti in aiuto: Guido Gozzano (il Gozzano dei (pochi) frammenti “nuovi” delle “Farfalle”), Camillo Sbarbaro, e Raoul Dìddi, l’autore di un volume di versi oggi “dimenticato”, ma che ha goduto attorno agli anni ’60 di una sua notorietà, il “Poema distrutto”. Più il “migliore” Saba. Poi i classici (sopratutto Petrarca, Foscolo, Leopardi) e i Decadenti. Ma anche l’Ungaretti del “Dolore” (“Il tempo è muto”) e de “La Terra Promessa” (“Canzone”, “Recitativo di Palinuro”).
Per le “prose” il Gozzano delle “Lettere dall’India” e di “Un vergiliato sotto la neve”, il Montale di “Dov’era il tennis” e “Visita a Fadin” (“Elegia in folle”) e, per la “Toccata in folle”, Dino Campana.
Ma a proposito dell’endecasillabo, sentiamo il Poeta: “Nel 1949, a conclusione della sua Antologia della “Poesia Italiana Contemporanea”, edita da Guanda, Giacinto, Spagnoletti collocava, quale ultima degli autori prescelti, una poetessa per un cinquantennio in seguito “dimenticata” e solo adesso “riscoperta”, Alda Merini.
Ahimè, erano i tempi dell’ermetismo imperante, del De Robertis e dei “benpensanti alunni dell’estetica crociana”. E quegli endecasillabi, alcuni dei quali bellissimi (“ci promettemmo il sempre degli amanti”), ma così scarsamente “in carattere” con la linea della moderna poesia italiana (la “novità” del momento era Luzi!) davano francamente “fastidio”. Tanto che la loro lettura ispirò a me, come a tutti, questo commento: “Ma questa non è “poesia moderna”! E ne lamentai l’inclusione nel volume da parte di Spagnoletti. Tanto eravamo schiavi, tutti, del pregiudizio! E pagai anch’io il mio tributo ai “petrarchisti” della “poesia pura”!
Poi fu la volta, per me, della mia rivolta di ordine esistenziale e dei miei quasi dieci anni di assoluto silenzio, fra il ’52 e il ’61, sul piano della poesia.
Durante tutto quel periodo lessi molto, ma non scrissi nulla, se non il mio racconto “Incontro al cinema”, del ’53-‘54, racconto che piacque a Calvino, il quale lo giudicò “bello, anche se impubblicabile”, e che mi scongiurò di non cestinarlo (io lo volevo distruggere): “Dite a quel giovane di non distruggerlo e di conservarlo nei cassetti, perché quel racconto è, nel suo piccolo, un “classico della trasgressione”.
Verrà, col tempo, anche in Italia, il momento che lo si potrà pubblicare. È venuto, infatti, nel 1994.
Poi feci ritorno alla poesia. Nel 1961 scrissi, quasi improvvisamente, l’“Elegia in folle” e nel ’61-‘62 la “Toccata in folle”, anch’essa in parte in prosa e in parte ancora in versi liberi. Ma nel ’62 scrissi pure le tre elegie del “Trittico” per Rafele, “Sine titulo”, “Angelo della luce” e “Apocalittica”, di cui la prima in endecasillabi sciolti.
Ricordo lo scoramento che mi prese, e la mia cocente delusione, quando rilessi, dopo qualche giorno, quella poesia scritta tutta di getto. Il commento fu lo stesso che dieci anni prima avevo riservato alla Merini: “Ma questa non è “poesia moderna”! E difatti “poesia moderna” non era: era, semplicemente, “Post-Modern” ante-litteram. E benchè quei versi mi piacessero, li misi in disparte, convinto che non avrei mai avuto il coraggio di pubblicarli. E provai del rimpianto: il rimpianto di non sapere scrivere più dei versi liberi!
In quei giorni, riordinando i libri che avevo messo assieme a Torino durante la mia stagione giovanile, mi capitò fra le mani un volumetto della Vallecchi: erano i 18 “Nuovi Poeti” dell’Antologia di Ugo Fasòlo, diciotto poeti che, alcuni anni prima, avevano tentato, in vario modo, di superare per la prima volta l’ “impasse” dell’ “ermetismo”, e cioè dei vari Sinisgalli, Vigolo, Solmi, Sereni, Gatto, Luzi e Zanzotto: erano quasi tutti della generazione del ’25-‘30 e di essi due soltanto sono ancora oggi ricordati: Danilo Dolci e Antonio Corsaro.
Fra di essi primeggiava, allora, Raoul Dìddi. Aprii il libro alla pag. 128 e rilessi il frammento “centrale” del suo “Poema distrutto”:
Scarpe chiodate e cingoli di carro
frantumeranno la mia tomba e il nome,
non dalla pioggia, ma dal ferro un giorno
sarà raschiato per l’eterno. Ma
voi che marciando avrete ucciso i morti
e calpestato i buoni fiori e spente
le sacre luci, voi senza pietà
d’uomo o d’Iddio, disseppelliti al vento
marcirete in un gorgo di stagioni.
E i figli passeranno accanto ai padri
gettandoli coi piedi in fondo ai fossi
dove scorre una melma senza fine.
Erano versi endecasillabi, eppure suonavano bene all’orecchio ed erano “poesia”. E presentavano una singolare analogia con i miei di “Sine titulo”. Ora, se due poeti, ciascuno per conto proprio ed all’insaputa l’uno dell’altro (ma era davvero all’ “insaputa”? Quei versi non avevano forse “sedimentato” dentro inconsapevolmente, sino a fruttificare, in silenzio, alla distanza di dieci anni?) erano giunti entrambi alle stesse conclusioni, voleva dire che la via dell’endecasillabo era ancora percorribile.
Rilessi allora i miei versi e mi resi conto che non era il caso di “vergognarsi” di essi. Questa era la mia via. La via che avevo trovato. Poco dopo, nel ’63, scrissi la prima delle tre liriche del ’63-‘64, “Ignis Ardens”, in correttissimi versi endecasillabi, e poi la seconda e la terza. Nel 1972 (sul N° 27 di “Nuovi Argomenti”) Pasolini mi pubblicava “Sine titulo”, assieme ad “Angelo della luce” e ad “Apocalittica”. E da allora all’endecasillabo sono rimasto fedele.
Io intendo perciò presentarmi qui come l’anti-Sanguineti e l’anti-Pagliarani, l’anti-Balestrini, l’anti-Giuliani e l’anti-Porta (dei quali peraltro ho la massima stima), non solo, ma come l’antitesi di tutta la poesia dei “neo-sperimentali” uscita dall’esperienza del ’68.
Io sono, per età, della loro generazione (forse un poco più giovane), ma in loro io non mi riconosco. Perché il loro sguardo è rivolto all’ “indietro” (al Futurismo e al passato) e il mio, se mai, polemicamente “in avanti”, ai classici, cioè (sic!), e al Gozzano. Il quale è stato, come ha avvertito acutamente il Montale (il Flora ne fece, a suo tempo, il maggiore dei suoi “Provincialeschi”), l’ “ultimo dei classici”. Perché, Signori, è bene che ne prendiate atto, Rimbaud è morto!”. Sin qui il Poeta.
“Ma un altro particolare, scrive ancora la Ginzburg, lo accomuna ai classici, oltre all’uso dell’endecasillabo, ed è il culto per la natura. Quasi tutte le sue poesie si aprono o si chiudono colla descrizione di un evento naturale: qui è un’alba gelida, là un tramonto di fuoco, qui un paesaggio sotto la neve, là un giardino in fiore”.
Ed ecco come il Poeta vede sé stesso: “Per noi il poeta è sempre giovane e sempre bello, bello ed efebico come un semidio. Egli porta i capelli lunghi e le chiome scomposte, secondo i dettami della moda neo-romantica. È elegante senza essere lezioso, signorile senza essere affettato. I suoi amori sono amori ideali. Egli non disdegna all’occorrenza l’uso del metro libero. Ma il suo verso è l’endecasillabo. E nei suoi endecasillabi egli incastona, come perle rare, dei termini arcaici. la sua immagine (la sua fotografia), bella come un ritratto di Nadar o del conte Prìmoli, compare in apertura dei suoi libri. E lo vediamo (e lo vogliamo) circonfuso di gloria e incoronato d’alloro. Basta col rifiuto dell’alloro!”.
Vissuto sempre isolato a causa di una malattia nervosa che lo ha costretto a dei lunghi soggiorni in clinica (le liriche del suo primo volume, “Poesie per un “diverso”“, Egli le ha scritte quasi tutte durante gli intervalli fra una degenza e l’altra e limate in clinica), alla morte del padre, che non ne accettava la “diversità”, si è rifatto un’esistenza ed ha diretto per 25 anni la “Biblioteca Civica” della sua Città, lavorando alacremente, ma sempre nell’ombra, al suo secondo volume intitolato “Così”, incoraggiato in questo da Natalia Ginzburg, da Franco Fortini e da Giulio Einaudi, il quale era entusiasta dei suoi endecasillabi.
Ad Albisola Albertalli è nuociuta sopratutto la morte di Pier Paolo Pasolini, il quale lo aveva preso a benvolere e lo teneva in grande considerazione, e con il venir meno del quale è venuta meno anche la sua collaborazione a “Nuovi Argomenti”, quando gli sono subentrati Enzo Siciliano in qualità di Condirettore e Dario Bellezza in qualità di Segretario di Redazione della Rivista.
E questo gli ha impedito di farsi conoscere a fondo, come sarebbe accaduto se Egli avesse continuato a pubblicare su di essa, man mano che le veniva componendo, le sue migliori poesie, come è avvenuto per un Dario Bellezza ed un Elio Pecora, i quali, attraverso ad essa, si sono fatti le ossa.
Perché Albisola Albertalli (vedi la recensione del volume completo delle sue poesie sul N° 104 della Rivista “Poesia” di Crocetti, pag. 36), definita da quel critico “appartata, ma originalissima voce”, non è inferiore né a uno né all’altro.
Ed è giunto finalmente il momento che il Poeta abbia il giusto riconoscimento che Egli merita. Perché Egli ha saputo creare con Mowgli, con Rafele e con Lelio “tre personaggi”. Unici ed inconfondibili. E se quando si dice Beatrice si dice Dante, quando si dice Laura si dice Petrarca, quando si dice Luigia Pallavicini si dice Foscolo, quando si dice Silvia (o Nerina) si dice Leopardi, quando si dice Felicita o Nonna Speranza si dice Gozzano, quando si dice Mowgli, o Rafele, o Lelio (i tre “giancarlei”, come li ha chiamati qualcuno, ad analogia delle “aretine” di Pietro Aretino, e cioè i giovani amati dal Poeta) si dice Giancarlo Albisola Albertalli. Tre nomi che appartengono ormai, per quelli che li conoscono, alla “leggenda”!
Intendiamoci, Egli non è né Leopardi, né Foscolo (ma neppure gli altri poeti della sua generazione lo sono!), la sua “misura”, più modesta, è quella di un Camillo Sbarbaro e, per le “prose”, di un Dino Campana. Però un suo contributo al mondo delle Lettere Italiane Egli lo ha dato e le sue migliori poesie sono meritevoli di comparire sulle pagine delle nostre più qualificate Antologie, accanto a quelle di altri due poeti, come lui della “trasgressione”, quali Pier Paolo Pasolini e Sandro Penna.
Mi sia consentito, a questo punto, di considerare mio merito quello di aver scoperto per primo Albisola Albertalli in Canavese, facendogli ottenere la “Menzione d’Onore” al “Premio di Poesia Guido Gozzano”, ad Agliè, nel 1983, e poi il primo premio al “Concorso di poesia Francesco Carandini”, ad Ivrea, nel 1984. Perché Egli è per tutti noi, come il Gozzano, Poeta autenticamente “canavesano”, Poeta Nostro.
Per concludere vorrei ricordare ancora quanto scriveva Natalia Ginzburg nel licenziare il suo saggio, e cioè che l’opera di Giancarlo Albisola Albertalli, nonostante le sue molte “citazioni”, non assomiglia a quella di nessuno ed è soltanto sua. Poiché Egli ci ha dato, con i suoi due volumi “Poesie per un ´diversoª” e “Così”, il primo canzoniere d’amore italiano interamente omosessuale.
E adesso che la sua poesia, col passare del tempo, si va poco alla volta decantando, la sua opera ci appare sempre più come quella di un anticipatore, di un Maestro del “Post-Moderno” e del “Citazionismo” e di un classico.
Giuseppe Maria Musso
Hoc Erat in Votis (Scelta di poesie)
Dal Volume
POESIE PER UN “DIVERSO”
Alla cara memoria di Natalia Ginzburg
che mi ha incoraggiato a pubblicare queste poesie
I
IN VITA DEL GIOVINE R…
ELEGIA IN FOLLE
[1]
“ma l’altro beveraggio avrai sino alla morte,
il tempo è già più forte di tutto il tuo coraggio”
(Gozzano, Le due strade)
“Un maleficio fu dalla tua culla,
né varrà l’arte maga, o sognatore!”
(Gozzano, Convito)
Il giovine R… , di cui nella presente lirica, è stato, a più riprese, fra i diciassette e i ventun anni, ed è attualmente, ospite di una clinica per malattie nervose e mentali. Non ha avuto ancora “rapporti”. Non guarirà più.
All’origine del male il cruccio, fatto ossessivo, di non poter fare a meno di essere un ragazzo “così”. E di rincalzo, forse, last but not least, i lazzi indecorosi, pungenti, dei compagni di scuola (d’un compagno di scuola?)
All’On. Bruno Romano, del PSDI, l’Autore dedica.
I
Forse Rafele, fra le mura bianche
della clinica (e chiamano clinica
– VILLA DICIOTTO-UNO
(VILLA DICIOTTO-DUE) sta scritto sul portale
d’ingresso a lettere giganti – l’asilo
decoroso, l’apparenze, il dignitoso soggiorno),
forse Rafele, nel silenzio oscuro,
ai sereni ricordi, se ricordi
furono (ieri) di letizia mai,
di troppo gravi mali, intento, vai seguendo
il filo luminoso che discerne
l’“oggi” impietoso e lo “ieri” che punge
angoscioso e affatica la mente.
II
E se il ricordo addolcisce un istante
quanto ancora ti porta il presente
d’amaro, pur distaccato nella malinconica
quiëte isolata, le braccia che trascini, lunghissime
ali stanche arrovesciate al suolo,
curvo sulla spalliera della sedia, dondoli il braccio
– sfiora il dito il filo d’erba umido
della pioggia di ieri – l’occhio sbarrato, esterefatto, al vento
del tardo maggio, che i capelli biondi
ti scompiglia, se può chiamarsi maggio
questo maggio così fuori stagione
(pare un novembre: fastidiose mosche
ronzano intorno, appiccicate ai vetri,
sciamano al buio, gravi a due per volta,
vibrando l’ali…....................
......................................(Pausa)
Guardi nel vuoto: gli occhi, oh!, gli occhi,
meravigliosi ieri, oggi disfatti,
torbidi e liquefatti, trasparenti,
quasi diafàni, opachi, come opaco
liquido il fondo opale(scente) giallo
di certe mie caramelle all’ arquebuse: il dono
che ti feci d’una d’esse (t’ero allora
– breve soggiorno il mio – compagno di clausura),
pel ricordo che di te m’hai lasciato,
e serberò per me, intatto, a lungo;
presala colle labbra (la fame, la fame
rabbiosa che mette indosso lo shock insulinico),
presala colle labbra (quella fame),
quasi la divorasti in un istante:
digrignavano i denti, macinavi
la preda avido; lacrime quasi
parevano colare, maltrattenute,
da le pupille su le gote.
Ed ora (ancora)
guardi nel vuoto, annichilito, l’occhio
fattosi quasi limpido già, disfatto,
fanciullo appena più che adolescente,
oggi, oggi sei maggiorenne,
le labbra amare (e dolci nel ricordo),
le ciglia delicate, il volto pallido,
tinto quasi in continuo di rossore
(“Ma non potresti – chiedevi (arrossivi
di fuoco) – dir loro che parlino d’ “altro“,
il volto acerbo e delicato, l’oro
dei tuoi capelli; e le mani, le dita
affusolate di fanciulla, e tutto
tutto del corpo, se disteso al sole
III
pallido dell’estate morente, su la panchina di legno, all’aperto,
nell’angolo più remoto e seminascosto alla vista (vigile e giunge
improvviso un “monatto“; par quasi d’udire, fatidico, il grido
“Viva la morìa!”, ma che siano i malati, stavolta, a gridarlo.
Poi rifletti che incolti, rozzi, aspri; duri a volte, se occorra (se
[non veda la Suora),
il più vile dei lavori che chi possa rifiuta), l’immagine
s’affaccia la presenza del ricordo.
Nota. L’aspetto del “minus habens”, che hanno la più parte di loro (pressoché tutti): G… del carceriere, del carceriere in capo (il polso fermo, la maestosa imponenza, la condiscendenza bonaria, il cervello ottuso); B… del secondino, del secondino e del beccaio (l’incedere claudicante, le chiavi che suonano al passo, l’occhio bovino, lo sguardo spento); R… del secondino, dell’energumeno, del carnefice, dell’ammazza-cristiani, del boia (lo sguardo torvo, il labbro luccicante, il gesto dell’aguzzino, il passo silenzioso); D… che all’aspetto (alla parola, al gesto), nella somiglianza essenziale dei tratti del volto, è come il suo negativo fotografico in tutto; T… che riassume nella zucca rapata, più fèssa di una fèssa campana, le caratteristiche somatiche del cottolengo e del bruto; F… che sprizza veleno e saliva (serrati gli acuti canini, mingherlino l’aspetto, butterato, olivigno, il volto); P… dalla spettrale livida magrezza (lo scatto nervoso, lo sguardo pungente) che richiama l’immagine pallida della morte; S…, R…, M…, e C…, C… guardiano e barbitonsore, che dell’idiota e del folle congiunti ha i tratti pesanti del volto e lo sguardo spiritato.
Uno solo, Luciano, il giovine, e bellissimo Luciano (e perciò più crudele di tutti, come sempre i bellissimi, e quasi con tutti), ricorda oasi di serena dolcezza (Luciano dalle unghie feline e dallo sguardo sornione); ma ha, lui pure, il suo supplizio diurno; ché ci deve servire (noi signorini un po’ tutti per lui, gli studenti (e gli impiegati, gli operai, i contadini che fruiscono delle mutue), in tavola, le undici del mattino il pranzo (le tre del pomeriggio merenda) le sei di sera la cena, lui digiuno, noi senza fame, un cenno leggiero del capo: “Signor Rossi, ancora zucchini?”; “Due patate, Signor Mingazzini? Via, che non la fanno ingrassare! Vedrà che andrà presto a casa”. E per questo e per le altre incombenze, per quegli altri lavori umilianti che gli fanno fare, d’infermiere, schocchista, sorvegliante, sguattero (il più vile dei lavori che chi possa rifiuta), lo pagano in tutto trentacinquemilalire in un mese.
(Lui mangerà poi, dopo smesso il suo turno, giunto a casa (sei chilometri in tutto). Nelle ore in cui non è di turno lavora come operaio in un’officina meccanica).
IV
Ricordo gli alberi (i tronchi le foglie), l’ala rossa del fabbricato in fondo alla corte, l’edificio dell’Ottocento, d’un rosso romano, frutto, quella tinta, forse, del passato ventennio (come doveva fare, allora, “novecento”), e che ora riaffiora sotto un giallo cachetta, passato di recente; le panchine un tempo verdi, ridipinte a colori vivaci, d’una “modernità” che vorrebbe richiamarsi ad un gusto svedese e non è che pacchiana (e rivelano ad un dipresso le strisce, una gialla, una blu, una rossa, una nera, una verde, alternate, nella violenza offensiva dei toni, nell’accostamento balzano e lussurioso dei colori, uno stato di esaltazione sicura nella psiche di chi ha operato o imposto la scelta), le panchine sparse all’intorno (ma l’ordine della Direzione era di tenerle in fila e abbinate), spostate all’occorrenza sul prato erboso, all’ombra delle “Musa paradisiaca“(, le “Musa“ dal giovane fusto, sradicate dal giardino di fianco (dove prima gettavano l’ombra, cullandosi in pace, sorge il nuovo parlatorio: il parlatorio delle Suore Tali, eredi per lascito testamentario; le Suore che prima curavano l’assistenza della Casa ed ora sono subentrate come proprietarie, in luogo della Signorina A… buonanima, “andata“, nel frattempo, “a raggiungere in Paradiso gli altri suoi Defunti“ (anche il vecchio Direttore, il dottor D…, Sindaco e Consigliere Provinciale (il po’ che s‘è fatto e che ora ha dovuto lasciare), se n‘è andato, e il nuovo Direttore, un giovincello sui quarant’anni, dallo sguardo mite sotto le lenti spesse, e dal sorriso garbato (o dolce suprema ingenuità dei poeti e dei pazzi!), s‘è messo al lavoro subito con alacre impegno (spira nella clinica ovunque un’aura salutare, le “Sorelle” hanno portato miglioramenti); e coi miglioramenti (lodevoli) i “miglioramenti” sono venuti infatti: d’un salotto limpidissimo, in puro neorococò, cerchereste invano la traccia (Zevi, Cederna, intanto hanno portato la retta a quota seimila); e della vecchia zitella, acida e vergine, non resta ora che una fotografia-ritratto (il viso secco, il naso adunco, la bocca dal taglio duro; d’un gusto, la foggia casalinga del vestire, l’acconciatura “à la garçonne” dei capelli, la semplicità d’una crocetta d’oro sul petto, tra il tardo crepuscolare e il ’925) dentro una cornice di sapore umbertino, appesa al muro nella penombra del parlatorio e già malamente sconciata di verde, fra quelle, parimenti in verde, tra di clorofilla e il penicillina, di due austeri Signori dell’Ottocento, con barba fedine e redingote, i pince-nez d’oro debitamente inforcati, che l’hanno preceduta nella sua attività (redditizia) di compianta ed autorevole benefattrice), le giovani “Musa“ trapiantate nel pieno del’estate, le giovani “Musa“ trapiantate ed attecchite, contro ogni regola, nel pieno dell’estate, senza che neppure venissero bagnate: “Tanto – dicevi – siamo al m…, e attecchiranno senz’altro, vedrete; attecchiranno da sé”. (I “monatti” guardavano sottecchi).
Attecchirono infatti. (E i “monatti” mi parvero stupiti). Ma era caduta, a renderle vive, dopo qualche giorno, la pioggia.
“Questo non è un m…, correggevi subito appresso, scavalcando la risposta del guardiano (un ordine anch’esso della “Direzione”): questa – e calcavi la voce – è una Casa di salute“.
Poi la luce. Quella luce che fendeva raso terra l’ombra (la filtravano gli alberi, tra le fronde), scaglie di luce, macchie d’ombra, chiazze dai colori mobili; richiamavano alla mente “In un giardino meridionale” di Bonnard, del ’15, la mollezza di quelle sue figure (altro effetto dello shock insulinico) dal braccio indolente, passato in alto attorno alla testa, adagiate sullo sfondo, parimenti indolente e molle, d’un paesaggio Liberty.
(Mi richiami ora alla memoria l’immagine di te, disteso sulla rotta panchina di graniglia, umida ancora della pioggia recente (la ricerca d’una sigaretta, rivelatasi infruttuosa, t’aveva prostrato il sistema nervoso; quella tua caccia quotidiana d’una sigaretta, condotta a scadenza di ore, con metodica costanza, sino allo spasimo, “battendo” i ricoverati ad uno ad uno, come fossero preda (il rifiuto che non disarmava); l’unico, sistematico, insistito, lasciato cadere e tosto ripreso, coraggio tuo; e così ci siamo rivolti la parola infatti: “Scusi… (tentennavi); poi di fuoco: non avrebbe una sigaretta da darmi?”, la linea sinuosa del corpo, l’abbandono stanco dei fianchi (oh!, la mano ed il pennello del Boldini (le preziose eleganze), il ritratto di Annina Morosini del pittore Selvatico (ritta, il grande cappello piumato, il bianco levriero dannunziano attorcigliato al fianco, lo sguardo perduto, assente, la bocca soffusa di mistero… ) hanno per davvero (un istante) tutta la morbida indolenza d’una figura femminile).
Ritorno al “te” di adesso: ecco, mi risei presente, un fanciullo un po’ cresciuto, timido, infelice. (La maledizione che t’ha lasciato tua madre, bellissima, nel sangue, nelle viscere, nel sistema nervoso delicato, nel neuro-vegetativo che sfugge al controllo del sistema nervoso centrale, nella tua volontà debole, in tutto il tuo essere debile).
“Sono sempre stato così. La frase, sentita ripetere di te, quante volte, era caduta, nel silenzio della sera, fra te e me, come un colpo di scudiscio. Avevi abbassato gli occhi, la fronte. Poi mi guardasti di sotto in su, colle pupille incerte: dimostravi (quella voce, lo sguardo, lo sguardo, il dito della mano incerto sulla mossa della pedina della dama) sette anni di età.
V
Ed ora il riso folle che non sai trattenere, folle
di quanto d’amaro racchiude nel candore appena offuscato,
di quanto “non hai” fatto, e ti punge (“quello”, oh! “quello”),
[di quanto
non hai vissuto e vorresti vivere (e sai che non potrai più
[vivere;
ora il riso folle che ancora mi s’affaccia alla memoria,
che da allora mi s’affaccia alla memoria.
Ti ho riveduto così, così ti ho lasciato, nell’androne
della clinica ovattata (felpata di silenzio), delle Suore.
Ho suonato il campanello, tre colpi; s‘è affacciato
un infermiere, un “monatto”. Sulla soglia della clinica dove
[ho sostato un istante,
ti ho detto: A rivederci; era un addio. Un buffo d’aria fredda
[sul volto, una ventata
(mi sono stretto al collo il bavero dell’impermeabile, e siamo
[a maggio),
un buffo d’aria fredda, una ventata sul volto,
s‘è portata via l’immagine del tuo viso sconvolto.
Maggio-Settembre 1961
NOTE
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