Cerchio imperfetto

di

Alessandro Pirovano


Alessandro Pirovano - Cerchio imperfetto
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
15x21 - pp. 190 - Euro 13,00
ISBN 978-88-6037-9597

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In copertina: rings patten © Yang MingQi – Fotolia.com


Il silenzio della sofferenza… il cerchio di una vita distrutta… gli eventi traumatici incontrastabili.
Un uomo reattivo osteggia i gravi problemi dei quali la vita ti può rendere conto, usando il proprio coraggio quale baluardo esistenziale, sì, certo, ma colui che non riesce a reagire o ad avere riscontri dal proprio debole carattere, come si comporta? Come si relaziona con se stesso e gli altri?
Un libro cupo, teso, incernierato nell’ansia e nell’angoscia, e che ti farà scivolare in tante crude realtà ineluttabili. Un romanzo non da tutti!


Restai lì a riflettere, piangendo e disperandomi nella mia atroce sofferenza. Se ne era andata, così, come una nuvola nel cielo che passa e si dissolve, come il vento della vita che soffia per poi fermarsi nel nulla, e quel nulla ero io. Scesi in soggiorno, aprii la persiana e mi misi ad osservare la notte pensando a Alexandra, alla sua dolcezza, al sentimento che avevo perso, al suo sorriso. Scrutai le stelle inseguendone il brillare, setacciai l’intera volta per trovarne una solidale che, nella sua scarsa luce, fraternizzasse con il mio truce umore in quel momento. Vidi le prime luci del mattino, il sole che faceva capolino con il proprio barlume mattutino, il tramonto della mia felicità: era giunto il giorno, ma per me era rimasta la notte nel cuore.



Cerchio imperfetto

Questo libro è un’opera di fantasia.
Nomi, personaggi, società, organizzazioni, luoghi, fatti e avvenimenti citati, sono invenzioni dell’autore e hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasi analogia con eventi, luoghi, persone vive o scomparse è assolutamente casuale.


Capitolo 1

Un minuscolo cerchio… cos’è un minuscolo cerchio se non una configurazione geometrica, del quale raggio per raggio per tre e quattordici ne fa l’area e raggio per sei e vent’otto la circonferenza? Un esiguo cerchio di fumo, il contorno della pupilla, l’aureo anello della fedeltà, certo, e quanti ne potremmo attingere nel nostro rispettabile pianeta, peraltro, quasi cerchio anch’esso?
Il mio cerchio, il mio stritolante cerchio, sospeso nel liquido della provetta della gioia, scuro come il buio di una vita annientata, la felicità di mille e la sciagura di pochi.
Non mi dilungo oltre, del resto, un cerchio è pur sempre un cerchio; ma il mio, di cerchio, gira su se stesso in trent’anni d’infelicità, prostrazioni, angosce, incubi.
Trent’anni di baratro.
Ne ho cinquantotto ma ne dimostro centottantadue , non perché sia un uomo orribile, ma moltiplicando la mia età per il quoziente fisso di quel maledetto cerchio, il devastante risultato è matematico.
Pancotti Paolo, questo è il mio nome; comune, ricorrente, usuale nome italiano che, chi lo sentisse, potrebbe pensare, «è una persona tranquilla, felice, non conosce problemi»; e no cazzo! Sono un povero Cristo e nessuno mi potrà contraddire di essere proprio un povero Cristo, dopo aver letto l’analisi della mia vita. Abbiate pietà di me, di ciò che posso rappresentare, ma non siate commiserevoli, non lo gradirei, l’autocommiserazione è già una costante della mia compassionevole esistenza.
Trent’anni fa, il nostro amico cerchio si presentò spudoratamente nella provetta di gravidanza acquistata in farmacia da mia moglie Laura.
Laura Greppi era, inizialmente, una donna meravigliosa, sia di fascino che di mente; una moretta come ne esistevano poche, non alta, ma giusta, un corpo aggraziato, longilineo, sinuoso, insomma, a me piaceva molto.
Quel visino acqua e sapone esplodeva in due enormi occhi azzurro verdeggianti, sovrastati da ciglia lunghe e scurissime; quel contrasto di colori mi faceva uscir di senno, l’amavo, amavo la sua figura, il modo di fare, la sicurezza di come esporsi ad ogni evento della vita, il suo esistere.
Accarezzando quel caschetto sbarazzino di capelli scuri mi sentivo felice, sicuro di aver concretizzato un sogno di donna che non avrei mai pensato di poter raggiungere.
Come sono io? Uno qualsiasi, il più comune degli uomini comuni; una sorta di Dustin Hoffman italico; i miei colori, tratti somatici e statura, sono paradossalmente simili al grande attore americano. Purtroppo il portafoglio no, quello mi esenta dall’assomigliargli, il mio stipendio di bancario non lo porrebbe in programma.
Ma non collochiamo il carro davanti ai buoi, sistemiamo il puzzle della mia avvilente vita, partendo dal primo incastro.
Addì l’anno 1976, in un agosto caldo, rovente, di quelli che ti fanno serbare memoria del vecchio inverno con nostalgia. Passeggiavo, o meglio dire, saltellavo sulla sabbia incandescente del litorale di Rimini con il mio amico di sempre Giuseppe Lauri.
Giuseppe condivideva con il sottoscritto tutto ciò che si potesse condividere: stesso anno di nascita 1951, medesimo lavoro in banca, identica città di residenza: Melegnano in provincia di Milano, gusti equivalenti in fatto di ragazze e sapori culinari, praticamente tutto ci accomunava; in un solo particolare eravamo molto diversi, lui era bello, estremamente bello: il classico moro con la pelle olivastra, alto da far paura, un fisico maschile invidiabile, l’icona dell’adone italiano; io invece, ero quello che ero: assolutamente non alto, castano scuro, pelle da scottature e un paio d’occhiali, belli, ma pur sempre occhiali, il fisico?… Dichiariamolo normale, volendo un po’ esagerare.
La canicola attanagliava il corpo e la mente, il sole disgregava lentamente le cellule epiteliali, la decisione di tuffarsi in acqua fu unanime, il refrigerio istantaneo, tanto da sdraiarsi sul bagnasciuga e farsi accarezzare dalle frizionanti onde sprofondando nella sabbia zuppa.
L’agosto nella riviera adriatica è come il centro di Milano nell’ora di punta, macchine a parte; l’unica differenza, peraltro non da poco, è la festosità della gente: mentre qualche giorno prima si scannavano nelle vie cittadine, stipate da personaggi di ogni etnia e ceto sociale, qui, tutti si sorridono, si amano, si mostrano gratificati dall’intenso marasma rivierasco, pronti, incondizionatamente, a farsi la pelle al rientro dalle ferie.
Giuseppe ed io ci ricambiavamo il nostro appagamento increspando le labbra salate in cospicui sorrisi, ma non di prammatica, bensì quelli veri, intrisi di amicizia, di voglia di stare insieme e spassarsela ad ogni costo.
Un’onda più alta delle altre mi ricordò che la metà del mio corpo esposta al sole stava friggendo, mentre l’altra, immersa nella sabbia inzuppata, surgelava. Roteai su me stesso per avvicendare il calvario termico: fu lì che la vidi!
Era sdraiata a pochi metri da me, abbandonata nel bagnasciuga a tripudiare la propria gratificazione; sorrideva, non a qualcuno in particolare, ma verso il cielo, in una sorta di giocosa preghiera al Dio della serenità.
La febbre! Notando quella donna sentii i brividi che solo un buon quaranta di temperatura corporea possono elargirti. Era bella, ai miei occhi, la più bella! Abbronzata, sinuosa, il fianco sottoposto alla luce faceva trapelare un fisico snello, longilineo. Il sole canicolare si riverberava nei suoi occhi, lanciandomi lampi di azzurro amalgamati ad un verde smeraldo; le lunghissime ciglia nere, impregnate d’acqua salata, si abbassavano e si rialzavano in una ritmica tranquilla, quasi rallentata, verosimilmente eterea; per non parlare poi del suo elmetto di capelli corvini corti, con un taglio alla maschietto, per metà inanellati di sabbia, e per l’altra rilucenti di gocce d’acqua marina.
Il tocco della mano di Giuseppe mi richiamò alla realtà, «notevolmente carina!» disse additandola. Non risposi, ero plagiato, sedotto da quella visione paradisiaca, mi feci forza per ritornare nei meandri da conquistatore che ‘non deve chiedere mai’, ma non riuscivo, fui solo capace di spiattellare una frase di prammatica tragicamente usuale «non sapevo che oltre gli ombrelloni e le sdraio, sulla riviera adriatica esistessero anche le sirene!» Facevo il duro, cercavo di immedesimarmi nel carattere granitico del mio insostituibile compagno, ma non ce la facevo, senza rendermene conto, la fotografia di quella donna si riproduceva nella mia mente.
Ma a lui, il mio amico, non potevo darla a bere, ogni mio pensiero sprizzava come acqua sorgiva e s’incanalava nelle fessure rocciose della sua mente.
«Che hai Paolo?» mi chiese flettendo la sua splendida capigliatura di lato.
«No, no, nulla, è che…»
«È che ti stai buscando una bella cotta!»
«Ma chi, io?»
Giuseppe decise di tralasciare ogni commento, sollevandosi e procedendo velocemente verso il mare aperto. Lo seguii e mi gettai nell’arco dell’onda come per mondare dai dedali del cervello il viso di lei. Scivolai sotto il pelo dell’acqua e m’immersi per estraniarmi da me stesso, ma, sulla sabbia del fondo, sulle conchiglie ignare della mia presenza e, finanche su una piatta sogliola che si faceva i propri fatti, vidi le sue sembianze.
Quando uscimmo dal bagno, la ‘sirena’ era scomparsa; adocchiai tutt’intorno, ma di lei nessuna traccia. Al pranzo di mezzogiorno ci recammo nella sala restaurant del piccolo hotel in cui soggiornavamo: brioso, fresco, situato proprio a ridosso della spiaggia, con le nitide vetrate scrutanti l’immenso specchio d’acqua blu e un panorama marino impareggiabile. La moltitudine di tavolini ospitava individui di tutte le etnie, con predominanza di italiani e tedeschi, tutti con un sorriso in più e con tanti gesti di cordialità prescritti da quei pochi giorni di vacanza e di lontananza dalla solita routine.
I nostri cinquant’anni, divisi in due parti uguali, prevedevano un’ardente caccia alle gentil donzelle anch’esse dedite agli approcci estivi. V’era solo l’imbarazzo della scelta, ovunque ti giravi germogliavano fiori femminili: bionde, more, rosse, capelli lisci, ricci, corti, lunghi, e tutte cinte da vestiti trasparenti ed ostentanti curve provocanti. Ma io non le vedevo, la mia mente era oscurata da una guisa di dipinto d’autore con la ragazza della spiaggia.
Lo scrutarmi di Giuseppe precedette la domanda di rito «ma che hai oggi?»
«Perché?»
«Ma, non so, ti vedo assente; voglio solo ricordarti che siamo in vacanza.»
Faceva svelto lui a parlare, la sua avvenenza lo portava sempre a scegliere, a non innamorarsi, ma per me era diverso, «assolutamente nulla…» mentii, «solo un po’ di emicrania.»
«Oggi pomeriggio caccia?»
«Caccia!» gli confermai cercando di nascondere le mie ingrate sensazioni.
«Caccia un cavolo!» spiattellò notando la mia poca veemenza a riguardo, «visto che ci conosciamo da mille anni, vorresti erudirmi sul tuo stato d’animo?»
«Quella donna sulla spiaggia, non riesco a levarmela dalla testa, è come… come un chiodo fisso.»
«Amore a prima vista?»
«Potrebbe essere.»
«Beh, allora oggi mi faccio un sonnellino e stasera esco con la tedesca, sai, quella…» i suoi gesti resero manifesto il seguito del discorso.
«No, io nel pomeriggio vado in spiaggia; voglio prendere un po’ di sole.»
E lui parlava, e parlava ancora, non si fermava più, ma io non lo ascoltavo, la sua voce mi perveniva come racchiusa in uno scafandro da sub, da lontano, mista al vociare del popolo del ristorante.
Giuseppe si alzò «me ne vado in camera a farmi una dormita, oggi mi hai scocciato! Sei sulle tue come una vecchia megera incartapecorita!» Così dicendo, si eclissò dalla mia vista.
Probabilmente aveva tutte le ragioni del mondo, ma io, navigavo con la testa da tutt’altra parte.
Nel nefasto pomeriggio mi recai in spiaggia e mi sedetti sulla sabbia asciutta ad aspettarla, faceva caldo, con incorporata un’afa brutale, del resto erano le due non avrei potuto pretendere un gran fresco. Indossai un cappello stupido, di quelli che usano i pescatori dilettanti per proteggersi dal sole, tanto stupido che quando mi recai al bar per una bibita fresca e mi guardai negli specchi del bancone, mi feci paura da solo.
Eccola!! Percorreva la camminata in piastre di cemento che dagli alberghi portavano alla spiaggia, indossava un copricostume giallo trasparente che faceva scorgere un completo reggiseno e mutandine da bagno di taglia risicata. «Beh, ma cosa c’entro io con una così?» bisbigliai con me stesso. Lei camminava sculettando alla top model e guardando fissamente davanti a sé. Quando mi passò di fianco rallentò l’andatura, i suoi occhiali da sole speculari si girarono dalla mia parte, riverberando un cretino col cappello da pescatore che la fissava, poi proseguì senza scomporsi.
«Perché mi ha guardato?» mi dissi moderando il tono della voce, «e poi, perché ha rallentato l’andatura?» Domande su domande, quesiti su quesiti, ma, risposte, neanche a parlarne. Solcavo i mari dell’amore, mi lanciavo nell’oceano salvandola da draghi sputa fuoco, mi sentivo Paride con Elena, invece, mi giravo verso lo specchio e vedevo sempre quel povero pirla, perennemente con il cappello da pescatore.
Attesi qualche minuto, bofonchiando variopinte frasi di prova su come avrei dovuto espormi, indi mi recai dinnanzi a lei imbastendo una sorta di discorso sul clima, sulle vacanze e sulla politica, della quale, le mie nozioni lasciavano pietosamente a desiderare.
Come ultimo appiglio lanciai la freccia di cupido, «stasera vado in discoteca, sai, ‘l’altro mondo’, è molto simpatica… vuoi venire?»
Due ore di strenua insistenza mi fecero intascare il fatidico «ok.»


Capitolo 2

«Vuoi tu Pancotti Paolo prendere come tua legittima sposa la qui presente Greppi Laura… ecc…?»
«Sì, lo voglio» risposi timorosamente.
«Vuoi tu Greppi Laura prendere come tuo legittimo sposo il qui presente Pancotti Paolo… ecc…?»
«Lo voglio.»
Era trascorso più di un anno dall’ineluttabile incontro sulla spiaggia e, devo ammetterlo, impiegato ad innamorarci sempre di più e a far progetti sul nostro futuro. Un rapporto splendido, avallato dai miei e dai suoi genitori senza interposizioni o bastoni tra le ruote, anzi, ci sostennero in parte nell’acquisto di una piccola casetta in quel di Cerro al Lambro, a poche centinaia di metri da Melegnano e, per parte nostra, ci accollammo un mutuo di vent’anni.
Sul calendario si evidenziava la data del 31 ottobre 1977, un lunedì grigio dall’aspetto palesemente autunnale; la banca aveva accettato la mia richiesta di una settimana di ferie per poter terminare il riordino del nostro nido d’amore; lei, invece, si recava a Milano con la sua vecchia utilitaria per esercitare diligentemente il lavoro di cassiera in un grande magazzino.
Ebbi una sensazione strana: guardando dalla finestra del soggiorno mi fermai a riflettere, ogni foglia attempata che cascava nel suo moto ondulante, mi propinava un pensiero macabro, pareva una premonizione ad un qualcosa di oscuro che, forse erroneamente, la mia mente elaborava tale. «Sei proprio uno stupido!» mi dissi mettendomi nuovamente a fare ordine per abbandonare quelle insensate paranoie depressive.
Vertiginosamente, trascorse un altro anno, dedito alla fortificazione del nostro rapporto, al lavoro, alla solita snervante routine delle persone comuni e, per categorica scelta ambivalente, alla spasmodica ricerca di un figlio. Ma, nonostante il mio tour de force quotidiana, non ne voleva proprio sapere di essere concepito. Ci recammo dai medici per i controlli di rito, ricevendo le solite risposte elusive della serie: “siete perfettamente normali… …quando la smetterete di preoccuparvi, vedrete che arriverà… …ecc… ecc… ecc.” Sì ma, tra me e lei, mille attinenti domande, mille risposte presunte e tanta, tanta prostrazione.

«Non mi arrivano!» mi propinò Laura quella mattina domenicale del marzo 1979.
«Cazzo!», non seppi dire altro, del resto, non avrei proprio saputo cosa dire se non la solita esclamazione sproloquiante.
«Urge il test di gravidanza!»
«Ma oggi è domenica, le farmacie sono chiuse!»
«Non quelle di turno!» Girai mezza bassa padana, finalmente, viaggiando e viaggiando, ne trovai una aperta in zona Pavia. Un pilota di formula uno non avrebbe saputo far di meglio, zigzagai tra le calme vetture domenicali e, in meno di un quarto d’ora, mi ritrovai a parcheggiare davanti al nostro domicilio.
L’unico problema si presentò nel centrare con un goccio di urina l’esiguo cerchiolino di vetro della provetta con il liquido testante, ma Laura ce la fece.
Un’ora, le istruzioni prevedevano un’ora per avere un chiaro responso, ma noi, da subito, restammo inchiodati a rimirare l’ampolla senza proferir parola.
Dopo mezz’ora, trascorsa tra cardiopalma ed un misto di curiosità e attacchi di panico, il liquido restava giallo. Piano piano, gradatamente, l’embrione di un cerchio scuro fece la sua comparsa, rotondo, perfetto, chiaro e limpido, Laura era incinta.
Ci scrutammo con atteggiamento complice, figurando come due bimbi con un pacco regalo chiuso inserito sotto l’albero di Natale, con la pressante curiosità di aprirlo e rintracciarne il contenuto.
I miei vent’otto anni si erano dimezzati, i ventinove di Laura stentavano ad esprimersi.
«Maschio o femmina?»
«Come corri, non sappiamo ancora se… femmina!!» la risposta della mia compagna non lasciava adito ad equivoci, avrebbe preferito una figlia.
Per me nulla cambiava, maschio o femmina non m’importava, navigavo già nei meandri di padre, di educatore, di capo famiglia mite e magnanimo, ma all’occorrenza anche austero, sapevo di preferire un maschietto, ma pressavo l’idea in una piccola scatola che poi barricavo nell’angolo più sepolto del mio cervello.
Con l’accordo di occultare la dolce notizia sino a certezza avvenuta, proseguimmo la nostra vita come se nulla fosse accaduto.
Il lunedì mattina mi si spiattella come il giorno più deleterio della settimana, quello che ti devi alzare, che dichiara aperta la cinquina lavorativa e che ti fa serbare un ricordo nostalgico dei due giorni festivi appena trascorsi. Ma quel lunedì era diverso, dissomigliante dai soliti, il cerchiolino scuro del giorno precedente girava davanti ai miei occhi in una giostra di appagamento e felicità.
«Non si salutano gli amici?»
Ero talmente preso dai miei tripudianti pensieri che non vidi Giuseppe entrare in banca al mio fianco.
«Scusami, ciao!»
«Tutto qui? Un blando e assente ciao?» Lo adoravo, aveva sempre voglia di scherzare, anche quando era giù di tacco, era il classico che si sposta se il mondo casca.
«Poi ti spiego…» non potevo non dirglielo, la mia amicizia nei suoi confronti prevedeva una chiara e sincera spiegazione.
Il mio ufficio recupero crediti era proprio adiacente a quello di Giuseppe, il quale, nel proprio, gestiva l’incasso di tratte, ricevute bancarie e similari. Detto in breve: lui incassava, se non riusciva a farlo, intervenivo io.
In tarda mattina, il suo splendido viso maschile fece capolino sulla porta del mio ufficio, «posso entrare?»
«No guarda, non te lo permetto!» ironizzai.
«Grazie» sibilò accomodandosi e mettendo le lucide scarpe sulla mia scrivania.
«Raccontami…» disse con fare curioso.
«Una favola, un film, una telenovela o un libro; scegli cosa vuoi che ti racconti.»
«Cazzo! Ma che amico pirla! Ti sarà accaduto qualcosa ieri, o eri chiuso in un angolo buio, di una stanza buia, di una villetta buia, in una notte tetra e senza luna!»
«È incinta!»
Il suo bel viso s’inserì nelle cartelle delle tinte di un colorificio, «Laura?» chiese stralunato.
«E chi se no!»
«Quando l’avete scoperto?»
Gli raccontai l’accaduto del giorno prima, senza trascurare alcun particolare, neanche le nostre sensazioni.
«Allora diventerai padre!» Questa frase la decifrai come un buon augurio, tralasciandone il senso interpretabile nel modo di ‘sarai capace di esserlo?’
Quando tornai a casa trovai i miei genitori e quelli di lei che m’impastarono gli occhi addosso come se fossi un alieno, l’applauso successivo mi chiarificò la loro presenza, Laura aveva già rivelato il nostro segreto a tutti, rompendo l’accordo di mantenerlo fino a nuovo ordine, del resto, non mi esternai in rimostranze considerando che io stesso l’avevo fatto poche ore prima con Giuseppe.

Dopo varie ecografie comprovanti il buon andamento della gravidanza, tirammo il luglio del 1979. Laura, già di cinque mesi, non volle conoscerne il sesso, radicata in una propria convinzione che non mi sognai lontanamente di sindacare. Ma la mia curiosità bruciava, tanto da appartarmi a sua insaputa con l’ecografo e farmi comunicare che si trattava di una splendida femminuccia. Sì, non era proprio ciò che volevo, ossia un bel maschietto ma, come si suol dire, “a caval donato non si guarda in bocca.”
Era di prammatica notare la pelle sull’addome di Laura alzarsi da una parte e terminare la sua corsa dall’altra, «deve essere molto vivace!» esclamavo in continuazione.
E, purtroppo, era anche di prammatica che mia moglie rifiutava le mie avance, addentrandosi in scuse poco verosimili e chiaramente fittizie.
Non capivo, avevamo fatto l’amore fino a poco tempo prima e ora mi rifiutava, perché? Cercai di saperne di più ma dovetti soccombere assecondandola pienamente nei suoi principi che, peraltro, io non condividevo.
E va bene, in quel momento le girava così, ma noi maschi, come del resto anche il gentil sesso, abbiamo pur sempre un’ultima risorsa: arrangiarci da soli!

Esattamente il 10 di novembre dello stesso anno, stavo consumando il pavimento del reparto maternità nell’ospedale di Melegnano; mi facevano male le gambe, ma siccome le maratone avanti e indietro nell’attesa della dolce notizia sono prerogativa di tutti i padri, non vedo perché avrei dovuto esimermi. I miei genitori e quelli di Laura erano seduti sulla panca e mi seguivano come si segue un match di tennis, solo mia madre, sofferente di cervicale, guardava davanti a sé. Chiacchieravano, e poi chiacchieravano ancora, cosa avessero da dirsi me lo sto chiedendo tutt’ora, ma, presumibilmente, s’immedesimavano già nel ruolo di nonni. Mi era stato chiesto di assistere alla nascita, ma io non ero coraggioso, non lo sono mai stato, nondimeno, non avrei voluto impegnare i dottori, già occupati con mia moglie, a dover soccorrere un uomo svenuto e agonizzante sul suolo della sala parto.
Due ore, penso una decina di chilometri trascorsi in ardente attesa, poi, la porta fatidica si aprì presentandomi un’infermiera sorridente con, tra le mani, una sorta di scimmietta urlante.
«È sua figlia!»
«Credo di sì!» La magra figura che feci con quella frase, non la dimenticherò per il resto dei miei giorni, ma non lo dissi apposta, verosimilmente restai allibito da quella disarmonica e antiestetica sorta di piccolo essere umano.
«Non si preoccupi, tutti i padri fanno come lei» mi garantì l’infermiera sorridendo, ma anche fissandomi con aria commiserante. Non capii se lo disse per levarmi d’impaccio o se per un ineluttabile dato di fatto.
Cinque giorni e Laura tornò a casa con il piccolo fagottino. Eravamo super attrezzati, con tanto di carrozzina, lettino, e tutte le dotazioni delle quali un padre dovrebbe conoscerne il nome e l’uso, ma io no, non sapevo letteralmente nulla di quegli utili aggeggi da infante.
«Lascia fare a me!» spiattellò mia moglie in modo quasi sgarbato.
La spostava, la girava, la puliva e l’allattava con una perizia degna di una madre, mentre io, stavo a guardare, gratificato dalla sola sua presenza e dal mio orgoglio di aitante padre.
Per gentile concessione della banca, mi presi una settimana di ferie: volevo godere a fondo della novità, del momento, della mia esperienza di novello genitore.
Ma quanto poppava, e quanto dormiva fortunatamente, la fissavo con le sue manine chiuse godersi la razione di latte materno, con la sua bocchina avvinghiata al capezzolo a ciucciare bramosamente, e dopo, ma quanto la faceva e quanto appestava l’aria, per buona sorte Laura interveniva subito lavandola a cambiandola con amore.
La sera stessa c’introducemmo in una singolar tenzone su che nome affibbiare alla bimba: io volevo “Vera”, mia moglie esigeva “Roberta”. “Per caso”, vinse lei, con mio sommo rammarico e con un certo declino della mia posizione decisionale nell’ambito famigliare.
Roberta si era assopita; esaminando le lancette dell’orologio mi accorsi che erano quasi le dieci di sera. All’esterno una pioggerellina fine discendeva lentamente accentuando una foschia autoctona della bassa padana nel mese di novembre, il buio pesto imperava, interrotto solo dalla tenue luce dei lampioni stradali.
Laura stava immergendo la bustina di camomilla nelle tazze bianche intarsiate di riccioli azzurri, «tu vuoi?» mi chiese.
«Sì, ma non solo quella» le feci intendere abbracciandola dolcemente.
«Ti prego, non me la sento.»
Non capivo, erano già svariati mesi che mi teneva a stecco, prima con la blanda scusa della gravidanza, ora con chissà quale arcano.
Cercai di strimpellare qualche ragionamento sul perché di quell’astinenza, ma lei bevve, non rispose e se ne andò a dormire tranquilla e beata. Provai mentalmente a scusarla, sintonizzandomi in riflessioni e attenuanti, ma il responso era sempre lo stesso: perché non voleva saperne di me? Era dolce e carina nel modo di fare, certo, ma il resto?
Il suono del telefono spezzò le mie meditazioni, era Giuseppe: «come sei messo?» mi chiese con la sua voce granitica.
«Male, ma soprassediamo, e tu?»
«Volevo fare un salto a dissotterrarti dal deserto casalingo e portarti fuori, ma sento dalla voce che non è il momento.»
«Puoi passare a trovarmi, se hai tempo.»
«Cinque minuti e sono lì, predisponi una decina di birre che mi sento di sballare un po’.»
«Ok, ma non suonare, Laura e Roberta stanno dormendo.»
«Arrivo!»
Giuseppe non era un preciso, difatti arrivò mezz’ora dopo con la scusa di un certo traffico che dalle nostre parti, a quell’ora, era sicuramente scarso.
Ci sedemmo in cucina, per non disturbare le mie due donne di casa. «Allora?» mi chiese tracannando la Peroni nastro azzurro tutta d’un fiato.
«Si vive.»
«Non ti fai più vedere, al bar tutti mi chiedono di te, sei così preso?»
Il suo sorriso mi ricordava i bei tempi del celibato, le innocenti scappatelle, i nostri sotterfugi per conquistare le ragazze, per lui sempre disponibili, per me un po’ meno.
«Ti dirò…» gli dissi «non sta andando un gran che.»
«In che senso?»
«Sì, voglio dire, tutto bene, Laura fa la mamma, Roberta la figlia, ma io non sto facendo il marito.»
«Non ti capisco!»
«Insomma, parliamoci chiaro, la gravidanza, il parto, il notevole da fare con la bimba, tutto ok, ma i miei sfoghi maschili? Insomma, sono vari mesi che non faccio sesso con mia moglie.»
«Tutto qua?»
La faceva facile lui, ogni sera scopava con una diversa, quando non erano due.
«Tutto qua un cazzo! Avrò i miei diritti!»
«Ma sì, dai, probabilmente Laura avrà le sue per la testa, ha appena avuto una bimba, cosa pretendi?»
Le sue nobili parole mi fecero trasbordare in un ambito diverso dal precedente, quasi certamente era come diceva lui, mia moglie, per il momento, aveva altro da pensare che non il sesso.
«Forse hai ragione.» asserii scolandomi un’intera bottiglia di birra.
Parlando del più e del meno tirammo la una di notte, rinsaldando il nostro spontaneo rapporto ma anche consolidando una certa ebbrezza dovuta all’eccesso di alcool.
Tre ore di sonno, per poi svegliarmi tra gli sbraiti di Roberta che era in cerca di cibo.
Mia figlia dormiva sempre, si svegliava solo in occasione della poppata o quando il suo roseo sederino esigeva ripulitura. In quello mi ritenevo favorito dalla sorte, anche per le lamentele di altri padri stremati dalla veglia notturna dei loro figli.

[continua]

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