Opere di

 Evans



«TRAUMA È una ferita che non si rimargina»
Book Sprint Edizioni 2024.


Trauma dal greco, significa ferita

di A. A. Evans


Dedico questo scritto a tutti quelli che hanno subito
nella propria vita qualsiasi tipo di violenza, compresa
quella psicologica.

Ogni fatto citato nel romanzo, persone e circostanze
sono esclusivamente frutto della fantasia dello
scrittore.


I

Cento (FE)

Un PC suonava musica. Il volume del notebook non era alto.
Di mattina presto, quando i più piccoli rumori si amplificano, perché tutto tace.
La musica si sentiva pianissimo.
Lui, danzando sulle note del primo tempo della sonata ‘La Patetica in Do minore’ si aleggiava avanti e indietro facendo dei piccolissimi passi sul pavimento, muovendo le braccia in aria come se fosse lui stesso a dirigere la musica del pianista.
Continuò per diversi minuti.
Vide l’orologio. Era finalmente ora.
Chiuse delicatamente il PC per non rovinare il giocattolo che avevano appena comprato.
Si diresse verso la sua porta blindata, calmo, si accostò e guardò attraverso lo spioncino ottonato; era tutto buio per le scale.
Era paziente e deciso, da non perdere mai il controllo.
Nel cortile intanto, due fari di una macchina si spensero e nella nebbia, dove non si vedeva ad un palmo dal naso, una sagoma uscì fuori dall’abitacolo di una vecchia FIAT 500 grigio topo restaurata, portando con sé una quantità di buste molto pesanti, contenevano bottiglie di vetro.
Era Clara, sapeva dove mettere i piedi nel ciottolato, appena visibile, poiché si era formato del ghiaccio abbastanza spesso, e una nebbia fittissima.
«Intanto ne porto in casa quattro e spero di non scivolare!» pensò.
Le si bagnarono le scarpe dal ghiaccio a terra. Iniziò a camminare a passo di gatto.
Aveva le chiavi pronte, aprì il portone ed entrò.
L’interruttore più vicino era sul lato sinistro dell’ingresso segnalato da una piccola lucina arancione, non era funzionante da mesi, lei lo sapeva bene, e così si diresse verso le scale, al buio, orientandosi con la poca luce che entrava da fuori.
Sulla scala, salì un gradino, un altro e poi un terzo ancora, con grande difficoltà.
Si spaventò a morte.
Vide da sotto la prima porta, che si affacciava sulla prima rampa di scale, in prospettiva, una luce fioca, come quella dei vecchi proiettori di diapositive, che faceva intravedere due sagome nere nella parte bassa dell’uscio. Erano un paio di scarpe, le sue scarpe!
E intanto si percepì aprire la porta del suo appartamento. Fuoriuscì quell’odore fortissimo di incenso provenire dalla sua casa.
Lei, doveva fuggire al più presto, e per ostacolarlo scagliò con mira precisa i barattoli di vetro a terra, le sue quattro buste con l’impatto fecero risuonare un fracasso di vetri rotti all’interno di tutto il vano scala.
Fu il delirio.
Lei sbalzò via senza farsi male, saltò in qualche secondo i gradini saliti.
Lui, sapeva che era Lei, uscì di scatto sul pianerottolo e cominciò a scendere per rincorrerla, ma ignorò i cocci sparsi per terra.
Non aveva pensato minimamente a quello che poteva esserci lungo le scale.
Lui Scese i gradini, era ormai impossibile raggiungerla.
Sul primo scalino cadde di sedere.
«Ah!!!» urlò.
I cocci delle bottiglie di vetro entrarono come un coltello caldo entra nel burro, nella grassa carne del sedere; uno particolarmente spigoloso si conficcò nell’ano, altri in altri parti del corpo, provocandogli ferite importanti.
Ebbe la forza di rialzarsi malgrado il dolore.
Cominciò a perdere sangue.
Si alzò facendo leva sul corrimano. Fece altri due gradini, ma nel buio e senza occhiali, scivolò di nuovo. Si ferì ulteriormente alle braccia e alle schiena. Tutto nel buio.
Questa volta slittò giù per le scale, battendo la testa sugli sportelli dei contatori della corrente, disposti frontalmente all’inizio della scala.
Si sentì stordito.
«Ah!!!» strillò.
«Aiuto! Presto!» gridò con voce strozzata.
Ma nel condominio tutto tacque.
Era riuscito quasi a rialzarsi. Fece uno, due passi con il corpo non in equilibrio e, ormai tramortito, ricadde.
«Aiuto!!!» grido nuovamente, scivolando verso il portone di ingresso.
Ormai era un tappeto di sangue.
Sospirava forte. Si sentiva il suo gemito.
Ma nessuno si era svegliato ed era sceso.
Le 3:00 è l’orario del sonno più profondo.
Intanto Ilaria corse come una lepre verso la macchina.
Aveva un fisico agile, la raggiunse la sua in un istante. Avviò il motore, lo stereo si accese e cominciò un rock satanico.
«Ma dove sto andando?» penso tra se.
Cercò di riprendersi, spense lo stereo e si appoggiò sul volante.
Il termometro era sotto zero.
Cercò di guardare fuori dal finestrino per vedere Lui, che fine avesse fatto.
Si guardò intorno piena di adrenalina. Si insospettì.
«Sono io la vittima! Non Lui!» quasi sussurrò a singhiozzi, che divennero sempre più forti.
Scoppiò in un pianto nervoso. Si sentiva avvilita, depressa.
Uscì dalla macchina e tornò indietro con le lacrime agli occhi.
«Che caspita è successo, che avrò combinato!» disse tra sé a voce bassa.
«Dov‘è il maiale?» si chiese, con il cuore in gola.
Lo vide a terra tramortito, che rantolava in modo quasi animalesco, ancora vivo sdraiato tra l’atrio e la porta.
«Ti prego… mi sto dissanguando!» disse a voce roca fortemente provato.
«Cosa volevi farmi? Grossa palla di lardo!» fu la prima esclamazione di Ilaria.
«Lo so io quello che mi volevi fare!» disse a voce bassa avvicinandosi a lui.
Il maiale ferito, era resistente a morire.
Ad un certo punto la paura divenne vendetta.
Era sete di vendetta. Quella vera.
«Basta!!! Finiamola qui!» le lacrime si acquietarono. Prese due resti di bottiglia rotta, una
nella mano destra, l’altra nella mano sinistra.
Gli sussurrò qualcosa all’orecchio chinandosi, con voce cauta e tranquilla, ma piena di rabbia.
Non ci fu risposta.
«Lo so io perché non c‘è risposta, ora te la faccio sputare io la verità!» insinuò con sarcasmo.
«No!!!» gridò lui a gola aperta.
La vide prendere la mira armata di due frantumi di bottiglia. Infierì, con tutte le forza che aveva, concentrandola tutta sulla testa del maiale sdraiato.
«Prendi questo! E questo! E ancora questo!» infierendo sulla faccia del maiale, che gridò tossendo in modo disumano perché soffocato dal proprio sangue.
Non sazia di sangue continuò.
«Mi volevi ammazzare? Dimmi la verità?» e con le due mani unite lo colpì brutalmente alla
testa.
Si fermò un attimo.
«Cosa aspetti? Ah bene taci! Allora tieni questo!»
«Lurido maiale! Sei solo un lurido maiale!» e continuò a percuoterlo di santa ragione.
Ormai la testa era completamente fracassata e deformata.
A questo punto finalmente gli inquilini della scala udirono le urla strazianti e scesero al primo piano, uno di loro andò per accendere la luce.
Il rosso ovunque li colpì a gli occhi.
Affacciandosi dal pianerottolo videro ciò che nessuno mai avrebbe avuto voglia di vedere.
Tutte le scale colme di sangue, ma soprattutto il corpo steso a terra tramortito, con la testa spaccata, dissanguato.
Fu una scena disgustosa.
Nell’aria l’odore metallico del sangue era talmente pungente da nauseare i presenti e si era creato un tappeto rosso sulle scale, e via fino all’atrio del portone d’ingresso.
Rimasero tutti a guardare senza credere ai propri occhi. Si vedeva tutta la scena rossa.
Intanto Ilaria era volata via come un gatto con il suo corpo agile, e tutto si era svolto con estrema rapidità.
Il motore era già acceso; ingranò la retromarcia della sua vecchia 500, si sfilò dal posteggio e, con
una partenza sportiva diede gas al motore.
Sparì nella fitta nebbia.


II

Correva l’anno 1975

Lui, definito da tutti, il maiale, lo chiamavano in dialetto paesano ‘porco’, non era sposato.
Lui si era trasferito a Ferrara, nella frazione di Renazzo per lavoro, nell’ufficio postale di Dosso come cassiere.
Lei ogni tanto lo raggiungeva per lavargli il bucato e pulirgli casa.
Era diplomato geometra ma faceva qualche riparazione o di idraulica o come elettricista, agli amici e conoscenti, a titolo gratuito.
Una volta infatti capitò un lavoro a casa di una donna appena sposata.
Doveva risaldare un piede al suo letto matrimoniale. Invece di iniziare il lavoro cominciò a fissare la signora dicendo che quello era il letto dell’amore, il covo degli innamorati ed intanto si avvicinava a lei cercando di abbracciarla, lei si tirò sempre più indietro.
La donna che aveva capito le sue intenzioni sin da subito, si era premunita di una mazza e appena lui si avvicinò per afferrarla, lei prontamente gli sferrò due colpi in testa violentemente stendendolo a terra tramortito. Poi chiamò un vicino, lo portarono fuori dalla sua casa nel cortile, si riprese dopo ore. Sembrava morto. Dopo un bel po’, si svegliò e scappò via stordito. Lasciò una striscia di sangue tra la camera da letto e la cucina. La signora ripulì la casa aiutata dal vicino e la faccenda finì lì.
Aveva dei fianchi larghi, una pancia enorme e una faccia somigliante ad un maiale. Così gli fu attribuito questo soprannome sia da quelli della scala dove abitava, sia dai colleghi del suo lavoro.
Doveva indossare dei pantaloni speciali appositamente cuciti per la sua taglia. Su misura.
In passato aveva avuto un disturbo metabolico e con altri malati formarono un gruppo del quale faceva parte una signora che poi diventò sua moglie, Teresa.
Arrotondava lo stipendio lavorando in un call center qualche notte.
Due volte a settimana. Il call center era una hot line. Dall’altra parte del telefono la gente o si divertiva masturbandosi o faceva sesso ascoltando la sua voce che poteva diventare incredibilmente sensuale ed attraente.
In gioventù fu un ragazzo frustrato dai giudizi dei professori e dalle critiche che gli dicevano dietro i compagni perché timido e disadattato. Il tempo passato fuori dalla scuola era diventato fondamentalmente speciale, mentre la scuola un luogo di angoscia e terrore.
Allora il termine ‘bullismo’ non era ancora stato coniato.
Era perseguitato particolarmente da un deficiente che gli incuteva paura.
Non aveva grandi profitti e quando il padre andava a parlare con i professori era sempre una delusione. I suoi genitori poi all’età di quattordici anni lo iscrissero in piscina per praticare dello sport. A lui piaceva nuotare. Aveva una squadra di ragazzi della sua stessa età così che fece amicizia con una ragazza e legarono veramente tanto. Suo padre strinse invece amicizia con la mamma di lei durante gli allenamenti, e chiacchierando, lei stessa suggerì il nuovo liceo per il figlio al padre, che aveva già deciso da tempo di cambiare scuola per non farlo più soffrire in quel modo terribile.
Si convinse sapendo dell’amicizia che c’era tra i due.
Così che divenne la sua amica del cuore.
Si sentivano in ogni momento per telefono, il giorno e la sera tardi, così la maggior parte della giornata.
Nel nuovo liceo, avevano l’opportunità di stare insieme nella stessa classe, nello stesso banco. Il pomeriggio, fuori dall’ambiente scolastico, si perdevano in lunghe passeggiate e d’inverno a casa di uno o dell’altro a parlar male dei professori e dei loro compagni. Questa amicizia, troppo forte e ravvicinata con la ragazza, lo toccò al punto di essere inseparabili.
Con il passare del tempo ebbero anche un prima intimità sessuale. Un giorno, a casa di lui si spogliarono per gioco e rimasero in intimità, non avevano mai sperimentato il sesso. Questo comportamento durò per diverso tempo quando avevano l’opportunità di stare da soli.
Ma non fecero mai nulla di completo.
Lui si eccitava mettendogli un pallone di gomma sulla vagina e a volte anche il suo pene così che a lei piacesse di più.
Un’estate in vacanza al mare lei gli disse, mentre tornavano dal bagno quotidiano.
«Non vedevo l’ora di stare da sola un po’ con te!» confessò.
E via via, il suo attaccamento verso lei, divenne ossessione nella sua mente.
La seconda estate passata insieme, lei si invaghì di un suo amico vicino di casa al mare.
Fu tragedia.
Ad un certo punto, non potendo accettare ciò l’ossessione morbosa si manifestò a tal punto che divenne patologia.
L’amica se ne accorse. Diventò insopportabile perché quella persona aveva preso il suo posto.
E lui perse completamente la testa.
Ormai, stanca della pressione che le veniva fatta in tutti i posti dove si recava, lo cominciò a rifiutare, giorno dopo giorno. Lui la chiamava incessantemente a qualsiasi ora senza che lei rispondesse.
L’aspettava fuori dal portone di casa appoggiato al muretto, con la gamba piegata ed una sigaretta accesa.
Le spediva bigliettini di affetto.
La seguiva ovunque. Lei era sul punto di scoppiare! Una sera scendendo di casa lei ebbe paura.
«Ohi… !» gridò.
«Ma che fai?» insinuò.
«Così mi metti paura! Che c‘è?»
«Ti prego, perché non mi rispondi più al telefono?»
«Ti sto cercando da giorni!» la sua voce era piena di singhiozzi.
«Lasciami in pace!» si arrabbiò lei. Avrebbe voluto picchiarlo.
«Non mi piace più la tua presenza, non mi piaci più. Hai capito che mi devi lasciar stare! Mi
devi stare lontano!» disse lei solennemente e furibonda quasi fuori di sé.
«Non posso, non voglio, è più forte di me» replicò lui.
«Devo, chiamare la polizia?» insinuò.
«Ho bisogno di vederti!» rispose più forte singhiozzante.
«Tu sei malato, ti devi far vedere!» sbottò confusa per quelle parole.
«No non ti lascio stare, e continuerò a telefonarti!» insinuò lui sulle sue.
«No!» gridò sottovoce per non farsi sentire ai vicini dei primi piani.
«Non mi devi aggredire più così, non mi costringere a cambiare numero di telefono» lo minacciò. Poi continuò.
«Lo faccio sai! Lasciami stare te l’ho detto, non mi piacciono quelli come te. E adesso vattene!» era sconvolta.
Lui ancora più sconvolto di lei.
Poi quasi si acquietò.
«Ma tu stai fuori di testa» sbottò lei, e si sedette anche lei rassegnata.
«Ti piacevano i nostri giochi e le nostre passeggiate vero?»
Lui cominciò a dondolare sfregandosi le mani in modo compulsivo. Continuava a dondolare senza dire nulla. Con le falangi che strofinava violentemente.
«Perché non vuoi stare con me?»
«Lo sai il perché ma non lo vuoi ammettere, tu sei malato, e non lo riesci a capire, non lo vedi come ti comporti?» disse sfinita.
«Vuoi che andiamo da un medico insieme?» suggerì poi lei.
Lui continuò a fissarla con lo sguardo assente e il capo piegato sul collo.
«Se ti ritrovo ancora che mi stai pedinando o ti trovi sotto casa mia sono costretta a chiamare la polizia. È chiaro!» La ragazza risalì in casa rapidamente.
Lui continuò a dondolare su se stesso. Non se ne andò. Fece il giro del palazzo poi ritornò sul lato opposto della strada e si mise in un angolo, a guardare il suo balcone. Dopo qualche ora lasciò la sua postazione e singhiozzante questa volta in lacrime, pianse seriamente. Tornò per la strada di casa. Si sentì umiliato, annientato, ferito dal suo amico per il gesto che aveva fatto di mettersi con lei e toglierla dalla sua vita. Cominciò a pensare fugaci idee.
«Io non valgo nulla!» chiuse la bocca a tenaglia quasi a rompersi parte dei denti.
Era arrivata una freccia al cuore. Pianse fino alla sera tardi, non prese sonno e continuò a piangere tutta la notte nel letto, anche se le lacrime ormai erano finite. Era un pianto nervoso, ossessivo.
Era stato segnato per sempre!
Verso la mattina successiva vaghi pensieri autolesionisti gli presero.
«Come posso suicidarmi? Vado su internet e comprerò un veleno!» pensò tra sé non lucido.
«Non voglio più vivere, la mia vita è finita! Con quello non ti accorgi di nulla!» sospirò con affanno.
La madre sentendolo singhiozzante in casa, entrò nella sua camera da letto.
«Ti posso aiutare amore?» sussurrò la madre preoccupata.
«Cosa è successo? Perché singhiozzi così? Cosa è successo?» chiese affranta.
«Niente mamma tu non puoi capire, nessuno può capire!» era seduto sul suo letto e continuava a piangere.
«Sono situazioni adolescenziali» pensò la mamma che sapeva già tutto.
«Ma quella puttanella non può farti così del male!» ribadì al figlio.
«Stasera non ho fame! Ho lo stomaco chiuso! Lasciami stare, lasciatemi stare!» gridò.
Dopo era lì, che pensava…
Posò la testa sul guanciale, la mamma gli diede un forte sedativo e si addormentò rilassato. I pensieri della sua immaginazione volavano da un posto all’altro da persone ad altre. Appena chiudeva gli occhi si apriva un mondo, di immagini, figure, e sagome di volti.
Fantasticava con la mente. Il dormire era l’unico rifugio dove non aveva malesseri né mentali né fisici. Ma quella sofferenza, per quel povero ragazzo, troppo fragile, fu fatale per toccare veramente il fondo della sua vita da pensare al suicidio.
Ormai alle porte dei diciotto anni, prima della maturità una sera lui facendo il suo solito giro intorno casa di lei, la vide uscire, lui era dall’altra parte della strada, si nascose nell’ombra, stava facendo notte. La seguì. Era a piedi, con una bicicletta Bianchi spinta a mano che tornava a casa. Vide che si dirigeva verso il parco, con una sigaretta accesa.
«Ha un appuntamento… » pensò.
Infatti, un ragazzo la stava aspettando seduto su una panchina. Si vedeva a malapena la luce della sigaretta di lei, ma non riconobbe chi fosse lui. Lei si avvicinò, si intravide a un bacio poi si inoltrarono nel parco della Caffarella.
Due sagome, un ragazzo e lei si intravedevano unite, mano nella mano.
La sera era iniziata con un bacio su una panchina del parco. Il parco della Caffarella è un luogo bellissimo di giorno ma ameno e spaventoso di notte perché assolutamente non illuminato.
Pericoloso perché calato il sole, le sette sataniche, si riuniscono per celebrare riti e messe nere inaccessibili agli estranei.
Lui si tenne a distanza e li seguì mentre si dirigevano nel parco.
Conoscevano bene il sentiero.
Quella sera c’era la luna piena.
Camminarono per il sentiero per circa dieci minuti, lui si teneva a debita distanza ma poteva anche avvicinarsi senza minimo rumore perché i due erano di schiena e lui era silenzioso come un gatto.
Ad un tratto il sentiero arrivò ad una diramazione, presero quella destra. All’improvviso si schiarì tutto, i cespugli sparirono, erano giunti nella parte centrale del parco, aperta con sentieri dove il giorno la gente correndo o passeggiando si allenava.
Si misero seduti, lei a gambe divaricate su di lui e iniziarono a baciarsi.
Smisero per un po’ poi ripresero a baciarsi. Le altre panchine erano occupate solo in lontananza.
Il parco era completamente deserto, e la luna piena illuminava il luogo creando una suggestione affascinante.
Più sentieri scoscesi si intravedevano alla luce della luna.
Il parco di giorno era affollatissimo. Lui immaginava tutte le facce dei papà e delle mamme che portavano a prendere aria ai figli, una pista di pattinaggio e passeggiate salutari.
Rimasto nel sentiero in discesa verso la vegetazione, riusciva benissimo ad avere una visuale perfetta.
Era dietro una pianta e cominciò a scattare tutti i momenti dell’intimità di quei due, avendo con se una macchina fotografica. E guardava.
Molte coppie si rifugiavano in quel posto deserto, per stare in intimità, perché isolato.
Mentre i due stavano sul punto di abbassarsi i pantaloni, lui se ne accorse. Fu invaso da pensieri di sangue e vendetta e non fu più controllabile. Tornò indietro.
Dove aveva lasciato la sua vecchia Bianchi. Pensò a come poterli far fuori ma non aveva niente, così pensò al cavalletto della bici.
Tornò immediatamente indietro.
Gli venne un’idea straordinaria. Arrivato sul posto tolse la catena dei pedali, si sporcò le mani di grasso, la mise nella tasca della giacca. Avrebbe rimesso la catena, perché nel piccolo bauletto fortunatamente il nonno gli aveva insegnato a tener sempre qualcosa per emergenza. In questo caso un barattolo di grasso per catene che avrebbe fatto rientrare la catena stessa nell’ingranaggio della bici. Fece il giro della panchina dove erano i ragazzi seminudi. Era dietro di loro.
Si avvicinò velocemente e silenziosamente.
I due avevano le loro teste praticamente attaccate.
Il lavoro fu facile.
Lui con una furia animalesca si avvicinò sempre di più. Aveva in una mano la catena nell’altra il cavalletto della sua bicicletta.
Ancora un passo e fu dietro di loro. Con sveltezza, già con la catena della bicicletta in mano, la avvolse intorno ai colli dei due ragazzi e tirò bruscamente a morte. Poi incrociò i due lacci di catena che aveva in mano dalla sua parte, come a fare un collare con i due colli e strinse più che poté con tutte le sue forze sulla giugulare di entrambi. Non ebbero neanche il tempo di urlare che emisero un sospiro soffocato, poi, muti, esamini, caddero sulla panchina. Per essere sicuri che il lavoro era riuscito, si chinò per sentire il loro respiro che ancora c’era, ma fioco.
Poi prese il cavalletto e lo conficcò violentemente in una tempia prima a lui dopo a lei.
Dopodiché strinse più forte che poté la catena al collo.
Finito il suo operato. Si guardò attorno per paura di non essere visto e si incamminò verso la macchia del parco.


III

Barco, Pontelagoscuro (FE)

L’automobile sfrecciava sulla strada bagnata.
La pioggia battente aveva smesso di scendere e si era alzata una nebbia fittissima.
«Non ti azzardare ad aprire!» ordinò.
«Schifoso fermati, apri, guarda che mi butto per strada!»
Abbassò totalmente il finestrino e fischiò con il proprio fischietto attaccato al collo come ciondolo.
La portiera era bloccata.
«Che ti fischi, stai buona siamo quasi arrivati!»
«Non ci voglio venire con te!» si lamentò la donna.
Riuscì ad aprire la portiera, con la macchina a 70 km orari.
«Pazza, ti vuoi ammazzare! Chiudi quella portiera immediatamente!»
Mise uno zoccolo fuori.
«Chiudi immediatamente quella portiera o ti farai male!» ordinò l’uomo che con una mano guidava e l’altra per afferrarla.
«Mi butto, fammi scendere! Ho detto fammi scendere!» continuò.
«No dai! No!!! Ma dove vuoi andare con questa nebbia eh? Tu devi rimanere con me e basta!!» strillò lui pieno di rabbia.
Velia si mise a piangere. Prese il pesante marsupio. «Prendi questo e questo!» glielo diede sui testicoli.
«Ahhhh!» fece. Arrestò l’automobile di scatto.
«E scendi… puttana, scendi mi hai stufato, dove credi di andare? Vai, vai pure a scornarti da qualche parte, perditi, vai vai!» la lasciò andar via.
Lei scese sbattendo con violenza forza lo sportello, quasi a romperlo; l’automobile ripartì a tutto gas sparendo nel crepuscolo.
«Noooo!» strillò con voce afflitta Velia, frugando nel suo marsupio, dopo pochi minuti.
«Maledetto bastardo! Mi ha sottratto il telefono! Sono nella merda!» era psicologicamente distrutta.
Cominciò a camminare con i suoi zoccoli a trampoli a passo svelto, a volte perdendo l’equilibrio.
Così si tolse le scarpe e proseguì a piedi nudi. La nebbia si era fatta sempre più fitta e lei ci vedeva sempre meno con l’arrivo della notte, era molto stanca. Camminando per circa mezz’ora abbandonò, senza accorgevi, la strada provinciale, e andò a finire all’interno dei campi. Sentiva sotto i suoi piedi nudi l’erba, ad un certo punto si trovò un muro davanti a se, e non sapendo cosa fosse, entrò nel panico. Toccò senza vedere nulla. Doveva essere un dosso o qualcosa del genere perché non riusciva a superarlo. Le venne una crisi di pianto. Per darsi coraggio fischiò di nuovo con il suo fischietto, sperando che qualcuno la sentisse. Il suono le faceva compagnia. Così fece per tutto il tempo.
Ad un certo punto, percorrendo la specie di dosso lateralmente come fosse una parete d’erba, si fece sempre meno ripido che poté camminarci a carponi e riuscì a salire sulla duna.
Si accorse che erano gli argini del grande fiume Po. Sentiva il rumore dell’acqua e vide la parte opposta dell’argine soffocata dalla nebbia.
«Come non ci ho pensato prima! Adesso me ne vado un po sulla golena e mi riposo, sono molto stanca, ho camminato per molto tempo, mi fanno male i piedi e le gambe!» pensò tra se.
Così scese l’argine e si posizionò seduta sulla golena che il fiume formava con l’argine. Si sentiva il rilassante rumore dell’acqua scorrere e lei si sdraiò per rilassarsi.
«Aspetterò che faccia giorno per chiedere aiuto, intanto dormirò qui per questa notte!» si stese di lato.
Era talmente stanca che si addormentò di sasso. All’improvviso una voce apparentemente soave, cominciò a sentirsi verso la vegetazione, dalla parte dove dormiva la donna.
«Velia. . . Velia. . . Velia, sto per arrivare, Velia!» intanto lei, nel sonno, si era rigirata più volte fino a svegliarsi disturbata dalla voce.
«Eh!» spalancò gli occhi.
«Chi è? C‘è qualcuno?» disse con tono minaccioso come era solito fare lei.
Ma si sentiva solo l’acqua scorrere del fiume e le canne fare il loro caratteristico fruscio.
La voce ricominciò.
«Velia… Velia… Velia… c‘è un tuo bambino!» echeggiava tra le foglie.
«Chi sei? Fatti avanti! Non ti conosco!» voleva sembrare coraggiosa, invece aveva una grandissima paura.
«Velia… Velia… eh eh!» il tono di voce si fece sorridente.
«Come? Non mi riconosci? Quando mi vedrai ti ritornerà a mente tutto, tutto ciò che mi hai fatto! eh eh Velia… Velia!» la voce soave continuava.
La donna si guardava intorno terrorizzata, non sapeva dove mantenere fermo lo sguardo. Aveva lo sguardo impazzito.
«Eccomi sono qua!» la voce si era fatta questa volta più limpida, vicina e frontale.
«Qua! Mi vedi adesso?» Velia si ritrovò un uomo davanti ai suoi occhi, era terrorizzata immobilizzata dalla paura, però capì subito e si rese conto chi fosse.
«No! Sei tu?» affermò perplessa.
«Sei tu! Sei tu! Quanti anni… » rimase sorpresa.
«No! Ah! No! Ah!» il killer aveva già in mano le sue collane d’acciaio e le stava tirando per strangolandola.
«No, ti prego no! Ah! No! Ah!» cadde giù a terra dapprima in ginocchio poi in prona, con il
seno schiacciato a terra ed il muso in giù.
Il killer oramai le stava a cavalcioni sulla schiena e aveva in pugno tutte le sue pesanti collane.
Strinse a morte, rompendone alcune. La donna svenne.
«Ti piaceva torturarmi hé? Beh adesso ti torturo io» commentò.
La donna si risvegliò dopo circa dieci minuti.
«Che è successo? Dove sono?» sospirò.
«Velia Velia… ti piacciono i giochi spinti eh? Dimmi la verità ti piacciono?» continuò l’uomo.
Il maniaco era di fronte a lei.
«Ah sei tu? Com‘è possibile?» rispose con una folle paura.
«Ah, allora mi riconosci hé?» aveva questa volta un rotolo di nastro adesivo isolante nero.
Ne staccò un lungo pezzo.
Si avvicinò a lei.
«La mia Velia, la mia dolce carissima… Velia!!!» pronunciò il nome con così tale disprezzo che si avvicinò a lei di scatto con il cerotto adesivo e lo mise strettissimo sulla bocca in modo che non potesse urlare.
«Mmmmhh! Mmmmh!» mugolava lei.
«Zitta! Zitta sai o ti ammazzo subito come un cane! Oh, hai ragione ti rovino il rossetto, te lo rimetto dopo non preoccuparti se ci tieni tanto!» le parlò come se fosse completamente cosciente.
La prese per i capelli grigi mossi, con violenza e la rimise in ginocchio. Le legò mani e piedi affinché lei non si muovesse, rimase immobile. Così la rivoltò e lui su di lei ma non per stuprarla come si può pensare. A lui non interessava minimamente neanche di sfiorala in quel senso.
Così che lei lo vedesse nitido in faccia, il vero terrore le salì per la schiena.
«Questi capelli grigi li ho odiati, che tu non puoi capire per quanto tempo!» tirò i capelli e contemporaneamente tiro di nuovo le catene pesanti, che aveva la donna al collo, questa volta con più violenza.
«Mmmh, Mmmh» i suoi sospiri erano sempre più soffocati.
Si accasciò di nuovo a terra tramortita ma non svenne. Lui si avvicinò con un orecchio al viso per sentire se respirasse. Respirava ancora.
«Quanto ho desiderato questo momento, te lo meriti, ma quanto ti meriti tutto ciò. Quanto
l’ho desiderato, Velia!» disse il maniaco in tono leggero.
«La mia Velia!» strinse i denti con cattiveria, vendetta e tenacia.
Prese un coltello affilatissimo ed aprì la grande lama.
Così di scatto le tolse il nastro dalla bocca.
Ripeté sottovoce dei versi, poi si fecero più pronunciati.
«In nomine patris et filii et spiritus sancti…In nomine patris et filii et spiritus sancti. Crucem, et hoc ego te absolvo ab omni peccato mundaret»
Dopo averle tolto il nastro, le prese la lingua tirandola fuori dalla bocca il più possibile e con il serramanico che aveva già aperto fece un taglio netto vicino la gola.
La lingua tagliata provocò un’emorragia che comincio a vomitare sangue.
Tossiva perché affogata nel suo stesso sangue si dimenò per alcuni minuti a terra poi perdendo in modo veloce e violento il sangue, svenne.
Rimase soddisfatto del suo lavoro.
«… In nomine patris et filii et spiritus sancti!» ripeté a voce pronunciata di nuovo.
Era sfinito per l’energia che aveva impiegato per compiere tutto ciò.
Si alzò di scatto arrampicandosi sull’argine barcollando, se ne andò facendo attenzione a non essere visto da qualcuno in macchina dall’altra parte del fiume.


IV

Roma.

«Il termine stalking, ragazzi… » durante una lezione il dottore stava spiegando «… deriva dal verbo inglese ‘to stalk’, con significato letterale di camminare furtivamente, quindi, colui che cammina furtivamente si può collegare anche al significato, cacciatore in agguato! Con stalking si intende indicare quindi un insieme di comportamenti molesti e continui, costituiti da ininterrotti pedinamenti, appostamenti presso la casa della vittima o nei luoghi da essa frequentati, telefonate moleste durante la notte. Insomma, intrusioni indesiderate nella vita di una persona, in cerca di un contatto personale, morboso e pedante.
Continuo invio di lettere, messaggi di posta elettronica, SMS, e spedizioni di oggetti non richiesti.
Ossessione di far parte della vita di quella persona, morbosamente. Tale molestatore, in genere di donna, ma può anche capitare che la vittima sia un uomo, il novanta per cento dei casi è affetto da disturbo ossessivo compulsivo.
Da un punto di vista etimologico, il termine stalk nella nostra lingua può significare; caccia in appostamento, caccia furtiva, avvicinarsi furtivamente, avvicinarsi di soppiatto, seguire di nascosto la preda, spiare la preda! Non so se rendo l’idea… »interrogò gli studenti in aula.
Poi continuò.
«Una traduzione molto usata di stalking è persecuzione, così come lo stalker è chiamato persecutore e la vittima; perseguitata… » aggiunse, fece una breve pausa.
«Il persecutore o stalker può essere abbiamo detto un estraneo ma può benissimo essere un conoscente, un collega, un ex compagno o ex compagna che agisce spinto dal desiderio di recuperare il precedente rapporto o per vendicarsi di qualche torto subito. In altri casi ci si trova davanti a persone con problemi di interazione sociale, con l’intento di stabilire una relazione sentimentale imponendo la propria presenza e insistendo anche nei casi in cui si sia ricevuta una chiara risposta negativa. Questi soggetti perdono il contatto con la realtà, e sette volte su dieci hanno un comportamento borderline!» incise il dottore.
«Ora! Come si definisce una persona dalla personalità borderline?» chiese agli studenti quasi addormentati sui banchi.
Prese il microfono.
«Datevi una svegliata ragazzi!!! Sono le nove non le cinque del mattino!»
Aumentò il volume della voce nel microfono. Ci fu un sussulto per lo spavento del cambio di volume solenne del Doctente.
«Ci sono cinque tipologie di stalker, vedete sul libro a pagina… »
«Trentotto Prof.!» urlò un ragazzo in fondo all’aula.
«Grazie Gidolfi!» replicò il professore. Conosceva quasi tutti per nome.
«Dicevo… » continuò.
«Cinque tipologie ve le scrivo sulla lavagna ma oggi parleremo solo di due» . Andò alla lavagna e cominciò a scrivere.
«Il risentito, il bisognoso di affetto, il corteggiatore incompetente, il respinto e l’ultimo il più grave, il predatore» finì di scrivere con il gesso bianco sulla lavagna di ardesia nera.
«Parliamo del predatore!» cominciò con voce incisa.
«Il predatore ha una caratteristica di natura sessuale. Che vuol dire?» domandò al suo pubblico.
«Vuol dire che trae eccitazione sessuale nel cacciare la sua preda, di imporre paura ad essa.
«Mi sono soffermato su questa tipologia perché in questo corso non parleremo di tutte le malattie mentali, ma ci soffermeremo più accuratamente su quelle più rilevanti. Le altre le potete leggere sul libro a casa.
«Il predatore, insegue le sue vittime e le segue incessantemente fino all’ossessione… » continuò.
Uno studente lo interruppe bruscamente. «Ma questo tipo non ha un nulla da fare tutto il giorno?» tutti gli altri risero.
«È proprio la caratteristica del predatore. Se ha un lavoro le sue ossessioni sessuali le include ad una collega per esempio o a ragazzi giovani incapaci di difendersi nel suo tempo libero!» replicò dopo la risatina il professore.
«Se non ha un lavoro, magari vive con la pensione dei genitori o con la sua stessa perché invalido, magari ha un lavoro che gli permette di essere libero» aggiunse.
«In ogni caso quindi, ha del tempo e può seguire la sua vittima spaventandola costantemente in modo ossessivo compulsivo, per soddisfare la sua sessualità compromessa!»
«E se avviene l’omicidio Prof.??» insinuò uno in prima fila.
«Se avviene l’omicidio si prenderanno in considerazione tutti i dettagli con le forze dell’ordine» replicò il Prof.
«Però ragazzi rimangono sempre le stesse regole in un omicidio anche se seriale, anche se non si ha niente, neanche una pista da seguire, si comincerà a scavare nel passato delle vittime, è una cosa importantissima questa per iniziare un’indagine che porterà a dei risultati concreti.
È inutile sia aspettare, sia arrampicarsi sugli specchi inventandosi inutili piste investigative. Questa è una regola fondamentale.
Le vecchie regole sono appunto, scavare nel passato se opportuno anche di persone non necessariamente morte,e soprattutto del killer, e l’alibi, uno non ci pensa più a questo fattore, ma è determinante perché un fatto esclude l’altro per questioni di tempo»
«È stato lei Prof. a stendere il profilo psichiatrico alla polizia del serial killer dei treni l’anno scorso vero??» disse un ragazzo alzandosi in piedi.
«Poi lo presero grazie a lei!» intervenne un altro. «Lei collabora con la polizia vero Prof.?» chiese quello di prima.
«In un certo senso! Come ti chiami non ricordo!» il Prof. si avvicinò al primo banco dell’aula.
«Giuseppe Marchesi Prof.!» rispose mettendosi seduto.
«Sì, anch’esso era turbato sessualmente e cacciava le sue vittime nei treni notturni, le cacciava in modo seriale» aggiunse.
«Però ripeto qui parleremo solo delle malattie mentali, delle deviazioni e delle parafilie sessuali» concluse per riprendere il suo discorso ma in aula si era creata confusione e brusio.
«Allora! Stanchi?» quasi gridò il professore.
«Per oggi è tutto, ci vediamo domani e parleremo dello stalker predatore» il brusio aumentò fino a diventare chiasso.
«Cercate di esserci, perché è una lezione importante» si avvicinò alla cattedra, ripose accuratamente il microfono nel cassetto.
Nel suo telefono vide otto chiamate non risposte arrivate durante la lezione.
Sei erano del commissario Mattei, commissario in servizio nella questura di Ferrara.
Compose immediatamente il numero prendendo lo zaino e corse fuori.
«Pronto Mattei, sono io» disse con il fiatone.
«Dottore, era a lezione vero, mi scuso!» disse Mattei.
«Ma no… dimmi pure… »
«Un omicidio violento, talmente atipico che serve un suo parere. Il giudice mi ha ordinato di chiamarla!» si raccomandò il commissario.
«Non farò rimuovere nulla prima del suo arrivo! L’omicidio è avvenuto a Ferrara ai margini del Po.Venga in fretta. A Pontelagoscuro, dalla parte di Ferrara. L’ho chiamata Doct, perché da come abbiamo trovato il corpo, pensiamo che sia un omicidio seriale! Ucciderà ancora dalle tracce che ha lasciato»
«Tipo?» chiese il Doct curioso.
«Deve vederle lei dottore… venga il prima possibile!»
Il Doct aveva già lavorato con il commissario Mattei, due anni prima con un omicidio di un bambino, sempre nel ferrarese.
Chiusa la telefonata, il dottore mentre andava nel suo studio universitario, bussò sulla porta della sua collega.
«Francesca!» disse forte. La aprì senza il suo permesso.
«Francesca!» si avvicinò a lei che aveva gli auricolari con la musica fortissima. Francescanon si spaventò.
«Preparati Francesca!» le disse.
«La omicidi di Ferrara ci ha chiamato per un sopralluogo! A Pontelagoscuro, ai margini del Po!» sospirò lui affaticato dalla camminata svelta appena fatta.
«Adesso chiamo Marie, sicuramente è in studio» Marie, dottoressa specializzata in medicina legale aveva anche uno studio di medicina generale.
Il dottore la portava sempre sulla scena del crimine affinché potesse dare un parere in più del medico ufficiale. Lei aveva per la soluzione di un caso un occhio particolare. I medici legali locali non si erano mai lamentati che anche lei fosse sulla scena del crimine. La chiamò al volo per dirle di prepararsi.
«Non ti ha accennato nulla?» chiese Francesca al Doct.
«No! Dice che è un omicidio di nostra competenza! Molto molto particolare e delicato!»

[continua]



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