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Semiseria analisi lessicale di un disastro naturale
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Benvenuto Benvenuti - Semiseria analisi lessicale di un disastro naturale
Collana "Gli Abeti" - I testi teatrali
14x20,5 - pp. 100 - Euro 9,00
ISBN 978-88-6037-7012
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In copertina immagine di Aldo Cervellera
Prefazione
di Stefano Ventura
Una catastrofe naturale ha degli effetti sulla psicologia umana, sia in rapporto alle singole esperienze sia nell’immaginario collettivo, che lasciano segni quasi sempre indelebili. Se poi la catastrofe, il “cambiamento di scena” (come indica il termine stesso) si presenta sotto forma di scossa sismica, l’effetto è ancora più devastante, vista la caratteristica di imprevedibilità e il panico che la accompagnano.
Nel campo della storia orale, ad esempio, ricostruire e custodire le memorie individuali e collettive dei sopravvissuti ad un terremoto rappresenta un terreno d’indagine simile al lavoro svolto nel caso dei sopravvissuti ai bombardamenti della seconda guerra mondiale o a stragi di civili, eventi, cioè, di intenso significato emotivo.
Pare, quindi, ragionevole che questo tipo di evento muova l’interesse di studiosi di vari settori ma catalizzi anche l’attenzione di artisti che lavorano con le arti figurative come la pittura e la fotografia; nel nostro caso la tematica del terremoto ha dato vita ad un lavoro letterario in funzione teatrale.
Il racconto, quindi, si snoda attraverso ricordi privati ma si intreccia continuamente con temi legati al periodo immediatamente successivo al sisma, a episodi che accaddero via via negli anni del dopo terremoto e anche a questioni di largo respiro della storia italiana. Al fervore narrativo tipico del monologo, accompagnato anche da una evidente e mai negata connessione affettiva con il popolo e la terra protagonista di quel terremoto, si aggiunge una attenzione alla ricerca di dati, documenti, informazioni ben integrati al discorso scenico.
Tra i temi prescelti ci sono molti casi emblematici che caratterizzarono l’evento, quali i ritardi dei soccorsi e le altre inefficienze della macchina statale, i dibattiti polemici sugli sprechi e le opere faraoniche, le ambiguità di una classe politica pronta a cogliere l’occasione, come fecero anche imprenditori e criminalità organizzata, la subalternità e l’arretratezza delle regioni meridionali. Inoltre, ai fatti più conosciuti l’esperienza personale del narratore aggiunge altri elementi di conoscenza come le ingiuste corsie preferenziali destinate ad alcuni a scapito di altri già a partire dall’assegnazione delle roulottes oppure alcune testimonianze sulla “solidarietà subita”, con il disvelamento di alcune sue manifestazioni dubbie e discutibili; tutte queste informazioni contribuiscono a tracciare un affresco eterogeneo sia per quanto riguarda i temi affrontati sia dal punto di vista della cronologia, cioè il lungo periodo in cui queste vicende si dipanano.
Uno dei punti affrontati ha tuttavia bisogno di maggiori dettagli. Quando l’autore indaga la questione delle cifre dei morti e dei dispersi, che nella sua ricerca preliminare non ha portato a un dato consolidato, si afferma che la diminuzione della cifra avrebbe reso meno pesante il giudizio morale sugli errori commessi nella fase della ricostruzione.
I morti del terremoto del 23 novembre 1980 furono 2735, come riportato ufficialmente sia nei documenti ufficiali del Commissariato Straordinario di governo sia dalle schede monografiche dell’Istituto Nazionale di Geofisica, pubblicate sul catalogo degli eventi sismici nel 1997. È comunque vero che il conteggio delle vittime fu alquanto incerto, in particolare nei primi mesi del dopo terremoto, tanto che in una delle relazioni del ministero del Bilancio del 1982 il numero dei morti per comuni era, in effetti, calcolato per difetto. L’approssimazione può essere ascritta a svariati fattori e l’autore, che ribadisce più volte di non essere né uno storico né un giornalista, legittimamente ne ricava alcune divagazioni e congetture integrandole funzionalmente alla struttura e ai temi della narrazione.
Nel giudizio dell’attore-autore, il terremoto è stato oggetto di una rimozione nazionale, forse per il senso di colpa legato al cattivo utilizzo dei fondi pubblici o magari perché, aggiungo io, per gli abitanti delle zone colpite rappresenta una delusione di quella speranza di sviluppo, di uscita dalla subalternità, di fine del destino di emigrazione. Di sicuro riflessioni come questa, nonostante gli anni trascorsi da quell’evento inizino ad essere tanti, sono molto importanti per stimolare una necessaria operazione culturale che nelle zone terremotate coltivi e preservi la memoria o le memorie di quell’evento e di tutte le dinamiche che nel corso degli anni da quell’evento sono scaturite.
Stefano Ventura (23/5/1980) è attualmente dottorando di ricerca presso il Dipartimento di Scienze Storiche, Giuridiche, Politiche e Sociali dell’Università di Siena e sta curando un progetto di ricerca dal titolo “L’Irpinia dopo il terremoto”. Ha affrontato nella sua tesi di laurea (Irpinia 1980-1992: storia e memoria del terremoto) il tema del cambiamento sociale e delle conseguenze del sisma su alcuni dei comuni più colpiti della provincia di Avellino.
Ha curato alcune pubblicazioni sullo stessa tema anche su riviste nazionali di storia contemporanea (Italia contemporanea, n. 243/2006) e ha partecipato come relatore a vari convegni e seminari. Tra le linee di ricerca seguite, particolare importanza riveste l’aspetto della memoria dell’evento sismico e la raccolta di testimonianze e interviste di persone sopravvissute.
Originario di Teora (Av), vive e lavora a Siena.
Ringraziamenti
Ringrazio il dottor Stefano Ventura che ha fornito, soprattutto tramite la sua tesi di laurea, una razionalizzazione eccellente per alcuni degli argomenti da me trattati, oltre ad una base bibliografica inesauribile.
Rosanna, Eleonora, Iginio, Fiorenzo, Paolo e Pasquale mi hanno incoraggiato, suggerito, sopportato.
L’autore
Semiseria analisi lessicale di un disastro naturale
A Vittorio:
docente, amico e maestro di vita.
Prologo
Con le luci della sala ancora alte, si sente in sottofondo una musica folcloristica. Le luci iniziano ad abbassarsi. La musica si trasforma in rumore. Il rumore è sinistro. Il tutto dura quasi due minuti.
Nel frattempo le luci in sala si spengono, viene creato un leggero effetto fumo, si alza il sipario ed entra in scena l’attore-autore, Benvenuto Benvenuti.
Buonasera! Scusatemi l’intrusione. Probabilmente, se non ci fosse stato questo frastuono, non ci saremmo mai incontrati. In effetti mi sono perso, sono un po’ frastornato. Direi che sia opportuno che mi presenti. Sono Benvenuto Benvenuti. Non potete conoscermi, sono un personaggio secondario di una commedia inedita qui accanto. La gentilissima NP sta cercando a me ed al mio autore un editore, e quindi per il momento sono quasi disoccupato, e posso curiosare fra le commedie dei paraggi. Ho sentito questo rumore e sono venuto a vederne l’effetto sulle vostre facce. Vi chiederete cosa è. Quello che avete sentito è il suono del terremoto, è il suono di energia che si libera. Il 23 Novembre 1980, mentre una radio privata effettuava delle registrazioni, si è liberata energia pari a cinque milioni di tonnellate di tritolo. Il nastro ha registrato quel suono. Quella “canzone” è liberamente disponibile su internet, da dove l’ho scaricata.
In questo teatro si rappresenta quella energia.
Quella sera, sotto i piedi miei e di milioni di meridionali, si è liberata energia pari all’esplosione di cinque milioni di tonnellate di tritolo.
La bomba di Hiroshima ha una potenza corrispondente solo a ventimila tonnellate di tritolo, ed il terremoto del Friuli un milione scarso![2].
Un disastro pari a cinque milioni di tonnellate di tritolo, e non li dimostra.
Lo so, lo so! Il titolo di questo monologo è strano: si analizza un disastro naturale dal punto di vista lessicale! Cosa è successo il 23 novembre del 1980? Ah! Il terremoto dell’Irpinia.Vi chiederete: “Perché questo qua ci fa l’analisi lessicale di un disastro naturale? Forse è importante scrivere Irpinia con la I maiuscola e non con la minuscola? E poi, cosa è l’Irpinia, mi sembra che sia in provincia di Avellino: sarà il solito paesone di terroni sfaccendati…”. Altri, i più giovani, si chiederanno che bisogno c’è di parlare di grammatica, quando magari ci saranno stati pure dei morti, chi lo sa. In fondo, però, deve essere stato un sisma localizzato in una zona geografica delimitata, se si parla di Irpinia.
Gli irpini, probabilmente, prima di parlare cercheranno di capire: chi parla del loro terremoto, normalmente ricerca la lacrima per i morti, il sensazionalismo degli sprechi, lo scandalo degli abusivismi… cosa diavolo c’entra il lessico.
Alcuni di questi irpini, magari miei amici di infanzia, certamente ricorderanno, come ricordo perfettamente io stesso, il momento in cui il terremoto li ha sorpresi nella loro sonnacchiosa terra, quando sonnacchiosamente passeggiavano gustando il piacere di una insolitamente calda sera autunnale, in riva al mare anch’esso sonnacchioso.
“Fermo! Fermo! Cosa diamine dici! Dove lo hai mai visto il mare ad Avellino…”. Lo so, molti lo hanno pensato “…non credevo che Benvenuto fumasse roba strana…”. Anche chi mi ha conosciuto comincerà a credere che non è il solo titolo ad essere inconsistente. Ma fermatevi ancora un attimo. Datemi ancora due minuti di fiducia.
Il terremoto del 23 novembre 1980, comunemente conosciuto come il terremoto dell’Irpinia, termine con cui si identifica l’area geografica corrispondente con la provincia di Avellino, ha visto danni e contributi economici per territori limitrofi a Napoli, Potenza, Foggia, Salerno. Questo ci fa supporre che Napoli e Salerno siano in provincia di Avellino (per Potenza e Foggia la cosa è già più scontata), oppure che il terremoto dell’Irpinia non abbia coinvolto solo l’Irpinia, oppure che vi è stata la solita gestione allegra dei soldi degli onesti contribuenti, soprattutto inviandoli dove non era necessario.
Oppure tutte le cose, come effettivamente risaputo.
Ma allora, se è noto che il terremoto dell’Irpinia non ha coinvolto la sola Irpinia, se è noto che ci sono state ruberie e sprechi, se la cosa è scritta nella documentazione ufficiale, soprattutto nei libri di storia piuttosto che negli atti giudiziari, perché continuo ad insistere sul tema lessicale? Semplice: il lessico, la lingua parlata giornalmente, la lingua scritta dei giornali e la lingua trasmessa della televisione resta impressa nelle menti e nelle coscienze delle persone.
Quando un giovane sente che il terremoto del Friuli è costato meno del terremoto dell’Irpinia pensa: “Porca miseria, il terremoto di una porzione di provincia ci costa ancora oggi, e ci è costato più del terremoto di una intera regione!”.
Ma il terremoto dell’Irpinia non è il terremoto del Friuli.
Naturalmente non voglio iniziare una competizione fra terremoti, né voglio dire ai miei amici friulani che ho il terremoto più grande del loro! Mai e poi mai finirò di ammirare lo spirito con cui hanno superato il loro drammatico disastro.
Sto solo affermando che il lessico indirizza sentimenti, atteggiamenti ed orientamenti mentali. Parlarne vuol dire fare emergere sentimenti ed emozioni intime che sono state vissute da me e da chiunque ha goduto di quei lunghi mesi di precarietà.
Nomen Omen
Non ne ho parlato frequentemente, per non cedere alla tentazione della commiserazione o della autocommiserazione, per non dover affrontare il tema degli sprechi, per non offrire il pretesto dei pregiudizi antimeridionalisti a qualche occasionale interlocutore.
Ne ho parlato con Fabio Z***, un amico con cui purtroppo ho colpevolmente perso i contatti. Poi ne ho parlato sinteticamente con Piter. Basta! Con nessun altro. No, non guardatemi strano. Piter è il diminutivo di Giampietro, ma gli amici lo chiamano Piter, scritto con la “i”, per pigrizia, o per risparmiare tempo, chi può dirlo. A Milano funziona così. Fiorenzo diventa Fiore, Pierpaolo si trasforma in Pierpy, Domenico è Mimmo (al più Mimmaccio, per indicarne la vena dissacrante), Giuseppe è Beppe, Ambrogio si contrae in Ambròs ed Achille si accontenta di essere Aki! Lorenzo, poi, si firma Lzo.
<> [5].
Eccolo qui il nostro Mimmaccio. Come sarebbe a dire “A Claudio cosa accorciamo che ha tutto piccolo?”. Delinquente! Gli tagliamo il cognome, perché, almeno quello, è lungo! A parte gli scherzi, a Milano parlare ruba tempo al lavoro. I meridionali invece, che non hanno nulla da fare, aggiungono al nome un sostantivo che ne caratterizza l’animo. Mimì ‘o Melonaro è sicuramente un personaggio spiccio, Peppiniello ‘o Zuzzuso probabilmente lo riconoscereste pure mascherato ad una festa di carnevale, mentre Massimo ‘o russo non è straniero e neppure comunista.
Dicevo che ho discusso del mio terremoto con Piter, senza dilungarmi, con ricercato, inutilmente ricercato, distacco.
Il suo commento è stato “Per come ne parli è una esperienza che ti tocca ancora oggi”.
Ed io: “Quel terremoto vissuto ad Avellino probabilmente è paragonabile ad una esperienza bellica in una città a ridosso del fronte: saltano tutti i riferimenti sociali. Niente scuola, niente lavoro, niente casa, niente famiglia”.
Le scuole occupate dagli sfollati: sono state chiuse per oltre due mesi, per poi essere riaperte a giorni alterni.
Il lavoro mancava già prima del terremoto, figuriamoci dopo, quando c’era anche la motivazione per giustificare la consolidata insofferenza per la fatica.
Casa e famiglia: voi dormireste, come ho dovuto fare io e molti irpini, in una casa dichiarata inagibile? Oppure, dormireste in una casa che non sapete se essere agibile? Oppure mangereste in una casa “agibile” osservando al telegiornale immagini girate a poca distanza da voi?
La marmellata
Tutto questo a me fa sorridere, sorrido con le lacrime agli occhi, perché mi fa tornare al tema lessicale. Sorridere non vuol dire ridere, vuol dire “ti ho scoperto con le dita nella marmellata”. Le lacrime rappresentano la delusione per aver capito, magari in ritardo, che quelle dita sporche di marmellata avevano lordato gli oggetti più cari della coscienza di un popolo.
Mi spiego.
Una espressione ricorrente di questa esperienza è stata “emergenza”. Il termine “emergenza” collegato al temine “terremoto”, con una buona dose di immagine di distruzione, di vecchi piangenti davanti alle macerie di una casa, fa crescere il bisogno della solidarietà. Badate: ho detto bisogno di solidarietà, non desiderio di solidarietà.
Il bisogno di essere solidali, buoni, altruisti, si trasforma in “impulso” e, così come si vende il cioccolatino, agendo sugli impulsi, si “vende” la solidarietà. Quella vendita però deve essere effettuata subito, altrimenti ci si ripensa e si dice: “ma quanti cioccolatini sto comprando? Mi faranno male ai denti!”.
Il bisogno di solidarietà si è trasformato in flussi di materiali e soldi.
I materiali che sono arrivati a destinazione sono serviti sostanzialmente a poco.
Ed i soldi: chi li ha visti!
Come, oltre cinquantamila miliardi delle vecchie lire, che oggi, attualizzati, varrebbero forse cento miliardi di euro, e non li avete visti? Ma avete una miopia endemica da quelle parti?
Purtroppo no! Manca la coscienza politica da queste parti. La coscienza politica si esprime attraverso la presenza di statisti o almeno di uomini di stato. La politica invece nel meridione è intesa come momento di interazione partitica, anzi clientelare, con pochissimi legami alla gestione della cosa pubblica.
Come? <> No, Iginio, no! Non mi sto riferendo alla “cosa pubblica” di “A*** la puttana”. Torneremo su questo aspetto lessicale, sul concetto di “cosa pubblica”, “politica” ed alla bellissima A*** dopo. Ora voglio parlare ancora di emergenza.
Note
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