**Testo tratto da L’anno novecentocinque – Traduzione di Angelo
Maria Ripellino – (Giulio Einaudi Editore – Torino)**
LA RIVOLTA DEI MARINAI
Tutto viene a noia.
Solo a te non è dato di diventare abituale.
I giorni passano
e gli anni passano
e mille, mille anni.
Col bianco fervore dei flutti
celandoti
nel bianco aroma delle acacie,
proprio tu, forse,
mare,
li riduci, li riduci a nulla.
Tu stai su un mucchio di reti.
Tu chiurli alla maniera delle gru,
scherzando come una sorgiva.
E come una ciocca dietro l’orecchio,
la tua corrente in poppa solletica appena.
Sei ospite dei bimbi.
Ma con quale inaudita tempesta
tu rispondi,
quando la lontananza ti richiama a casa!
La vastità primordiale
s’infuria dalla spuma ed arrochisce.
La sbrigativa risacca
si esaspera
dalla catasta di lavoro.
Tutto si scompagina e a suo modo
ulula e va in rovina
e, imbrattandosi di melma,
batte a suo modo sui pali.
L’identità delle tinte
che si sono frammischiate
respinge indietro
l’insipidezza delle vele,
e s’approssima un muro d’acquazzone.
E il cielo scende sempre più basso
e cade a sghimbescio
e va giù ruzzoloni
e sfiora coi gabbiani il fondo.
Per la foschía galvanica
delle nubi scompigliate,
goffamente,
strisciando, barcolloni
si fanno strada nel porto le navi.
Fulmini dalle gambe turchine
come ranocchie saltellano in una pozza.
Attrezzi spilungoni
sono scaraventati
da ogni lato.
Tutto si preparava a prender sonno.
E si arrampicavano i granchi,
e verso il centro
del sole appesantito
si piegavano le testine delle làppole.
E il mare faceva le fusa
ad una versta e mezza da Tendr,
il grigio tronco d’una corazzata
con schizzi arancioni
screziando.
Il sole tramontò.
E all’improvviso
di luce elettrica sfolgorò la « Potëmkin ».
Dalla cambusa alla plancia
irruppe un’orda di mosche.
La carne puzzava di putrido…
E sul mare caddero le tenebre.
La luce borbottò sino all’aurora
e ai primi albori si spense.
Lastre
di mareggiata mattinale
scivolarono
come rasoi di mercurio
lungo il piedistallo della mole
e, guardandole dall’alto,
cominciò a respirare e a rianimarsi
la corazzata.
Cantata la preghiera, cominciarono
a lavare la tolda.
Portarono in mare i bersagli.
A pranzo non sedettero al pasto comune,
e mangiavano in silenzio
pane ed acqua,
quando d’un tratto echeggiò: – Tutti al càssero!
Ciascuno al proprio posto !
I due turni di quarto! – E un tale in casacca,
annerendo di bile,
urlò con stizza: – Attenti ! – da una bitta d’ormeggio
minacciando settecento.
- Fermento?!
Chi vuoi mangiare, in cambusa.
Chi non vuole, al pennone.
March! – Le vedette impetrarono in un grido di meraviglia.
E all’improvviso, insieme,
si lanciarono tutti nel subbuglio
dalla bitta
di corsa alla batteria: – Fermatevi!
Basta! – esclamò imbestialito l’apostolo della minestra.
Parte dei fuggenti restò indietro.
Egli tagliò loro la strada. – Di nuovo intrighi?! – Poi diede il comando: – Nostromo,
la tela incatramata!
Sentinella, accerchiarli! – Gli altri,
nascostisi in folla nella torre blindata,
aspettavano atterriti il supplizio
che stava per sopraggiungere.
I cuori battevano forte.
E uno di essi,
non sopportando il dolore,
proruppe in un urlo: – Fratelli!
Ma che è tutto questo? – E, scrollando i capelli: – Dategli, fratelli, alle canaglie!
Alle armi!
Evviva la libertà! – Uno strèpito d’acciaio e di piedi
andò rotolando
verso le murate della nave.
E la sommossa prese lo slancio,
stormendo,
verso le cime dietro l’albero poppiero,
e si gonfiò,
e lassù
come una mazza
descrisse un arco. – A che ci serve correre a gara?
Fermati!
Ti raggiungerò, canaglia! – Trach-tach-tach…
La mano tesa alla mira
e una scarica in corsa.
Trach-tach-tach…
E le pallottole balzarono sui ponti,
dai ponti,
trach-tach-tach…
in acqua,
sui nuotatori. – È ancora a bordo?! – Scariche in acqua e in aria. – Ahà! Tu imbestialisci
per le nostre lagnanze?! – Scariche, scariche,
e per i piedi in mare
e fila a Port-Arthur.
Ma nel reparto macchine si affaccendavano,
senza sapere ancora per benino
come andava sul càssero,
quando, nuotando con l’ombra sulle caldaie,
sulla griglia delle macchine
come un gigante
passò
Matjusénko
e, piegatosi sopra l’inferno,
esclamò:
- Stëpa!
La vittoria è nostra! – Il macchinista si levò.
Si abbracciarono. – Proveremo senza balie.
Sta tranquillo!
Sono già in gabbia.
Ed agli altri una palla per uno e giù in acqua.
Ma io son venuto, Stëpa, per sapere
chi sia il nostro più giovane meccanico. – Ce n‘è uno. – Va bene.
Mandamelo di sopra -.
Il giorno passò.
All’alba,
avviluppandosi in una cortina di fumo,
gridò nel megàfono un marinaio ai marinai: – Levate l‘àncora! – La voce si spense in una nuvola.
La corazzata puntò verso Odessa,
nel tronco severo
di schizzi arancioni
brillando.
**Testi tratti da Quando il tempo si rasserena – Traduzione di
Angelo Maria Ripellino (Giulio Einaudi Editore – Torino)**
IN OGNI COSA HO VOGLIA DI ARRIVARE
In ogni cosa ho voglia di arrivare
sino alla sostanza.
Nel lavoro, cercando la mia strada,
nel tumulto del cuore.
Sino all’essenza dei giorni passati,
sino alla loro ragione,
sino ai motivi, sino alle radici,
sino al midollo.
Eternamente aggrappandomi al filo
dei destini, degli avvenimenti,
sentire, amare, vivere, pensare,
effettuare scoperte.
Oh, se mi fosse dato, se potessi
almeno in parte,
mi piacerebbe scrivere otto versi
sulle proprietà della passione.
Sulle trasgressioni, sui peccati,
sulle fughe, sugli inseguimenti,
sulle inavvertenze frettolose,
sui gomiti, sui palmi.
Dedurrei la sua legge,
il suo cominciamento,
dei suoi nomi verrei ripetendo
le lettere iniziali.
I miei versi sarebbero un giardino.
Con tutto il brivido delle nervature
vi fiorirebbero i tigli a spalliera,
in fila indiana, l’uno dietro l’altro.
Introdurrei nei versi la fragranza
delle rose, un àlito di menta,
ed il fieno tagliato, i prati, i biodi,
gli schianti della tempesta.
Così Chopin immise in altri tempi
un vivente prodigio
di ville, di avelli, di parchi, di selve
nei propri studi.
Giuoco e martirio
del trionfo raggiunto,
corda incoccata di un arco teso.
ESSERE RINOMATI NON È BELLO
Essere rinomati non è bello,
non è così che ci si leva in alto.
Non c‘è bisogno di tenere archivi,
di trepidare per i manoscritti.
Scopo della creazione è il restituirsi,
non il clamore, non il gran successo.
È vergognoso, non contando nulla,
essere favola in bocca di tutti.
Ma occorre vivere senza impostura,
viver così da cattivarsi in fine
l’amore dello spazio, da sentire
il lontano richiamo del futuro.
Ed occorre lasciare le lacune
nel destino, non già fra le carte,
annotando sul margine i capitoli
e i luoghi di tutta una vita.
Ed occorre tuffarsi nell’ignoto
e nascondere in esso i propri passi,
come si nasconde nella nebbia
un luogo, quando vi discende il buio.
Altri seguendo le tue vive tracce,
faranno la tua strada a palmo a palmo,
ma non sei tu che devi sceverare
dalla vittoria tutte le sconfitte.
E non devi recedere d’un solo
briciolo dalla tua persona umana,
ma essere vivo, nient’altro che vivo,
vivo e nient’altro sino alla fine.
ANIMA
Anima mia che trèpidi
per quelli che mi attorniano,
sei divenuta il lòculo
dei martoriati vivi.
Imbalsamando i corpi,
cantandoli in poesia,
rimpiangendoli tutti
con singhiozzante lira,
nel nostro tempo egoistico
per scrupolo e paura,
come urna funeraria
tu ne ospiti le ceneri.
Gli spasimi comuni
ti hanno prostrata. Odori
del limo cadaverico
di tombe e di obitori.
Anima-sepoltura,
tutto quello che hai visto,
tritando come màcina,
hai mutato in mistura.
Continua a macinare
quello che mi
è accaduto,
come da quarant’anni,
nell’umo di un ossario.
CAMBIAMENTO
Io avevo un debole una volta per i poveri,
non da un punto di vista superiore,
ma perché solamente in mezzo a loro
la vita andava senza pompa né parata.
Benché conoscessi la casta dei nobili
e il pubblico più delicato,
ero avversario del parassitismo
ed amico degli infimi straccioni.
E cercavo di stringere amicizia
con persone dedite al lavoro,
che in cambio mi facevano l’onore
di riputare pure me un rifiuto.
Senza vuote frasi era tangibile,
sostanziale, solido, corposo
l’ambiente degli spogli sotterranei,
delle soffitte prive di tendine.
Ma io mi sono guastato da quando
mi sfiorò la corruzione dell’epoca
e il dolore fu preso a vergogna
da schiere di ottimisti e filistei.
A tutti coloro in cui avevo fiducia
da lungo tempo ormai sono infedele.
Io ho perduto l’uomo dal momento
in cui l’uomo da tutti fu perduto.
LUGLIO
Per la casa gironzola un fantasma.
Un calpestío sul capo tutto il giorno,
un balenare d’ombre nel solaio.
Per la casa gironzola un folletto.
Vàgola in ogni dove a contrattempo,
s’intromette in tutte le faccende,
nella vestaglia striscia verso il letto,
strappa la tovaglia dalla tavola.
Senza asciugarsi i piedi sulla soglia,
irrompe in una raffica di vento
e solleva la tenda-ballerina
con un vortice sino al soffitto.
Ma chi è questo monello ineducato
e questo spettro e questo sosia? E il nostro
nuovo inquilino da poco arrivato,
un villeggiante, un nostro ospite estivo.
Per il tempo del suo breve riposo
l’intera casa noi gli cederemo.
Luglio, l’aria di luglio con bufere
prende da noi le camere in affitto.
Luglio che sì trascina nel vestito
peluria di soffioni e di bardane,
luglio che penetra dalle finestre
e parla sempre forte, ad alta voce.
Acciarpona arruffata della steppa,
impregnata d’aroma di finocchio,
di tiglio e d’erba e di foglie d’ortaggi,
l’aria di luglio che soffia dai prati.
I PAGLIAI
Guizzano le libellule scarlatte,
volano da ogni parte i calabroni,
le colcosiane ridono dal carro,
passano con le falci i falciatori.
Fino a che il tempo si mantiene bello,
rastrellano e rivoltano il foraggio
e lo abbícano prima del tramonto
in pagliai dell’altezza di case.
Il pagliaio nel crepuscolo assume
l’aspetto di un ostello in cui la notte
si distenda sopra un tavolaccio
in mezzo ai trifogli falciati.
Sul mattino, quando il buio dirada,
si erge il pagliaio come un fienile,
in cui la luna di passaggio
si sia nascosta a pernottare.
Prima dell’alba un carro dietro l’altro
rotola per i prati nelle tenebre.
Dalla locanda sorge il nuovo giorno
con tritume e fieno fra le chiome.
E nel meriggio il cielo torna azzurro,
sono di nuovo i pagliai come nuvole,
come acquavite all’anice di nuovo
la terra è gagliarda e odorosa.
UN VIALE DI TIGLI
Un portone dall’arco a tutto sesto.
Campi d’avena, colli, prati, boschi.
Il freddo e il buio d’un parco nel recinto
ed una casa di bellezza insolita.
Là i tigli larghi parecchie bracciate,
nascondendosi l’uno dietro l’altro,
nel tenebrore dei viali festeggiano
il loro giubileo bicentenario.
Si annodano dall’alto come volte.
In basso un praticello e spiazzi erbosi,
che file di passaggi regolari
tagliano in linea retta.
Sotto quei tigli come sotto terra
non c‘è un puntino chiaro sulla sabbia,
e come il foro d’una galleria
luccica l’uscita in lontananza.
Vengono i giorni della fioritura
e i tigli in una cinta di steccati
diffondono insieme con l’ombra
un irresistibile aroma.
La gente che passeggia sotto i tigli
col cappello d’estate vi respira
questo forte odore inesplicabile,
ma familiare all’intuito delle api.
Esso costituisce negli istanti
in cui prende la gente per il cuore
l’oggetto e il contenuto d’un volume.
Le aiuole fanno da rilegatura.
Su un annoso albero massiccio,
ricoprendo dall’alto la casa,
macchiettati di cera sfavillano
i fiori accesi dalla pioggia.
QUANDO IL TEMPO SI RASSERENA
Il grande lago somiglia ad un piatto.
Gli sta dietro una massa di nuvole,
accatastate come un bianco mucchio
di rigidi, alpestri ghiacciai.
Man mano che cambia la luce,
cambia anche il bosco colore.
Ora s’accende tutto, ora è coperto
di un’ombra di nera fuliggine.
Quando alla fine dei giorni piovosi
fra le nubi balugina l’azzurro,
com‘è festoso il cielo coi suoi squarci,
com‘è piena di esultanza l’erba!
Sgombrato l’orizzonte, il vento cade.
È effuso il sole per la terra.
Traluce il verde delle foglie,
come pittura su un vetro a colori.
Nell’affresco di chiesa delle imposte
contemplano l’eterno dal di dentro
con le aureole lucenti delle insonnie
i santi, i romiti, i sovrani.
Come se lo spazio della terra
fosse l’interno d’una cattedrale,
dalla finestra mi
è dato sentire
a volte l’eco d’un coro lontano.
Natura, mondo, cantuccio del cosmo,
io resterò con lacrime di gioia,
penetrato da un brivido recòndito,
sino alla fine del tuo lungo uffizio.
MUSICA
La casa s’innalzava come torre.
Per una stretta scala a chiocciola
due omaccioni portavano un pianoforte
come una campana su un campanile.
Trascinavano in alto il pianoforte
sull’ampiezza del mare cittadino,
come una tavola dei comandamenti
su un altipiano di pietra.
Ed ecco lo strumento nel salotto,
e la città, fra sibili e baccano,
era rimasta in basso sotto i piedi,
come sott’acqua al fondo di leggende.
L’inquilino che stava al sesto piano
contemplò la terra dal balcone,
come se la tenesse fra le mani,
governandola legittimamente.
Tornato dentro, cominciò a sonare,
non un pezzo qualunque di un altro,
ma il proprio pensiero, un corale,
il brusio d’una messa, il frusciare d’un bosco.
Lo schianto degli improvvisi portava
la notte, la fiamma, un rimbombo di botti,
la pioggia dirotta sul viale, un rumore di ruote,
il viavai delle strade, il destino degli uomini soli.
Così di notte, a lume di candela,
in cambio delle ingenuità passate,
annotava il suo sogno Chopin
sugli intagli neri del leggío.
Oppure, superato l’universo
con un salto di più generazioni,
sui tetti degli alloggi cittadini
tempestava un volo di Valchirie.
O, tra crepiti e strepiti infernali,
la grande sala del Conservatorio
Cajkovskij scrollava sino alle lacrime
con la sorte di Paolo e Francesca.
**Testi tratti da Poesie – Traduzione di Angelo Maria
Ripellino (Giulio Einaudi Editore – Torino)**
FAZZOLETTI, TACCHI
Fazzoletti, tacchi, sguardo ardente
dei bucaneve: non ci si può staccare.
E la cioccolata rossiccia del fango
non è livellata a bolla d’aria.
Ma il tempo piovoso impasta di raggi
la primavera e il bàttito assonnato delle pietre,
e il rivo rimena clamori di uccelli,
come con le dita si plasmano i raviuoli.
Fazzoletti, falpalà: che gioia!
Nera liquirizia dei luoghi disgelati…
Lasciati ripagare cento volte
e come un fiume sciògliti e respira.
Lascia che, sorpassando la livella,
io ti ringrazi sino ad arrochire
e dall’alto immergi il tuo mondo
come in uno specchio nel mio grazie.
Capovolgi la folla e i paracarri
e le gronde nella saliva e nella schiuma.
E il turchino còrneo del cielo,
e le vuote ombre delle nubi.
La gelatina del cieco mezzogiorno
e i gialli occhiali dei borri,
e le sottili làmine di mica dei ghiacci,
e i monticelli dalla frangia nera.
__1932
NON CI SARÀ NESSUNO A CASA
Non ci sarà nessuno a casa,
tranne il crepuscolo. Il solo
giorno invernale in un trasparente spiraglio
di cortine non accostate.
Solo di bianchi biòccoli bagnati
il rapido aleggiante balenìo.
Solo tetti, neve e tranne
i tetti e la neve, – nessuno.
E di nuovo arabeschi intesserà la brina,
e di nuovo mi domineranno
lo sconforto dell’anno passato
e le vicende di un altro inverno.
E mi scherniranno di nuovo per una
colpa non ancora perdonata,
e una fame di legna avvinghierà
la finestra lungo la crociera.
Ma inaspettatamente per la tenda
scorrerà il trèmito di un’irruzione.
Misurando coi passi il silenzio,
come l’avvenire tu entrerai.
Tu apparirai sulla soglia, indossando
qualcosa di bianco senza stranezze,
qualcosa proprio di quelle stoffe
di cui si cuciono i fiocchi di neve.
1931
VERSI MIEI
Versi miei, in fretta, in fretta,
di voi ho bisogno come non mai.
C‘è una casa all’angolo del viale,
dove s‘è infranta la serie dei giorni,
dov‘è vano il benessere e abbandonato il lavoro
e si piange, si pensa e si aspetta.
Dove si beve come acqua il bromo amaro
di mezze insonnie, di mezzi sopori.
Una casa ove il pane è come atrèpice,
una casa: bisogna andarvi in fretta.
Ululi dalle vie la bufera di neve,
voi siete arcobaleno su cristallo,
voi siete sogno, voi notizia: io vi mando,
io vi mando, vuoi dire che amo.
O scalfitture intorno ai colli femminili
per gli amuleti che vi sono appesi!
Come li conosco, come li ho compresi
io che ad essi mi sono aggrappato.
Tutta la vita ho trattenuto un grido
sull’evidenza di queste catene,
ma sempre le soverchia la menzogna
degli altrui giacigli raggelati
e l’immagine di Barbablu
è più forte delle mie fatiche.
Retaggio orrendo dei borghesucci,
li visita ogni notte,
irreale come il Vij,
l’oltraggioso fantasma del disamore
e deformato da quello spettro
è il naturale destino delle spose migliori.
Oh, com’era ardita quando,
appena uscita di sotto l’ala
della madre diletta, scherzando,
mi diede il suo riso infantile
senza contraddizioni e senza impacci,
il suo mondo infantile e il suo riso infantile,
bambina ignara delle offese,
le sue inquietudini e le sue faccende.
Boris Pasternak