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In copertina e all’interno: fotografie dell’autore
Prefazione
Bruno Longanesi offre il suo mondo narrativo, limpido e sincero, grazie ad una raccolta di racconti che rappresentano la meravigliosa miscela di esperienze esistenziali ed alimentano l’intenso recupero memoriale, riconducendo ad alcune vicende che hanno contrassegnato, in modo positivo, le stagioni della sua vita.
La prima parte della raccolta vede dominare la sua grande passione per la montagna, percepita nel profondo dell’animo ed intensamente vissuta, nella quale propone alcuni racconti che avvicinano al suo modo di percepire il concetto di alpinismo, vissuto come una miscela di “avventura, evasione, sport e romanticismo”.
Ecco allora che Bruno Longanesi, attraverso una vibrante scrittura memoriale, rievoca episodi e vicende vissute nella sua gioventù, sulle pareti delle Dolomiti e sui ghiacciai delle Alpi Occidentali, quando era un “atleta della montagna”: ricorda la sua passione per la montagna che lo aveva affascinato fin da ragazzo, quando leggeva libri d’avventura, di viaggi, scoperte ed imprese; la circostanza casuale che poi lo avvicinò alla montagna, nel 1945, quando, all’età di 17 anni, trascorse una vacanza nel paese di Sesto, organizzata da don Stefano per i parrocchiani, con il ricordo delle condizioni spartane, delle passeggiate e del mitico Trenino delle Dolomiti, che lo fecero innamorare dell’atmosfera di quelle montagne.
A causa delle vicende della vita, qualche anno dopo, Bruno Longanesi si era trasferito a Milano per motivi di lavoro, ma la passione per la montagna non era svanita, si era solo spostata sulle Alpi Occidentali, sui massicci del Monte Bianco e del Monte Rosa: proprio in questi luoghi era avvenuta la sua “prima scalata” sulle Alpi, affrontando i pericoli della neve e del ghiaccio oltre i 4000 metri di altitudine, in cordata con la guida Enrico, insieme a don Angelo, anche lui con lo stesso entusiasmo per la montagna, con obiettivo la Punta Gnifetti, a 3647 metri, e meta finale il rifugio a 4559 metri, praticamente un’avventura in un “mondo di ghiaccio”.
Il racconto di quelle esperienze, vissute con passione e romanticismo, si accompagna ad alcune riflessioni sulla realtà odierna di quei luoghi, ora facilmente raggiungibili con le seggiovie, assai differente da allora quando ci si arrivava dopo grande fatica, sudore e sacrificio, e poi, alcune considerazioni esistenziali che nascono nella Val Pusteria, località delle Dolomiti, che invita al silenzio, alla contemplazione e all’abbandono dei sensi: e proprio “nell’universale silenzio della Natura” di kantiana memoria, Bruno Longanesi ha trovato il “suo” assoluto silenzio in quell’abbandono.
I racconti dedicati alla montagna si chiudono con una storia struggente nella quale il protagonista, dopo la morte della sua fidanzata, decide di fare l’ultima scalata alla Punta Frida, del Gruppo Lavaredo, e lasciarsi morire su quella cima: una scelta meditata e drammatica, dopo il dolore nel cuore e il tormento dell’animo.
La sua mente era ormai ossessionata dalla perdita della donna amata e non restava che un gesto purificatore e liberatorio, quello di unirsi a lei per l’eternità, ma un colpo di scena finale, inaspettato e sorprendente, muterà il suo destino.
Il racconto riconduce alla concezione che i processi esistenziali sono imprevedibili, che il destino giochi un ruolo fondamentale e, come scrive Bruno Longanesi, la storia narrata diventa un “invito alla speranza nel futuro”.
L’interessante raccolta comprende anche “racconti sentimentali”: il primo narra la storia di una bambina che trova un amico e intende sottolineare che la sostanza della felicità è fatta di piccole cose, perché la semplicità è la fonte della felicità, come quel piccolo gesto, quella tenera carezza d’un bambino, che aveva trasmesso immensa felicità.
Il secondo racconto riporta la storia di un’anziana signora che si intenerisce quando, dalla sua finestra, vede un bambino che ogni giorno chiede l’elemosina a un crocevia: emerge l’importanza della solidarietà umana e l’atto d’amore di una donna che vuole aiutare un bambino che soffre.
Alcuni racconti riconducono poi a vicende collegate ad episodi della Prima Guerra Mondiale: la lunga notte di veglia di una sentinella italiana sulla linea del fronte con un giovane soldato austriaco e la vicenda di un “cecchino infallibile” ligio al dovere.
Nella raccolta vi sono anche alcuni “racconti brillanti”, il primo dei quali vede come protagonista un personaggio straordinario e leggendario collegato al tempo della sua gioventù, un omone di un candore disarmante e semplicità unica, che il gruppo di amici si divertiva a prendere in giro: e, in poche pagine, prende forma un poetico ricordo di quel mondo di paese, così “umano e semplice”.
Risulta divertente ed ironico anche il racconto relativo alla “strana polverina”, che narra la vicenda capitata all’Autore durante uno dei numerosi viaggi in giro per il mondo, e precisamente a New Delhi, quando, per la consueta ispezione alla dogana, una semplice scatola di “Magnesia San Pellegrino” aveva destato grande allarme come si trattasse di droga: una sceneggiata coinvolgente e divertente di Bruno Longanesi che si improvviserà attore teatrale, riuscirà a ristabilire la verità.
Con la sua raccolta di racconti Bruno Longanesi regala una galleria di interessanti personaggi, sempre raccontati con profonda umanità ed estrema delicatezza, che rappresentano la sostanza stessa del suo percorso esistenziale che si tramuta in viaggio narrativo attraverso il “tempo” della sua esistenza: e, anche se ha ormai più di novant’anni, conserva intatto, nel suo animo, il forte desiderio di “raccontare” il complesso mistero dell’esistere.
Bruno Longanesi scandisce il ritmo dei racconti con il desiderio di ricordare i suoi meravigliosi “frammenti di vita”, tutto ciò che merita di essere custodito: la sua Parola tende sempre ad illuminare la vicenda umana, come a riportare i sentimenti veri ed autentici, la necessità vitale di saper “volare liberi” e sognare, proprio come nel racconto della bambina con il suo palloncino rosso, riuscendo ad elevarsi sopra le quotidiane vicissitudini.
La sua narrativa, sovente accompagnata da profonde riflessioni esistenziali, diventa testimonianza vibrante d’una concezione dell’esistere capace di offrire sempre uno spiraglio salvifico, la reiterata longanesiana “speranza nel futuro”, che può illuminare il cammino, anche nel momento più difficile della nostra vita.
Durante il processo narrativo emergono la volontà di offrire un simbolico “scrigno” memoriale che Bruno Longanesi custodisce nel suo cuore, oltre al desiderio di scrivere come a voler fermare il “senso del tempo”, e la necessità inderogabile di estrapolare dalle esperienze vissute il significato più autentico del vivere.
Massimo Barile
INTRODUZIONE DELL’AUTORE
Sono ancora qui per presentarvi un mio libro: il 15°.
Stavolta la colpa non è completamente mia.
Il coronavirus, la “pandemia” che ci affligge, mi ha costretto a stare in casa e allora ho cercato di sfruttare l’ulteriore tempo libero a disposizione scrivendo.
Credo che nella letteratura contemporanea non ci sia stato altro caso di motivazione per scrivere un libro.
Ma che dovevo fare?
Stare in casa, continuando a flagellarmi, ripetendo monotonamente, “ricordati che devi morire?”
Eh no! Se, proprio, devo morire, voglio farlo con una penna in mano!
Innegabilmente è un sacrificio essere innocenti e sottostare agli arresti domiciliari, ma ricordo che, da giovane, ho subito i vari coprifuoco e ho subito una guerra: in fondo, a noi, stanno chiedendo di stare… seduti sul divano.
Ma ce l’ho col virus e muoio dalla voglia (Pardon! Desidererei di) sapere se l’ho mai avuto tra le mani e quanti ne ho uccisi lavandomi con acqua e sapone!
A essere sinceri, non mi piace neppure questa ipotesi, anzi, preferisco non parlarne proprio.
Però debbo parlarne ancora un pochino perché, se si stampano libri, il merito (o demerito) va proprio ad una…pandemia!
“Questa è nuova!” direte voi meravigliati.
Ma è così!
Nel passato non esisteva la stampa e la cultura occidentale veniva trasmessa ai posteri nelle scriptorie dei Monasteri da centinaia e centinaia di amanuensi, cioè la figura professionale di chi, di mestiere, ricopiava testi e manoscritti a servizio di privati e del pubblico
La più tragica pandemia che la storia umana ricordi è quella della peste nera che, attorno al 1350, colpì tutto il “mondo” allora conosciuto.
Fu terribile e si protrasse a lungo nel tempo, mietendo tante vittime: circa il 40% dell’intera popolazione.
Gli amanuensi furono particolarmente colpiti, tanto che la professione quasi scomparve.
Per risolvere questo problema, tante persone furono incaricate di studiare una soluzione: si rischiava di annullare la “cultura” occidentale!
Fu un Tedesco di Magonza, un certo Johannes Gutenberg, che inventò, attorno al 1450, i caratteri mobili della stampa, presentando al pubblico 180 esemplari della Bibbia.
Da allora sono stati stampati tanti libri di uomini illustri di lettere e letti da un pubblico sempre più numeroso.
Oggi, al contrario, i libri sono scritti dal… pubblico e letti da nessuno!
Certe persone leggono così poco che hanno il cervello… anchilosato!
Va detto, per inciso, che non sono le persone ad aprire i libri, ma sono i libri ad… aprire le persone, ricordatelo!
Perché ci sono crimini peggiori del bruciare i libri: uno di questi e… non leggerli!
Diciamo che mi piace scrivere e diciamo pure che mi piacerebbe essere anche letto, ma questo è pretendere troppo.
Certo che invidio Sofocle perché si narra di quell’aristocratico francese che andò alla ghigliottina leggendo un libro di Sofocle.
Giunto il suo turno, piegò con calma un angolo della pagina che leggeva, prima di deporre il libro a lato del patibolo.
Ecco! Io non voglio arrivare a questo estremo paragone, ma mi basterebbe che qualcuno, impossibilitato a continuare la lettura di un mio libro, lo riponesse piegando un angolo della pagina con l’intenzione di riprenderlo in mano.
Questo sarebbe un segno di incoraggiamento.
Sapete che il 60% della popolazione italiana, legge un libro all’…anno?
Tra i cinque maggiori mercati editoriali europei l’Italia si presenta come il Paese con il più basso indice di lettura.
I motivi?
Poca educazione alla lettura, cultura poco propagandata, società nervosa e stressata, tecnologia telematica in espansione, autori poco convincenti, poco tempo a disposizione per la lettura e… poca voglia di leggere!
Da qui la delusione.
Però, la delusione, per un essere ragionevole, è ciò che è l’acqua fredda per un metallo che brucia: rafforza, tempra, intensifica, ma non distrugge!
Io continuo a scrivere.
E se qualcuno mi delude non me la prendo: devo considerare che è il massimo che poteva offrirmi.
Diceva Oscar Wilde: “Regala le tue assenze a chi non dà valore alle tue presenze!”
Beato chi non si aspetta nulla, perché non sarà mai sconfortato.
Dio ha inventato l’uomo perché era deluso delle scimmie: sembra sia rimasto insoddisfatto e voglia fare marcia indietro!
“Quanta amarezza in queste parole” penserete.
A scanso di equivoci, questa contrarietà, questa delusione, sdegno e acredine non è dovuta al fatto che non si leggano i miei libri (questo è più che comprensibile!), ma al fatto che non si… leggano più i libri!
È cosa ben diversa!
La delusione della maturità (eufemismo di vecchiaia) segue le illusioni giovanili.
Se qualche desiderio non viene esaudito, non stupitevi: così è la vita!
Buona lettura! (Speriamo!)
Echi lontani
LA MIA PRIMA SCALATA SUL GHIACCIO
“Alle mie montagne, infinitamente grato per il bene interiore che nella giovinezza ho potuto ricavare dalla loro severa e inflessibile scuola”.
(Walter Bonatti)
Prima di iniziare questo racconto, vorrei fare una premessa di carattere personale per meglio avvicinare il lettore al mio modo di vedere le cose e per illuminare sul mio concetto dell’alpinismo (che ho espresso in altri libri).
Innanzitutto se mi si chiedesse di sintetizzare rapidamente il mio pensiero sull’alpinismo, non farei che affiancare queste parole che mi saltano alla mente: lotta, avventura, romanticismo, evasione, sport, perché sono convinto che, più o meno intensamente, ogni individuo che pratica la montagna ha vissuto questi molteplici aspetti.
Un’altra cosa vorrei dire.
L’alpinista, normale, non ha, e non potrebbe avere: né platee di tifosi esultanti, né l’appoggio dei supporti mediatici, né industrie che lo sorreggono e lo sponsorizzano; non recepisce stipendi o ingaggi; non si presta a nessun genere di facile sfruttamento commerciale ma, appunto per questo, esso rifulge maggiormente nella scala dei valori sociali.
Si accontenta, come premio, della sua personale approvazione.
E, per questo premio simbolico, affronta sacrifici enormi, giganteschi. immani; gestisce e amministra il rischio e la paura; sopporta duri ed estenuanti allenamenti; si impone con la volontà e vince perché deve vincere!
Ha vinto una battaglia? No!
Ha conquistato un regno? No!
Eppure ha raggiunto una soddisfazione completa lottando contro le difficoltà e contro se stesso, perché queste difficoltà avrebbe potuto evitarle stando comodamente seduto in poltrona, leggendo il giornale…
Del resto Confucio esprimeva questo concetto: “Non preoccuparti se gli altri non ti apprezzano. Preoccupati se tu non approvi te stesso!”
L’espressione latina: “Altius, citius, fortius”, (“motto” olimpico ufficiale, unitamente ai cinque cerchi e alla fiamma olimpica) ne è l’emblema.
Cosa ti dice questa frase: (più alto, più veloce, più forte)?
Una cosa sola: prova i tuoi limiti e cerca di superarli.
Non ti dice che devi vincere!
Ti dice, però, che puoi vincere!
Il barone francese Pierre de Cuobertin, ìl fondatore delle Olimpiadi moderne, lanciò la sua idea con lo slogan: “L’importante non è vincere, ma partecipare!”
Anche questa frase non esclude una possibilità di vittoria.
Devi partecipare, devi lottare, devi cercare di superare i tuoi limiti e non ti vieta di battere il tuo avversario e vincere.
Avversari che possono presentarsi in tanti modi e non solo persone.
Ma in montagna difficilmente si parla di vittorie, di primati, di tempi eccezionali.
In montagna vincere significa portare a termine la tua scalata!
L’alpinista è un uomo che conduce il suo corpo là dove un giorno i suoi occhi hanno visto una vetta!
Mi congedo così nel presentare, l’atleta (perché di atleta si tratta!) della montagna e, fidando unicamente nelle mie modeste capacità narrative, cercherò di rievocare episodi da me vissuti nella mia ormai, lontana giovinezza, sulle pareti delle Dolomiti o sui ghiacciai delle Alpi Occidentali quando ero anch’io un… atleta della montagna.
Una cosa voglio aggiungere: nessun pedagogista educa come le montagna!
La “pedagogia” insegna la “formazione dell’individuo a seguire le norme codificate”, la montagna tempra e rende la persona più forti fisicamente e spiritualmente.
Quella che sto per raccontarvi fu la mia prima scalata sulle Alpi Occidentali.
Non posso dimenticarla perché basta un attimo per dimenticare una vita, ma a volte non basta una vita per dimenticare un attimo (o un fatto!).
Non avevo mai affrontato le difficoltà e i pericoli della neve e del ghiaccio oltre i 4.000 metri di altitudine.
Avevo svolto attività alpinistica fin da giovane (diciassettenne) nelle zona dolomitica di Sesto Pusteria, (zona Tre Cime di Lavaredo) ma non avevo mai affrontato le difficoltà e le condizioni oggettive del… ghiaccio.
Mi si diceva che occorreva una tecnica differente, una diversa impostazione di stile, un diverso allenamento e anche una modifica di mentalità e di carattere.
Mi si faceva capire che solo passando di lì si diventava alpinisti!
Erano motivi sufficienti per attrarmi.
Era sì una attrazione, ma era anche una novità che comportava una decisa svolta sulla mia attività alpinistica.
Ma ero (e sono cambiato poco!) un testone, un irriducibile testardo!
Volli provare!
Ma cominciamo col dire come nacque la mia passione per la montagna (in genere).
Ero un ragazzo di pianura (il mio paese natio ha una altitudine di… 11 metri sul livello del mare!) che, però, immaginava i panorami (mai visti) di montagna.
Fotografie, cartoline, immagini di monti attraevano la mia attenzione.
Ma solo immagini: a una ventina di chilometri avevo sì delle colline, ma non le ho mai considerate montagna, non mi attraevano.
Mi piaceva leggere molto: ero un divoratore di libri di avventure, storie di viaggi, scoperte di Continenti ma, soprattutto, libri che narravano le imprese di uomini che si erano impegnati a scalare le inesplorate montagne, specie delle nostre Alpi.
Fui traumatizzato (come lo può essere un bambino di dieci anni) dalla notizia della morte di un giovane del mio paese sulla Marmolada.
Era precipitato in un crepaccio.
Non sapevo bene cosa fosse un “crepaccio”!
Cercai la parola sul vocabolario e appresi ehe era una “alterazione geomorfologica della superficie di un ghiacciaio, una crepa profonda e di grandi dimensioni”.
“Una grande buca nel ghiaccio” fu la mia traduzione semplice ed elementare.
La mia mente infantile non riuscì a concepire bene che in montagna ci potesse essere ghiaccio con dei… buchi grandi e profondi!
Ghiaccio e montagna!
Però era un binomio che attrasse la mia fantasia.
Sì! Mi incuriosì molto questo nuovo mondo.
Volevo vederlo!
Fu un’aspirazione che per anni, rimase tale.
Fu una circostanza imprevedibile e casuale a dare consistenza al mio desiderio di conoscere la montagna.
Siamo nel lontano 1945 (nell’altro secolo, addirittura!)
Eravamo usciti da poche settimane da una guerra che aveva sconvolto, per sei mesi il mio paese, e lo aveva ridotto ad un cumulo di macerie, quando un Sacerdote affittò un albergo nell’allora sconosciuto paese di Sesto, allora addirittura chiamato col pomposo nome di Moos bei Sexten Pustertal Dolomiten!
Sembrava ancora più lontano perché, in quel periodo, quasi tutte le vie di comunicazione erano interrotte, per cui bisognava fare grandi deviazioni per raggiungere una località.
L’albergo era l’Hotel Lowe (albergo Leone, ora ristrutturato e modificato col nome di Lowenwirt).
È tuttora situato all’ingresso della magnifica Val Fiscalina, allora… selvaggia!
Anche il paese di Sesto e Moso erano “selvaggi” a quei tempi: le due Chiese, l’albergo Leone (a Moso) e l’Hotel Posta a Sesto; la casa natale dell’eroe della Prima Guerra Mondiale, Sepp Innerkofler; l’abitazione dello scultore (e amico) Tschurtschenthaler (Kramer) e altre poche case di locali, dediti all’agricoltura.
Come abbia fatto don Stefano (un eroe, medagliato nella guerra appena terminata) a scovare questo albergo così lontano e nascosto nelle carte geografiche, è stato sempre un mistero.
Portava lassù, per quindici giorni, dei ragazzini del paese di dieci-undici anni per trascorrere un periodo di vacanza.
Ad ogni quindicina c’era il cambio dei ragazzi e c’era, in quell’occasione, una necessaria pulizia dei locali e dell’attrezzatura ricettiva (cuscini, lenzuola, materassi), attrezzature per i bagni (tovaglie asciugamani), disinfezione seria contro i parassiti (sì… molti di noi avevano ancora i postumi dei pidocchi contratti durante il fronte!).
In questo periodo, di circa una settimana, in cui l’albergo era sottosopra, Don Stefano offriva, gratis, ospitalità ai giovanotti di 17-18 anni di età, suoi amici e parrocchiani (fra questi c’era anche il sottoscritto).
Unica condizione: adattarsi a dormire per terra o, al massimo, sulle tavolate della… sala cosiddetta da pranzo!
Neanche una coperta, perché anche quelle erano in… lavaggio!
Ma dormivamo vestiti!
I più “forti” (prepotenti) dormivano al piano nobile (il legno dei tavolati su cui si mangiava): i più arrendevoli e timidi, dormivano sdraiati sotto i tavoli sul nudo pavimento.
Niente lenzuola, federe, materassi, perché venivano lavati, stesi al sole per asciugarsi, disinfettati e stirati.
Ma, in guerra, avevamo dormito per sei mesi sulla terra nuda e sempre vestiti, quindi anche un… tavolato era una signorile e confortevole sistemazione!
Mangiare ce n’era a volontà: era in corso il Piano Marshall (l’ERP: European Recovery Program per la “Ripresa Europea”), la cuoca era… romagnola e, in quanto a noi, l’appetito non mancava di sicuro!)
Don Stefano diceva, scherzando: “Mi fate fuori più viveri voi, dei ragazzi della colonia”.
Carenti i servizi igienici perché anche loro in… disinfestazione: ma per questo c’era il torrente Sesto che lambiva l’albergo.
Ci lavavamo a torso nudo, in mutande, la barba (e sì… cominciava il problema della barba!) veniva fatta con l’acqua del torrente.
Ma anche questo era un… lusso: avevamo, addirittura l’acqua corrente… del torrente Sesto!
Fino a poco tempo prima, e per sei lunghi mesi, non ci eravamo né spogliati e né lavati!
Lì, tutti i giorni, facevamo il “bagno” nelle gelide acque del torrente e, sinceramente, era un simpatico diversivo quella lavata perché era un motivo per fare divertenti scherzi (anche pesanti) come fossimo ancora ragazzini.
E, diciamo la verità era un bagno salutare: oggi si chiama idromassaggio, (se vogliamo essere più raffinati chiamiamolo con il termine attuale di massoterapia) e cioè quel “massaggio” provocato sfruttando la pressione dell’acqua corrente.
Lì, il Sesto, era una ampia… vasca naturale, con un solo difetto: non aveva il rubinetto per regolare l’… acqua calda!
E poi, fatta colazione, via di corsa verso le montagne fino a sera inoltrata.
Ricordo che andavamo (salendo di corsa!) a prendere il caffè al vecchio rifugio Hinterberger-Hutte, sul crinale austriaco.
I più anziani di Sesto ricorderanno quella sgangherata baracchetta in legno, pochi metri oltre il confine austriaco; oggi, ricostruito, a pochi metri di distanza, in muratura, con il nome di Rifugio Sillian.
Perché andavamo lassù a prendere il caffè? Un motivo… serio c’era!
Perché lassù servivano il grosser Brauner, il grosser Schwarzer o Melange Fiaker, una novità per noi abituati al semplice caffè (comunque, ben diversi da quelli gustati nelle caffetterie viennesi!)
Ridicolo – direte – fare tanta strada (in salita) per così poco, per noi abitanti del Paese dell’espresso (che si ritengono inventori del caffè per il… solo motivo che, nel 1901, un certo Luigi Bezzera, inventò la macchina del caffè espresso).
Ridicolo un… corno!
Innanzitutto eravamo giovani (e non è poco!) e le salite non ci impressionavano più di tanto e poi non era vero (e giusto) che noi usurpassimo una fama che non ci spettava.
In verità la fama e il primato spetta all’Austria perché il caffè fece la sua prima apparizione in Europa nel 1683, in una caffetteria viennese, dopo che l’esercito dei Turchi, sconfitti nella “battaglia di Vienna” e in fuga, abbandonarono numerosi sacchi contenenti degli strani chicchi, che erano per allora sconosciuti, ma erano, in realtà, chicchi di caffè, già conosciuto degli Arabi.
Altra considerazione: l’Impero Austro-Ungarico (e cioè il mondo europeo e cristiano) si estendeva fino ai confini con i territori “Ottomani” (mondo arabo e musulmano), quindi il commercio di quel prodotto divenne notevole.
(Possibile che debba fare tante precisazioni al lettore, appellarmi a fatti storici, per giustificare quelle sfrenate corse fin lassù? Le facevamo e basta! Ci piacevano le… Melange, toh!)
Scusate il tono faceto, ma erano veramente da… matti quelle sgroppate perdifiato!
Noi partivamo dalla zona ove si trova la recente cabinovia che parte da oltre Moso (precisamente dal Rifugio Pollaio Henn-Stoll) e, in linea diretta fra i boschi (era salita forte, ma non ce ne… accorgevamo!), di corsa, arrivavamo al rifugio.
L’ultimo che arrivava pagava il caffè per tutti (ma non sempre aveva il denaro sufficiente e allora bisognava tassarsi collettivamente, per pagare il conto: in scellini!)
Poi, discesa a rompicollo per il pranzo di mezzogiorno, per riprendere, di nuovo, al pomeriggio, l’attività sulle cime che circondano Sesto.
In albergo ci stavamo il tempo necessario ai pasti e per il dormire.
A diciassette anni si fa questo ed altro!
Per me, quelle galoppate, furono un ulteriore motivo per amare il mondo della montagna!
Ricordo che, una mattina, all’alba, partii da Moso e, a piedi, precorsi tutta la Val Fiscalina, imboccai la Val Sassovecchio (Altensteinertal), arrivai al rifugio Locatelli; lì, attraverso la forcella Lavaredo arrivai all’attuale rifugio Lavaredo (i più anziani ricorderanno che si chiamava, prima dell’incendio che lo distrusse: “Longeres Bruno” – Longanesi Bruno, lo chiamavo io per assonanza); da lì al rifugio Auronzo; discesa mozzafiato al Lago Misurina; da Misurina, per il Passo Tre Croci a Cortina d’Ampezzo.
Alle undici di mattina ero a Cortina.
Breve visita e poi il ritorno in treno (per sgranchirmi le… gambe, andai a piedi a Fiammes per non aspettare, un’ora, la partenza del treno da Cortina).
Allora c’era il famoso “treno delle Dolomiti” che da Calalzo arrivava a Dobbiaco.
Un tracciato da favola, specie in inverno.
Quel “trenino rosso” (aveva poche carrozze) si snodava fra rocce, boschi, laghi, in un panorama da sogno (ora è il percorso della classica sciistica Dobbiaco-Cortina).
Da Dobbiaco, con i mezzi pubblici arrivai alla sera, a Moso.
Continuai per anni, successivamente, a frequentare la zona.
Feci, addirittura, il… viaggio di nozze: da rifugio a rifugio!
Mi innamorai di quelle montagne e ne feci motivo per dar sfogo alla mia passione.
Ogni estate ero là a girovagare su quei monti.
Questo mi permise di farmi una certa esperienza dolomitica.
Posso anche affermare di aver visto nascere il turismo della zona.
Vorrei, a questo punto, narrare un episodio che potrà sembrare una amenità (e lo è!)
Ma mi è caro ricordarlo perché inquadrato in quel periodo.
Dicevo che Don Stefano aveva allestito questa colonia di ragazzi della sua Parrocchia.
Ho dichiarato anche che noi, giovanotti di diciassette anni, andavamo a passare circa una settimana, gratis, durante i lavori di pulizia fra un turno e l’altro.
Durante questo periodo, don Stefano, cercava diversivi per noi.
Era un discreto rocciatore e ci portava con lui in scalate di una certa difficoltà.
Praticamente, in quei giorni, era a nostra… disposizione.
Ci faceva visitare i luoghi più caratteristici dei dintorni.
Uno di questi diversivi consisteva anche nel portarci a mangiare le trote (Forelle, in tedesco) in un paesino vicino a Sillian, in Austria, e precisamente a… Forellenhof.
Dopo aver pranzato (naturalmente a base di trote) don Stefano spariva per un paio di ore.
Nessuno si chiedeva dove andasse.
Poi arrivava, ci caricava in auto (ci stavamo in tanti, ammucchiati!) e tornavamo a Sesto.
Naturalmente si doveva passare la frontiera Austria-Italia a Prato alla Drava e presentare il passaporto (allora ci voleva).
Don Stefano era ben conosciuto dai doganieri e spesso si fermava a parlare con loro.
Solita procedura: “Reverendo… nulla da dichiarare?”
“Nulla!”
“Erano buone le trote?” chiedevano i doganieri.
“Squisite!” era la sua immancabile risposta.
“E come le ha mangiate oggi?”
La risposta era varia: “alla birra”, “al forno”, “in padella” ma, il più delle volte era: “alla Dampfnudeln”, alla Tedesca.
Era un ghiottone di quel piatto.
E, spesso, si ricordava dei doganieri regalando loro un pacchetto con dentro trote fresche, spiegando anche certe ricette elaborate.
Una volta ero anch’io sull’auto di don Stefano, ma alla frontiera, il rituale risultò diverso.
Il poliziotto, con la paletta istituzionale, indicò di portare la macchina verso il garage della Polizia.
Ci fecero scendere e misero l’auto sul ponte sollevatore.
Sorpresa!
Sotto l’auto c’era un doppio fondo e il doppio fondo… era stracarico di carne bovina!
Ecco dove andava in quelle due ore di assenza!
“E questa cos’è?” chiese il funzionario della dogana.
“Carne…” rispose serafico don Stefano.
”La vedo! Ma la carne austriaca non si può importare in Italia, lo sa, vero?”
“Lo so! Ma cosa do da mangiare a questi bambini?” e indicò noi, come bambini (pezzi di “marcantoni” dalla taglia più adatta ai serventi dei pezzi di artiglieria da montagna).
“In Italia è difficile reperire carne in questo momento e poi costa molto più cara che in Austria… quindi…” cercò di giustificarsi don Stefano.
“Lo so… lo so… ma lei Reverendo, in questi ultimi tempi, va troppo spesso a mangiar… trote, mi capisce?” ribatté bonariamente il funzionario.
Don Stefano (un simpatico volpone) prese la palla al balzo: “Lei dice che dovrei mangiare meno pesce? Più di rado le trote?”
“E sì! Proprio così! Potremmo avere anche noi dei guai! Non possiamo sempre far finta di non vedere!”
“Perché voi…”
Don Stefano non finì la frase.
“Certo! Lo abbiamo sempre saputo… ma sappiamo anche che non lo fa per lucro… che fa del bene a molti ragazzi… e allora abbiamo sempre “chiuso un occhio”… Reverendo… non dico di smettere di mangiare il pesce… il pesce fa bene… veda… veda solo di non aumentare le sue visite a Forellenhof…”
“Va bene solo il venerdì? Giorno di magro?” ribattè il prete (fintamente mortificato).
“Ecco! Facciamo il venerdì,… il venerdì va benissimo!” sorrise il “doganiere”.
“Ci vediamo venerdì…” concluse don Stefano.
Il funzionario scosse il capo bonariamente.
Povero don Stefano!
Era un furbacchione (nel senso buono della parola) generoso.
Lui non guardava il colore degli occhi dei gatti, purché pigliassero i… topi.
Dopo aver dedicato molti anni della sua vita ai ragazzi, è morto, missionario, in Amazzonia!
Scusate questa parentesi che ho voluto dedicare alla marachella di don Stefano.
Poi, a ventiquattro anni, per ragioni di lavoro, io fui trasferito a Milano.
La mia passione per la montagna non si spense, anzi!
Solo che erano molto più vicine le Alpi Occidentali: i massicci del Monte Bianco e quello del Monte Rosa erano a meno di due ore di macchina.
Si dice, e non a torto, che “non tutti i mali vengono per nuocere”.
Era venuto il momento per incontrare questo nuovo tipo di montagna.
Era venuto il momento di conoscere i… crepacci!
Ma volevo studiare questo nuovo mondo.
Incominciai col segregarmi per venti giorni su un rifugio del Monte Bianco.
Il luogo del ritiro… spirituale era a circa dieci chilometri da Courmayeur, in Val Veny e precisamente il Rifugio Elisabetta (2.195 m. di altitudine) sul Col de la Seigne, al confine con la Francia (quello dove, si presume passò Annibale coi suoi elefanti per invadere l’Italia degli antichi Romani).
Il rifugio è inserito nel massiccio del Monte Bianco, con vista meravigliosa su l’Aguille Noir de Peterex e il bacino de la Lex Blanche.
Scopo dell’eremitaggio?
Saggiare da vicino le possibilità di arrampicata sul… mondo del ghiaccio.
Brevi puntate di… assaggio sulle vette del massiccio del Monte Bianco.
Trovai quel… mondo interessante, anche se difficile.
Incominciai a prendere in considerazione l’ipotesi di frequentare le Alpi Occidentali.
Una aspirazione infantile che poteva avverarsi: l’incontro con il mondo del… ghiaccio!
Incominciai a praticare queste nuove montagne e riuscii così a soddisfare i miei desideri: feci la conoscenza col… ghiaccio e conobbi, finalmente, i… crepacci!
Courmayeur (Monte Bianco) e Gressoney la Trinitè (Monte Rosa) furono le mie mete preferite per dar sfogo al mio innato desiderio di salire su quelle alte cime che vedevo bianche di neve.
Volevo provare l’emozione di salire oltre i 4.500 metri di quota, ma non avevo l’esperienza necessaria per affrontare questo nuovo tipo di montagna che, sinceramente, mi affascinava come mi avevano attratto le meravigliose guglie dolomitiche.
Incominciai, naturalmente, da capo e con… umiltà!
La mia esperienza dolomitica mi dava una certa sicurezza sui problemi inerenti la montagna, ma era lacunosa in fatto di altitudine e di tenuta alla distanza.
Avrei sofferto il mal di montagna a una certa altitudine?
Avrei sopportato una fatica enorme per tre giorni consecutivi?
Avrei resistito alla sete?
Domande alle quali potevo rispondere solo col… provare.
Fu necessario un periodo di… apprendistato.
Incominciai ad allenarmi sulle distanze e sulla durata della marcia (minimo: 20 chilometri) e ad abituarmi all’altezza (dai 3.000 metri in su).
Cercai, con degli artifici, (limoni, pompelmi) di abituarmi a vincere la sete che ti opprime a certe altezze.
La borraccia ti è necessaria a quelle altitudini, perché la gola ti arde e hai bisogno di liquidi.
Ma c’è un problema serio: che il contenuto diventi ghiaccio e non esca dall’apertura.
Allora ti viene in mente la decisione di Diogene il cinico (era proprio… cinico!) che ci tramanda: “Ho buttato via la borraccia quando ho visto un bambino bere con le mani direttamente alla fonte!”
Sì… è bello… poetico, caro Diogene: ma se non hai la fonte (tutto ghiaccio!) ti servono poco le sole mani!
Quindi, dovevo allenarmi a… soffrire la sete!
Alla domenica partivo prestissimo, all’alba, da Milano per arrivare ad avere una giornata intera a disposizione.
Allenamenti estenuanti e in… solitaria (non è facile trovare compagni che ti aiutino in allenamento (e poi non li volevo).
Ho allegato al libro alcune foto-ricordo di questi stressanti allenamenti.
Le foto le allego come ricordo dei miei primi approcci con il mondo della… neve! (foto 1 e 2).
Queste foto le guardo con nostalgico interesse, perché mi ricordano con quanta meticolosità e puntiglio ho affrontato questo nuovo problema.
Avevo sentito dire che, in queste montagne, occorreva una nuova percezione.
Dovevo capire cosa significava questo nuovo approccio, indispensabile al genere di monti.
Se ci spostiamo dalla città alla montagna, dobbiamo renderci conto che entriamo in un altro habitat che richiede un diverso comportamento, se non altro ambientale.
Se ci spostiamo in un luogo che prevede variazioni di altitudine dai 1.500 ai 3.000 metri, dovremo adeguarci a questo cambiamento.
Se, invece, il luogo presume oscillazioni fra i 1.500 e i 4.500 metri, l’adattamento deve essere diverso.
Ma qui, non c’era solo una questione di… altezze: c’era un contesto diverso di avvicinamento, di impostazione, di metodologia con la montagna: dalla roccia al ghiaccio!
Salire su una parete rocciosa è arrampicata, ma scalare una vetta del massiccio del Monte Bianco o del Monte Rosa è vero e proprio alpinismo, in quanto richiede di salire una montagna usando l’abilità di arrampicata su roccia e arrampicata su ghiaccio con annesse le complicazioni di sopravvivenza prolungata, l’adattamento all’ambiente, una resistenza di parecchi giorni.
Gli stimoli della scalata erano, evidentemente, numerosi e molto vari, come le difficoltà.
Quindi, per aumentare il mio livello di intuizione e conoscenza, dovevo focalizzare la mia attenzione su ciò che mi circondava, ossia la natura e studiarla a fondo.
Era necessario mettere a fuoco i propri sensi allenandoli ed esercitandoli ad osservare, per poter prendere decisioni improvvise e rapide.
Dovevo conoscere certe situazioni climatiche: il limite delle nevi; l’altitudine alla quale la neve resta perennemente al suolo; dovevo sensibilizzarmi alle temperature di alte quote, per intuire quando l’acqua si sarebbe trasformata in neve oppure in cristalli di ghiaccio; le correnti apportatrici di nuvole; le possibili escursioni termiche per evitare valanghe o slavine, trovare ripari sicuri.
In altre parole dovevo apprendere il concetto del “Rysky shift effect” tendente a prendere decisioni audaci, qualora avessi avuto la responsabilità di una cordata.
Pe questo mi allenavo.
Le fotografie 1 e 2 mi trovano impegnato in questa operazione di… avvicinamento.
Presumo che l’altitudine, dove sono ripreso dalle foto, possa stabilirsi sui 3.200 metri.
Mi allenavo con entusiasmo e guardavo le alte cime con impazienza.
Ero (e sono) puntiglioso, ma molto meticoloso in fatto di… preparazione.
Quando sentii che l’allenamento incominciava a dare i suoi frutti, decisi di fare il… salto: tentare di scalare le montagne delle Alpi Occidentali.
La foto 3 mi raffigura oltre i 3.500 metri: ero allenato perfettamente e, finalmente, mi sentivo pronto ad intraprendere la nuova avventura su quelle montagne.
Fu, quella, la prima scalata sul… ghiaccio!
La ricorderò sempre perché fu abbastanza impegnativa se non addirittura drammatica e poi fu la prima volta che scoprii quel mondo, ai più, sconosciuto (un vero peccato!)
È una delle meraviglie del Creato!
Ed ecco ritornare al titolo di questo scritto: la mia “prima” sul ghiaccio!
[continua]
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