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Chronos Poesie e dintorni
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In copertina: «Genesi» pastello su carta dell’autore
All’interno illustrazioni dell’autore
Prefazione
Nella sua presentazione al libro, Carlo Antonio Bertòlo offre una panoramica del suo modo di “intendere” il significato più profondo del desiderio di esprimere le proprie emozioni, di riportare le pulsioni, di avvolgere le manifestazioni dell’esistenza con il velo aureo della poesia: dalle sue riflessioni si evince chiaramente che non ricerca consenso da parte di alcuno, che poco contano eventuali giudizi da parte di critici letterari che possono riscontrare valenza positiva o carenza negativa.
Quindi, con onestà intellettuale, ho letto le sue poesie con l’intenzione di capire ciò che l’Autore “vuole comunicare”. Con passione mi sono addentrato nei componimenti di Carlo Antonio Bertòlo e cercherò di “esprimere al meglio” il suo intendimento, strettamente collegato al cosmo poetico che lo accompagna.
Io sono un fautore della necessità che un autore, sia egli più vicino alla narrativa o alla poesia poco importa, debba avere la “consapevolezza di sé”: muoversi con discrezione, tenere lontana l’arroganza e scrivere avendo sempre presente la substantia.
La narrazione poetica è importante. Raccontare la propria vita, miscellanea di esperienze ed emozioni, in prosa o in poesia, si può fare in molti modi. Ciò che conta è essere onesti e genuini.
Ecco perché mi fa piacere che Carlo Antonio Bertòlo si definisca “estroso” e che rifugga dall’essere “ambizioso ed altezzoso”.
La silloge di poesie “Chronos” è quindi specchio fedele dell’animus del poeta: il desiderio di riportare, sic et simpliciter, il suo universo emozionale, le contraddizioni dell’esistere, il senso d’inquietudine che può assalire, la constatazione che il Tempo scorre inesorabile ed è fondamentale cercare di salvare ciò che merita essere salvato.
Il fluire inesorabile del Tempo accompagna l’Uomo, il mito di Crono che divora i suoi figli, come a ristabilire l’ordine fondamentale delle cose, l’immodificabile ciclo della vita che nessuno può fermare: ecco allora che “il tempo compone la vita” e, Carlo Antonio Bertòlo, sottolinea, chiaramente, come le tessere del mosaico esistenziale vengano scomposte e, poi, ricomposte, in un continuo alternarsi di momenti vitali, tentando di combattere il “grigiore della vita” e di preservare i “ricordi” che assumono un ruolo fondamentale.
Carlo Antonio Bertòlo porta con sé la forte consapevolezza del significato autentico del “vivere” e, con la sua poesia, tende a innalzare a dimensione più elevata “la fiaba del tempo nascosta nel cuore”: la presenza del sentimento d’amore è colonna portante nella vita dell’Uomo che, altrimenti, sarebbe “nulla”: involucro che si muove in una vita arida, tra mille tribolazioni e navigazioni, inseguendo “rotte” che condurranno a sogni infranti, a illusioni e speranze tradite.
Ecco allora che, attraverso le poesie di Carlo Antonio Bertòlo, ci si può muovere tra le “galassie”, sognare un passaggio nelle “grotte delle fate” che conduca ad altra dimensione, inoltrarsi in un’atmosfera di sospensione, come a “cercar di svelare il mistero” e lambire i confini dell’Universo pur restando nella propria mente.
La Parola di Carlo Antonio Bertòlo non è mai banale ma tende ad una ricercatezza espressiva con numerosi riferimenti classici e mitologici, come a scandagliare nel Tempo concesso all’Uomo tutto ciò che è servito per attenuare il “senso di smarrimento” davanti all’inconoscibile.
Come viandante in questa vita terrena, Carlo Antonio Bertòlo desidera “coltivare la poesia” con un “lavoro da certosino” e scandagliare il suo cuore, seguendo la necessità di raccontare il proprio vissuto e considerare la vita come un “dono”: possibilità di lasciare una traccia di sé, oltre il Tempo che scandisce la finitezza dell’Uomo.
In ultimo, v’è da ricordare che la seconda sezione del libro, dal titolo “Lana caprina”, comprende alcune satire, aforismi, filippiche ed epigrammi: lascio al lettore la curiosità di scoprirvi fulminee illuminazioni sulla vita.
Massimo Barile
Antifona
La frase rubata a Platone, che apre la finestra sul mondo poetico di questa raccolta, è l’avola del detto popolare: fra il genio e la pazzia non v’è che un passo. Il tutto pare scientificamente dimostrato (oggi) e confermato dalla psicologia e dalla psichiatria. Per poter essere artisti bisogna essere border line. Essere cioè in equilibrio precario sul crinale della presunta sanità mentale: in bilico tra il precipitare sul versante della psicosi endogena pura oppure lo scivolare in quello della banale normalità. Se vogliamo fare degli esempi pratici potremmo considerare la differenza tra una Merini e un imbrattacarte qualsiasi con la velleità della poesia.
Sarà poi vero? D’accordo che la saggezza popolare è dettata da secoli d’esperienza pratica, ma è anche vero che ha un proverbio per ogni occasione. È cioè un “Taia e medega”, una mutanda per tutti i culi.
Credo che ad ogni buon positivista che conosca quanto precarie e mutevoli siano le verità scientifiche, il beneficio del dubbio possa essergli concesso.
Qualsiasi “Manifesto” uccide l’individualità
dell’arte tranne che per il suo ideatore
Parlare di qualcosa di mio m’ha sempre messo a disagio, figuriamoci quando si tratta d’un mio libro.
Lo fu per il romanzo: “I Notturni di Ralco”, come anche per “Juvenilia”, tanto che ne scaricai la patata agli editori, e lo è nondimeno per “Chronos”. Tuttavia credo sia giusta aspirazione d’ogni lettore sapere quale dinamica motivi un autore a prendere in mano carta e penna e a svestirsi davanti a un pubblico anonimo, proprio come una meretrice. Solo che è molto più facile e spontaneo spogliare il corpo che l’anima.
Il denudarsi è di per sé un atto esibizionista e forse per questo le coppie preferiscono delegare l’incombenza al partner, anche perché tutto diventa più erotico ed eccitante. Ma prima che autore e lettore diventino metaforicamente coppia, accade che critico e autore siano una coppia.
Il partner primario dedito a questa funzione di spogliatore dell’autore è indubbiamente il critico, ma il rapporto che ne deriva lo definirei di coppia siciliana classica, nella quale la figura del marito forte, padre padrone (il critico) si fa valere perché: “Mascolo sogno!” e la figura femminile debole (l’autore) risponde sottomessa: “Eccomi caro, sì, è proprio come tu dici!”
Tutto dipende dall’empatia o dall’antipatia. Emblematico mi pare l’esempio della grande Alda Merini tenuta in congelatore per più di mezzo secolo dagli stessi critici che l’apprezzarono fin dal primo verso che scrisse, ma che scongelarono solamente alla fine, quando la sua figura fece audience, dando lustro più a loro, lune illuminate, che non alla fonte stessa della luce: il sole Merini. Per questo non disdegno cominciare in forma anomala citando uno stralcio di commento all’introduzione dell’opera omnia della Merini (Il suono dell’ombra) fatto dal curatore dell’opera stessa: A.B. che così si esprime:
“Il Ladro Giuseppe è l’unica testimonianza di prosa creativa di Alda Merini e ne evidenzia la capacità di organizzare architetture narrative”.
Pare che questo non c’entri con “Chronos” e la prefazione critica di chi ne avrà l’onere, ma quel che m’ha colpito è quell’“architetture narrative” che paiono far credere non siano solo inscindibili dalla creatività come struttura portante, com’è giusto che sia, ma anche determinanti la creatività stessa. Che significa?
Forse che la narrativa sia solo finzione avulsa da ogni legame con la realtà?
Qualcosa che per essere “letterario” debba necessariamente essere un artefatto eretto entro i canoni d’un progetto rigorosamente predisegnato e dettagliato?
O che l’autore sia solo un giocoliere di parole?
Il dipanarsi della vita sembra proprio un artefatto architettonico?
Può darsi che sia così, ma allora ne saremmo solo il “magütt o tutt’al più il muratore” perché il progettista semmai è “Colui che muove il cielo e l’altre stelle”
Non amo chi si fa giudice di colui che, seguendo in maniera apparentemente consapevole il succedersi di eventi interiori, attua un progetto che crede sia suo di prim’attore sul palcoscenico del mondo, di cui in realtà è solo strumento: comparsa, come goccia d’acqua nel fiume, (intendo l’autore). Provenga dalla sorgente o dalle nuvole, non sarà il critico a decidere dove andrà a sfociare o come ci andrà, col preciso intento d’incanalarne il successo o l’insuccesso, o peggio di farne materia prima per il proprio successo. L’influenza del giudizio critico sarà sempre e solo temporale. Credo che prima dell’esaltazione o della stroncatura d’un autore, il critico debba rispettarne il lavoro, la serietà e soprattutto l’onestà.
Mi sta bene ch’egli vi si specchi come ogni lettore; che sappia esprimere meglio degli altri le proprie emozioni e risonanze che l’autore suscita in lui e che le interpreti secondo il proprio sentire, ma vorrei che non dimenticasse l’ineluttabile diversità di chi legge da chi scrive.
L’opera, mentre si concretizza in “verbum” che esce dalla penna, è specchio dell’autore, ma nel momento stesso che viene sfiorata dagli occhi del lettore cessa d’essere tale per diventare specchio del lettore, cioè un’altra cosa!
Narrare in prosa o in poesia è il tentativo di comunicare agli altri la vita: vista o vissuta, sognata o sofferta, desiderata o subita, ma mai costruita con le proprie mani né dalla propria mente che, più meschina di quanto uno s’ immagini, segue solo associazioni consuetudinarie secondo criteri, omologati dai più, (chiamati logica) di cose acquisite preesistenti allo scrivere. Essa allinea, sovrappone e mescola i mattoni di conoscenze, emozioni, sensazioni e con le parole le struttura in pensiero; sono nozioni immagazzinate caoticamente lungo il fluire del Chronos, ma questo è un patrimonio soggettivo, privo d’una membrana semantica rigida, identica per tutti.
“Organizzare architetture narrative…!?”
Molto cerebrale, anzi, cerebrotica questa opinione!
Perché non sarebbe arte l’esprimere quel che sei nel momento in cui sei con gli strumenti che hai, senza le pastoie di schemi precostituiti?
Essere diverso dall’attimo che segue? Magari banale, scucito, a brandelli, dilaniato o trasfigurato ed etereo o sublimato nell’infinito. Che differenza fa?
Perché il critico vuole che tutto abbia un senso, una trama, un’impalcatura, uno svolgimento; che tutto sia logico, strutturato e consequenziale come contenitore assoluto della creatività e che da quello dipenda?
Gli attimi si susseguono ed emergono dalla palude della vita come bollicine d’aria che galleggiano dopo essersi staccate dall’inconscio.
Guardiamo alla narrazione prosastica o poetica per quella che è: racconto di vita che può piacere o meno a seconda che in esso ci si riconosca in tutto, in parte o in nulla, ma che non muta la sua essenza di specchio in cui ci riflettiamo e, consciamente o meno, osserviamo l’immagine occulta e manifesta di noi stessi: quel che siamo, crediamo di essere o temiamo di essere.
La narrazione non è un artefatto, è solamente il nostro sottile, ingenuo e fragile filo d’Arianna: veicolo che, stazionando pressso i lettori destinatari, trasmette il nostro sentire ad altri compartecipi (che ne captano solo le affinità) dandoci l’illusoria sicurezza della continuità di vivere oltre la soglia dell’infinito; anche se può sembrare l’immagine occulta della vanità e perché no?… del narcisismo.
Certo che per dar vita artistica al proprio sentire sia indispensabile conoscere lo strumento linguaggio, come per il Cellini lo fu il cesello, ma per l’artista quelle che il critico chiama architetture sono progetti ed impalcature raziocinate, non polle sorgive. Sono gli strumenti comuni anche al capomastro, dalle cui mani uscirà una costruzione, ma non un’opera d’arte.
Se per il critico l’impalcatura assume un’importanza preponderante, non ama l’arte, ma l’artificio.
L’autore
Premetto che non credo a “Manifesti”,
a scuole d’arte, schemi e teorie.
Vorrei mi giudicassero un estroso,
ma rifuggo dall’essere ambizioso,
brillante ed ampolloso,
esteta ed altezzoso,
istrione vanitoso
come lo fu D’Annunzio
’sì bravo e ’sì borioso.
Non mi par proprio il caso
d’ostentare la puzza sotto il naso
anche se in fondo un poco di vetriolo
spargo qua e là per inquinare il suolo.
Valgo poco, lo so, perciò allo specchio
mi guardo e vedo che son vecchio,
ma è tardi, amico, e proprio non mi pare
ch’io possa in qualche modo rimediare.
Chronos non ha pietà, vuol governare,
impor con assoluta autorità
pure il sentier che devo calpestare.
Accettami così,
con luci ed ombre come quando è sera,
non come sol che splende a mezzodì.
Di quel che scrissi
qualcosa mi par bello,
altro non so. D’interpretare
a te lascio il fardello.
Ogni medaglia ha un dritto ed un rovescio:
il bello e il brutto a braccetto insieme,
come due gay che passeggian piano
lungo la via tenendosi per mano,
ma senza l’uno, l’altro non sussiste
e per la gente proprio non esiste.
Il bello o il brutto, qual dei due l’erede?
Ognuno scelga come meglio crede.
Il cantastorie chiude il suo corbello,
sorride a tutti, anche all’ironia
come all’applauso dell’ipocrisia.
L’autore
Chronos Poesie e dintorni
Stalattiti di ghiaccio
Baluginava l’Atitlan al sole
d’eterna primavera tropicale
sul rassegnato sospirar dell’uomo.
Stagliavasi sul grigio della roccia,
come inchiodata al buco d’un dirupo
cariatide intagliata d’ombra umana,
immobile, in estasi perduta.
Regger pareva stanchezze infinite
poste sul dorso scosceso del monte.
Dardi di fuoco sprizzava l’ovale
bucando il cuore bastardo del mondo:
eran lo sguardo d’un’ombra irreale.
Come stalattiti, d’ambra sfumate,
rade cortine canute dal tempo
vedea fluire sul petto villoso,
dal luccicare d’un mento bavoso
appeso a un teschio immobile, assorto.
All’estremità di esili braccia
ossute mani distali stringevano
consunti femori come bastoni
crociati sotto glutei di fachiro
avvolti dentro pietosa corteccia
di stanca pelle grinzita e rugosa.
Forma spettrale, visione angosciosa
è il bruco per l’indio, vate per me,
santone di novie, di vecchi e di cose,
di vite corrose, d’anime ansiose.
Che terra è mai questa priva d’amore?
terra di vento, di ghiaccio sul cuore
casa dell’uomo che trema sconvolta,
da una visione di vita distorta.
Si nasce, si vive e dopo si muore,
nulla rimane se ignori l’amore.
Navighi e vivi tra rotte e derive
con bussole strane, sogni e panzane;
cammini così brandendo il bordone
pur senza una meta, senza un portone
vagando in deserti d’aridi soli;
un giorno ti fermi e ignoto t’involi,
in cerca di che? … Del sogno ch’è in te.
5 gennaio 2011
Nella grotta delle fate
Quel sogno sul fondo del tunnel,
quel sole. Non trovo parole!
Galassie fra curve di spazio
annullano il tempo, lambiscon
estremi confini e apron
pertugi di nuovi Universi.
Distruggon pensieri perversi.
Esistono strade ben oltre
le nostre passioni: son nuove
dimensioni, mondi futuri
di là della soglia ferale.
Fiorisce la cupola astrale
di luci, di fuochi, ti schiude
cunicoli vuoti che attendon
la fossile orma dell’uomo.
Espresso ha nel culto di Mithra,
con l’ansia, il mistero del credo,
di ciò che anch’io sento e non vedo:
un antro, una voce, un languore,
un’ombra che vela la brace,
bagliore d’un mondo che tace
la luce di tanto splendore.
Fantasmi ancestrali di pace.
Un raggio di sole ti rompe
la notte e infuoca l’altare.
Ignude vestali ti prendon
per mano, ma nulla nel palmo
rimane. Sorridono … è strano!
Ma quella è la porta che t’apre
la via s’un mondo di pace
al dire di chi non l’ignora,
ma tosto si chiude a chi tace.
Si apre e si schiude un istante
a ognuno che vive, sia ora
che per ogni secolo ancora.
18 febbraio 2011
Favole e fiabe recondite
Cristalli di ghiaccio sui fili dell’erba:
perline iridate al sol del mattino.
Freddo sidereo calato sul cuore.
Un’Alba di luce conduce per mano l’Aurora.
La notte depone il nero mantello,
si veste di diafano azzurro, di cielo invernale.
Il disco del sole compare laggiù all’orizzonte:
diffonde un bagliore che acceca improvviso.
Il tempo compone la vita
sgranando il rosario infinito dei giorni.
Sempre giovane il tempo, sempre bambino!…
Lascia ch’io passi le dita
fra i riccioli biondi dei cirri,
fra i riccioli neri dei nembi,
fra chiome di gocce filanti di pioggia e sorride.
Sorride e si beffa di me
giocando col lego d’istanti
che solo una volta io vivo.
Compone e scompone i tasselli
in mille cestelli, in cento giacigli,
capanne, sentieri…
pensieri d’un volto a plissé.
Le lenti rifrangon lo sguardo sul mondo che inganna.
Fittizia realtà, menzogna dei sensi,
vorresti colpire i ricordi,
ferirli, carpirli,
sei rondine a caccia d’insetti
e pigoli piano un richiamo.
Pascerti d’essi vorresti
come dolci babà per la tua senilità.
Vorresti inchiodarli agli infissi,
farne cardini alla porta della mente,
ma il cigolar dell’attrito ferisce,
richiama il disinganno.
Cerco nel parco ghiacciato dei vecchi
la mia tepida panchina.
Siedo all’ombra di rami già spogli:
scheletri di vita assopita.
Un vecchio ed un bimbo che passano piano;
si tengon per mano;
ripassano accanto e siedono a fianco.
Garrulo il bimbo poi chiede: “Cos’è?”
ed indica il pianto.
Il nonno sorride e tace il mistero,
conosce il segreto, non dice il perché
e l’ossuta sua mano accarezza la chioma.
Piange in silenzio,
nasconde il suo male che termina in …oma.
Seduto racconta:
“C’era una volta una bionda fanciulla di nome Chimera
che mi guardò con teneri occhi color di ciliegia.
Portava corone di rose e gialle farfalle
fra gale di piume, sorrisi e carezze di fiume.
Correva nel vento,
correva col vento, ma io la rincorsi.
Raggiunta che l’ebbi inciampai nel suo abito di sposa
e nacque tua madre.
Venne l’inverno e il fiore appassì.
Caddero poi anche gli occhi al ciliegio
quando il cucùlo il suo nido rapì.
Morto un amore un altro ne sorge …
ma lui non risorge.
Il Cristo soltanto è Amor che risorge,
il nostro rimane appeso a una croce
di legno di noce
che preme sul cuore
dal dì che si nasce a quel che si muore.
Altra fanciulla capelli di grano
mi prese la mano
Io scesi all’inferno.
Non vidi l’abisso,
ma un abito rosso di porpora e bisso.
Siam mostri evoluti, siam palpiti astratti
e il nostro è un esistere amorfo:
stato allelomorfo del tempo”.
Ascolto il racconto e tremo al raffronto.
Passo e ripasso la mia pergamena
di anima in pena,
di vecchio confuso, disperso, sommerso.
Il bimbo intristito
guarda suo nonno che piange e gli chiede perché,
che cosa rimpiange.
Risponde: “La fiaba del tempo nascosta nel cuore,
l’amore, la vita, la mia gioventù;
il pianto del cigno,
dei volti remoti,
il dolore dell’oggi,
il dolore che fu
e un canto goliardico che non odo più…”
No, non c’è pace in fondo agli anfratti,
nel chiuso silenzio profondo del cuore
negato al sorger dei soli futuri,
non sogni che copran le rughe del mondo,
le pieghe del volto,
il canuto scomposto,
il rumore discosto d’un treno che va.
E sogni.
Sogni che il sonno profondo ti colga sornione,
ti mieta la vita, pur senza ragione.
febbraio 2011
11 marzo 2011
Ascolta!…
Si stende sul mondo un silenzio irreale:
spalanca le porte a un giorno inuguale.
Qui tutto si tace, ma non nella quiete di pace.
Qualcosa è nell’aria che incombe:
angoscia sospesa che soffoca e opprime,
ne cerco le rime.
Mi chiedo perché, che cosa mi accade …
Cessato è lo strider dei grilli nel prato
e tace anche il coro del popolo alato.
Fugge il felino e si lancia all’aperto,
uggiola il cane inquieto e impaurito;
solo e lontano risponde un nitrito.
Mentre dell’uomo continua il concerto
concreto, frenetico, assurdo,
su strade d’asfalto e in palazzi di vetro.
Frastuoni, stridori, luci, bagliori,
fruscii e rumori d’un fine cornuto,
d’un tempo contorto, d’un mondo involuto
che tutto vorrebbe tradotto in moneta,
che sfrutta, calpesta, corrode il pianeta.
Vedo là fuori il cielo invernale,
il porto, il mare, le navi, il velame.
Il sole che splende mi par compiaciuto.
V’è quiete di tomba;
la lieve risacca accarezza la sponda.
Ecco, improvviso
un brivido arruffa il pelo del globo,
un urlo inumano che il cuore sconvolge,
che l’anima avvolge:
un fremito arcano,
un tremito insano che tutto travolge;
s’arresta, riprende più forte di prima,
continua, sconquassa, frantuma,
sgretola e spiana ogni opera umana.
Trema la Terra, si squarcia ribelle,
contorce i suoi seni, corruga la pelle,
increspa il suo mare,
ritrae la sua linfa vitale per l’ultimo sforzo:
il colpo di clava, l’assalto finale.
Poi l’onda abissale
si scaglia improvvisa sul genio del male;
appiana, distrugge, trascina, cancella
dell’uomo l’orgoglio, ne spegne la stella.
Osserva sconvolto, impreca impotente,
pallido, assente, contempla insipiente
la propria iattura
in giacca, cravatta e camicia di seta,
quest’uomo spocchioso che irride il pianeta.
Cadaveri e ruderi or narran la gloria
che traccia il cammino, che scrivon la storia
d’un dio ch’è mortale, impastato di boria.
Lassù, nella reggia di cumuli e nembi
si scioglie il Concilio, l’Olimpo si placa.
Giove ritrae il suo dardo di fuoco
e dice a Nettuno: “Riponi il tridente,
vediamo se l’uomo ritorna prudente”.
31 marzo 2011
Metacronos
Bianca strada perduta nel passato
che nei silenzi si snodava lenta
fra dei covoni e l’argin d’un fossato,
quanti momenti al cuore mi rammenta!
Lungo le sponde d’una vita brada
forse sensata, forse senza meta,
scendono a valle gocce di rugiada
e ognuna reca seco una cometa.
Dato m’aveva i suoi destrieri il Sole,
prestato a nolo il carro della vita,
l’aratro a stilo a dissodar parole:
zolle d’amore in terra inaridita.
Passati i giorni, i minuti, l’ore,
chiome corvine e bionde di fanciulle,
bocche brillanti turgide d’ardore,
occhi di bimbi, dondolar di culle,
or che gli autunni indorano le vette
e il giorno si colora di grigiore,
notti di quiete attendono solette
ricordi navigar senza calore.
Sopra il silenzio della mia magione
l’ombra dell’ala sul senile vanto
passa d’Amor che non è più passione:
solo dolcezza, tenerezza… incanto!…
07 maggio 2011
Pellegrino
Come viandante vai
poggiato sul bordone
cercando dei tuoi guai
l’inutile ragione.
Nessun lo disse mai,
neppur la religione,
per questo tu non sai
che: “Vita” è punizione.
12 maggio 2011
Mediterraneo
Partono bastimenti
non più napoletani.
Vengono dai deserti
stracarichi d’umani.
Son volti variopinti
dannati a morir soli
tra i flutti del Tirreno
o in campi di fagioli;
son torme di convinti,
son donne, son figlioli,
son sogni, son delirio,
son pelle per martirio.
Cercano una pepita,
una pepita d’oro
d’un nobile metallo
che chiamano “lavoro”.
Uomini disperati
che inseguono illusioni:
le fatue opulenze
delle televisioni.
Son uomini dispersi
scambiati per perversi.
Tu, Italia degli avversi,
terra di suonatori,
mafiosi e pomodori,
porto di clandestini
che niuno vuol vicini,
perché scordasti il cuore
dei tempi del vapore?
Quelli dei disperati
che furon gli emigrati?
E questo Mare Nostro
sì provvido e sì mostro
che canta il De Profundis,
poi torna a carezzare,
perché omnia munda mundis,
le spiagge d’oltremare,
le sabbie dei deserti?…
Gemono nenie antiche
Nereidi e prefiche:
sirene d’illusioni…
Sulle tragedie altrui
vegliano i faraglioni.
15 maggio 2011
Lago di Monate
Viviane del lago, per molti morgane,
per altri virago. Che favole strane!
I vecchi raccontan patetiche fole
di fate che salvano o annegan la prole,
ma sono racconti che hanno il sapore
d’oscuri tramonti, del vino l’odore.
Parole che nascon da pessimo umore
o forse nascondon l’oscuro dolore
di perdite ingiuste, di alghe insidiose,
di piaghe vetuste o d’alme accidiose
e mentre aspetti dai tempi perduti
sorgere mondi a te sconosciuti,
il cielo di sera, placido e arcano,
regala misteri e un sorriso profano.
16 giugno 2011
Poesia vincitrice del XIII concorso internazionale “Anteas”.
Contatore visite dal 22-05-2012: 3733. |
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