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In copertina: fotografia per gentile concessione dell’amico Anselmo Gabrielli
Pubblicazione realizzata con il contributo de Il Club degli autori in quanto l’autore è 2° classificato nella XI Edizione del Concorso Internazionale di poesia Olympia Città di Montegrotto Terme 2011
Introduzione dell’autore
Vi è forse qualcosa di più tragico e lacerante che perdere la libertà? Se vi è, senz’altro lo è perderla ingiustamente, avendo la consapevolezza di essere caduti in una trappola tesa dal destino di cui non ci si riesce a liberare se non a prezzo di grandi fatiche. Poi, quando riacquisti questa libertà che credevi ormai smarrita per sempre, ti accorgi che essa ti conduce verso un’altra strada a te ignota fino a quel momento. Non pensavi di percorrerla, ma ne senti l’irresistibile richiamo: il dolore, forse, rafforza nella capacità di amare, anche se per amare, naturalmente, non bisognerebbe di necessità passare dall’esperienza di una sofferenza. L’avvocato Asperti, attraverso questa storia prima felice, poi drammatica, poi pervasa da una felicità totalmente nuova, intende guidarci in questo affascinante itinerario da libertà a libertà, da una libertà appagante a una libertà negata a una che, alla fine, si ritrova arricchita tanto da desiderare porsi totalmente al servizio dei bisognosi. Io sono grato all’avvocato Asperti, che è un personaggio di fantasia ma esisteva come realtà definita da ben prima che io affidassi il tratteggio della sua figura alla mia povera penna. Ed esisteva come tentativo di esplorare la ricchezza infinita della libertà, una ricerca che non deve mai abbandonarci, soprattutto quando ne siamo privi. Libertà di conoscersi per conoscere, di amarsi per amare, di pensarsi per pensare, di dipingersi per dipingere. Asperti, durante il suo periodo di detenzione, sperimenta nuovi percorsi: scrive poesie, dipinge quadri, attività che mai si sarebbe neppure lontanamente immaginato di compiere quando era in libertà.
È un mondo che ha sempre avuto dentro, ma che emerge soltanto a un certo punto; forse, anche qui, a volte per sapere fin dove possiamo spingerci abbiamo bisogno di provare un dolore. O forse è il dolore a dilatare i confini della nostra libertà. Con il dolore scopriamo un dovere fondamentale che abbiamo verso noi stessi e la libertà; impiegarla in modo avveduto e responsabile e quindi non sprecarla per cose che non hanno la minima importanza. Non so, in tutta onestà, che sensazione si possa provare a essere incarcerati per un crimine che non si è commesso. Posso unicamente immaginare che sorga il desiderio di maledire tutto e tutti, almeno in prima battuta, poi però credo subentri piano piano l’impegno verso se stessi e il mondo a dimostrare la propria innocenza per fare capire che la libertà serve a fare crescere la società di cui si fa parte. La lotta è dura, anzi durissima. È la lotta da intraprendere in primo luogo verso chi non solo non ci crede, ma neppure compie il minimo sforzo per cercare di crederci. Salvo poi, come succede a Ghislanzoni, ravvedersi perché spunta la lampadina in fondo al cuore che ti fa dire: eh no, con tutto quello che si è vissuto insieme mi sembra davvero impossibile che questo mio amico, compagno di strada e collega di lavoro si sia macchiato di qualcosa di tanto orrendo.
So che negli ex detenuti in modo ingiusto alberga ovviamente il rimpianto per il fatto che nessuno restituirà loro gli anni persi in carcere. Ma all’avvocato Asperti non ho voluto fare dire questo; non perché non mi sia passato per la mente, bensì perché ho pensato a lui come a qualcuno che trasformasse in energia positiva verso il futuro e non in rimpianto verso il passato il suo periodo di detenzione.
Assurdo piangere sulla libertà che non si è potuto vivere, è togliere spazio a quella che si potrà ricominciare a vivere. Certo, è una libertà assai più indeterminata di prima, perché prima esistono affetti sicuri (la famiglia), un lavoro stabile e faticosamente conquistato, insomma, punti saldi di riferimento da cui la libertà può spiccare il volo, sicura che potrà sempre disporre di un nido verso il quale fare ritorno. Dopo la detenzione no, tutto cambia: la libertà riappare, affascinante, forse maledetta nella sua indeterminatezza ma sempre pronta a farsi vivere, a lasciarsi di nuovo restringere per ritrovare essa stessa un senso, il suo stesso nome. È una libertà che ci chiama a costruire un nido nuovo cui potremo ritornare sempre per spiccare da esso voli nuovi. E con la sicurezza che il volo, dopo avere sperimentato l’ingiusta privazione dell’essere liberi, ci spaventa meno. Un’altra chiave di interpretazione che vorrei donare a chi mi farà l’onore di leggere queste pagine è il rapporto tra arte e libertà; durante la premiazione di un concorso di poesia cui presi parte anni fa, sentii uno degli esponenti della giuria pronunciare queste parole, “la poesia come occasione di riscatto sociale”. Già, qui, per l’avvocato Asperti non vi è solo la poesia, vi sono la pittura e il diario.
È incredibile come la sofferenza ci sappia far estrarre dalla nostra anima la parte di arte che, nascosta, regna in noi; silenziosa, discreta, in fondo gemente perché non le si concede l’occasione di affiorare con tutta la sua compiutezza, in fondo con quella sua ambivalenza di lacerazione e felicità. L’arte ti fa comprendere, in situazioni come queste, che esiste la possibilità di dare un volto definito al dolore, al vuoto che si ha dentro; cerchi questa possibilità in altre parole, altri simboli, forse nell’assenza di pensieri e ti trovi a ricavarla da te stesso.
E con l’arte la libertà si riappropria della dignità del suo volo, comprende che non vi sarà ramo appuntito, pallottola di cacciatore, rete in cui potrà restare impigliata, in cui si lascerà impigliare. L’arte le dice che ha ancora un futuro. E le insegna a valorizzare il passato ancorché tragico e incomprensibile. L’avvocato Asperti abbraccia l’arte in carcere, aiutato anche da Guglielmo, con la salda consapevolezza che essa lo libera dalle catene della solitudine. Con l’arte raddoppiamo noi stessi, e non possiamo essere soli. Mai.
Vorrei spendere qualche parola sul personaggio di Guglielmo: quando parla della sofferenza, prima di tutto, lo fa con profonda cognizione di causa; lui ha toccato il fondo ed è risalito, proprio come farà l’avvocato Asperti. Avrei potuto disegnare comodamente la figura di una guardia carceraria sorda a qualunque grido di richiamo di attenzione di qualsiasi detenuto. L’ho fatto solo per un breve tratto con il personaggio di Ambrogio “Hitler” ma non gli ho dedicato volutamente molto spazio perché gradisco maggiormente evidenziare i personaggi positivi. Io non concepisco e mai concepirò una guardia carceraria priva di cuore. Intanto non la chiamerei secondino. Gli agenti di polizia penitenziaria sanno intercettare il dolore e lo scalpitare delle anime degli innocenti che stanno in galera meglio di chiunque altro; sarà magari la professione che svolgono a permettere loro di possedere questo “privilegio”, ma le cose, a mio modesto avviso, stanno proprio in questi termini. Certo, non tutte sanno o desiderano farlo ma qualcuna di esse, ne sono persuaso, certamente sì.
Questo piccolo volume mira a spiegare in fondo un concetto assai semplice: che una risalita, per quanto grande sia stato il baratro in cui ci si è trovati, è sempre possibile. Anzi, doverosa.
È il senso di una rinascita che acquista senso non soltanto per te stesso ma anche, soprattutto per chi ti circonda. Se quando la si vive normalmente spesso è un cavallo imbizzarrito difficile da domare, e ho in mente, nell’affermare questo, l’ottimo volume di Erich Fromm “Fuga dalla libertà” in cui si affermava che se ne ha talmente tanta da non saperla più usare correttamente, quando si è passati da una sofferenza, la libertà non è più indomabile. Comprendi che essa può essere tenuta sotto controllo perché ne capisci maggiormente l’importanza. Lungi da me il tessere un elogio del soffrire, ma ne recupererei la valenza terapeutica ed esistenziale.
Se il soffrire esiste, esso è una parte ineliminabile e ineludibile della nostra vita che in qualche modo ci provoca, ci chiama. Ci scuote nel fondo le certezze, si fa esso stesso certezza ma come invito a cercare ancora la luce. Il dolore, in fondo, non è altro che luce che chiede di essere fatta brillare per diventare vita nuova, è un esistere che si insinua nell’uomo ma per esserne cancellato, non per cancellarlo. Il dolore, poi, frantuma le apparenze. Non vi è una sovrastruttura di realtà, ma la realtà stessa da affrontare; la felicità è qualcosa che attiene alla sfera soggettiva perché ognuno ha una propria misura d’aspettativa in questo caso, influenzata da variabili culturali, psicologiche, etiche, sociali e, diciamo pure, anche economiche; il dolore, invece, è lo stesso per tutti, certo appare in mille manifestazioni ma non vi è uomo che da esso non passi. Viverlo senza scorciatoie diventa capirlo, capirlo diventa conviverci fino alla gioia appagante e suprema di essere riusciti a liberarsene. Ringraziandolo per esserci stato. Ecco, praticamente tutti ci dimentichiamo di ringraziare il dolore.
È un paradosso, certo, secondo la logica imperante. Come si fa a rendere grazie a qualcosa che arriva a stritolarti l’anima, fino quasi a non fartela sentire o fino a farti maledire di possederne una? Eppure è esattamente quanto dobbiamo educarci a fare.
Non è mio compito scrivere un trattato sul dolore, non ne sarei neppure capace. E questo libro, evidentemente, non intende essere nulla del genere. Ma se il dolore ci insegna a valutare quanto siamo e possediamo per superarlo, ci consente di andare oltre ciò che siamo, di padroneggiarlo e padroneggiarci sempre meglio, qualche ringraziamento gli sarà pure dovuto.
Non si tratta di cercarlo, ma di valorizzarne la presenza quando esso si manifesta in noi. L’avvocato Asperti non lo cerca, non è logicamente un malato di masochismo. Se lo trova davanti ma riesce piano piano, e non senza fatica, a rielaborarlo, a dargli un volto definito, a lasciarselo raffigurato in immagini, poesie e parole, perché anche l’arte è, come si è detto, al servizio della battaglia contro il dolore. L’arte favorisce la rinascita: ne è spettatrice immobile e in apparenza insensibile, una volta uscita da chi l’ha creata, ma in realtà è lì, sempre pronta ad agire con il suo effetto benefico soprattutto in chi l’ha posta in essere.
Chiamerei questo libro il “libro della rinascita” perché, appunto, da una vita che era ormai parsa naufragare nel nulla è invece riemersa una vita più ricca, consapevole, decisa a non dimenticarsi del dolore ingiusto che l’ha caratterizzata perché vuole in ogni secondo della sua rinascita trasformarlo in energia positiva.
È vero, Asperti deve rinunciare alla famiglia che gli ha voltato le spalle e non ha neppure per un momento creduto che lui potesse non entrarci per nulla in quella orribile storia, si trova a perdere il suo amico fraterno di una vita ma alla fine trova la sua strada maestra, quella che forse in lui vi è sempre stata ma della quale ignorava l’esistenza; non più l’avvocatura ma la missione, non più il doversi fare valere per vincere ma il far valere soltanto la forza del proprio altruismo e della propria tensione amorevole verso il prossimo bisognoso. L’amore per l’avvocatura resterà sempre nella sua vita, ma in una vita che ha lasciato lo spazio a un’esperienza più grande; ecco dove anche risiede il senso della rinascita, nella consapevolezza che si può andare sempre più oltre se stessi per essere sempre più vicini agli altri; anche passando attraverso un dolore che mai ci si sarebbe attesi di provare anche subendo delle umiliazioni, ma stando sempre, come si suol dire, con la schiena dritta perché, come disse qualcuno, “l’uomo, anche in fondo a ogni sofferenza, non è mai solo perché ha sempre se stesso”. E l’avvocato Asperti scopre, nella scelta del nuovo cammino che ha inteso compiere, anche un’altra verità di spessore: esiste sempre un modo più completo per donarsi al prossimo, un modo che la vita precedente ti ha aiutato a individuare. Il concetto è lì pronto ancora una volta: il dolore non giunge mai per nulla, se sa farsi messaggio per una vita più piena è invece un tempo quasi da benedire, anche se non fa dormire e ti lacera profondamente il cuore. Perché l’uomo, oltre il suo dolore, è più uomo. Non soltanto non si perde ma si guadagna. Se questo mio libro potesse anche servire a far guardare con occhio diverso chi ha vissuto un’esperienza di detenzione ne sarei ugualmente felice.
Io credo che lo sbaglio sia connaturato all’uomo. Assai meglio di me lo ha affermato secoli fa quello che io considero un mio punto di riferimento nel rapporto con Dio, Sant’Agostino: “si fallor sum”, disse, ovvero “se sbaglio sono”. Gli sbagli di chi è stato detenuto avrebbero potuto essere o possono essere anche i nostri. Dagli sbagli non siamo mai al riparo. Ma se impariamo a osservarli come un aspetto della nostra vita da cui trarre un insegnamento, ci sentiremo paradossalmente più uomini. Capiremo meglio i nostri limiti, le strade da non dover percorrere e che ci porterebbero a danneggiarci e danneggiare. Se poi imparassimo anche ad applicare questo al nostro prossimo, sarebbe meglio ancora. Si può sbagliare, si deve ricominciare. Tutti noi, se commettessimo degli errori, vorremmo che qualcuno ci desse la possibilità di riscattarci.
Dobbiamo del pari essere pronti a concederla ad altri. Se sbagliamo siamo uomini. Se non sappiamo perdonare gli errori a noi stessi e agli altri, finiremo molto presto di esserlo.
Sono innocente
1.
UN SOGNO NATO E POI FRANTUMATO
“Non ho commesso alcuno sbaglio, eppure sono qui a subire sulla mia pelle i graffi infuocati di una vita irregolare; a volte sento lacerante la tentazione del maledire di avere amato se poi mi è toccata tanta sofferenza”. Queste parole di un poeta di cui non ricordo il nome furono tetre e costanti compagne della mia vita di detenzione. Il giorno mi sorridevano sarcastiche conficcandosi nelle mie membra come pugnali impazziti, la notte mi sospingevano tra le braccia d’acciaio di un dolore più forte, come a volermi ricordare che mai avrei più potuto stringere tra le mie ormai consunte dita neppure il simulacro di un’esistenza normale.
Le sbarre della mia piccola cella erano ormai invase dalla ruggine delle mie diluviali, inascoltate lacrime. Farla finita? No, il discorso mi aveva in effetti sfiorato più volte ma lo ricacciavo sempre indietro. Pensavo che, come non ero stato io a darmi l’esistenza, così non avrei neppure potuto essere io a concedermi la libertà di privarmene quando lo avessi desiderato. Ogni notte rivolgevo la stessa supplica al sonno, chiedergli di non andarsene ma non per farmi morire, soltanto per sapere che almeno lui non mi avrebbe abbandonato, come il custode più fedele e amorevole di quei sogni che mi regalavano l’illusione di ricominciare.
Sì, nei sogni tutto ricominciava, erano come paesaggi che lasciavano la mia vita reale fuori dalla porta e componevano fantasie di colori, suoni e speranze; poi l’alba si compiaceva con le sue unghie d’avvoltoio di frantumare tutto. Il mio calvario cominciò il 10 gennaio 1990. La vita mi aveva regalato il più dolce dei pensieri, sentire di aver tutto senza più volere desiderare nulla. Percepivo di avere raggiunto finalmente quella stella a molti preclusa che si chiama vera felicità. Avvertivo cioè di trovarmi nella situazione che il filosofo Epicuro di Samo chiamava atarassia, completo equilibrio che comporta assenza di piacere e dolore.
L’ago del destino aveva ricamato per me una splendida moglie, Elena, conosciuta tra i banchi di scuola dove ci tenevamo la mano sotto il banco come per trasmetterci reciprocamente il progetto di una vita insieme e poi ritrovata per caso dopo diversi anni. Ci reincontrammo in un bar e, leggendoci tra gli sguardi, subito capimmo che quella fiammella nata tra i libri non si era affatto spenta. Il risbocciare di quell’amore fu un capolavoro del destino che ci fece ricongiungere dopo parecchio tempo in cui ambedue pensavamo che l’altro si fosse creato una vita autonoma. Ma evidentemente eravamo fatti l’uno per l’altra. Le nostre due fiammelle erano confluite in un fuoco maestoso, la nostra piccola Desireé che osservavamo crescere con la fierezza e tenerezza di un gladiolo. Poi arrivò un altro splendido dono, Deborah. Mio padre mi aveva sempre insegnato: “quando ti alzi al mattino, emetti un lungo respiro, ringrazialo di esserti venuto a fare una nuova carezza e affidagli tutti i sogni che porti nel cuore, vedrai che ti servirà”.
2.
L’AVVOCATURA COME MISSIONE
Il mio sogno era sempre stato di diventare avvocato, principe del foro, così dopo la laurea in giurisprudenza con il massimo dei voti decisi di partire per l’Inghilterra per frequentare un master. Avevo dentro di me il legittimo orgoglio di essermi guadagnato quel traguardo perché, per mantenermi agli studi, anche se la mia famiglia un po’ mi aiutava, avevo anche lavorato come pizzaiolo prima e come pony express poi. Riuscii con mille sacrifici a mettere in piedi uno studio legale, insieme con il mio amico fraterno Eugenio Ghislanzoni e con un’altra persona che frequentavamo soltanto sporadicamente ai tempi dell’università, Omar Terreni. Due personaggi tali e quali a me, determinati ma anche desiderosi di mettere al servizio della società e delle persone bisognose il loro sapere.
3.
ARRIVA JESSICA E IL MOSAICO SI COMPLETA
Per portare avanti le mille incombenze che inevitabilmente si hanno quando si lavora in uno studio legale avevamo anche bisogno di una segretaria. Decidemmo così di far pubblicare un’inserzione su varii giornali. La prima a risponderci fu Jessica Inardi, una ragazza di soli vent’anni di aspetto molto avvenente ma anche, così ci parve dal primo istante in cui la incontrammo per avere un colloquio con lei, di buona intelligenza e capacità organizzativa. Era dotata di un’ottima proprietà di linguaggio e in lei scoprii anche una discreta cultura. Mi disse che le sarebbe piaciuto tanto studiare all’università ma che poi, “per una di quelle strade che la vita ti obbliga a scegliere”, si era fermata al liceo scientifico. Ci colpì subito il suo desiderio di lavorare con serietà e intensamente. Per questo decidemmo di assumerla subito senza valutare altre candidature. La apprezzammo presto e giorno per giorno ci convincevamo di avere visto giusto nell’assumerla. Quando rispondeva ai clienti al telefono mostrava una gentilezza esemplare e possedeva grande padronanza del suo ruolo. Mai un balbettio, mai un’incertezza. E questo suo modo di essere e di fare, devo ammetterlo, ci affascinava moltissimo. Talora la sua precisione la faceva sembrare un automa più che una persona, e la cosa un po’ ci spaventava. Era però una ragazza di soli vent’anni e aveva ancora, per così dire, degli slanci da adolescente.
Lo si constatava per esempio quando veniva in ufficio con un abbigliamento un po’ licenzioso, con una gonna parecchio al di sopra delle ginocchia e le calze a rete. Sulle prime fui portato a considerare tutto questo come una ragazzata, a non dargli peso. Anzi, guardavo la cosa con simpatia: è una brava ragazza, pensavo, ha soltanto qualche vezzo connesso a una persona della sua età, non vi è nulla di male. Dal momento che poi era una ragazza particolarmente carina, confesso che noi tre non eravamo indifferenti al suo fascino. Non pensai però mai a provare a corteggiarla, perché per me mia moglie e le mie due figlie erano assolutamente sacre. Tradire “le mie donne” sarebbe stato come pugnalarmi e pugnalarle. Jessica aveva una sorta di doppia anima e me ne accorsi molto presto. Se da un lato era una segretaria professionalmente irreprensibile, infatti, dall’altro dimostrava sempre di più di non essere uscita dal suo stadio di ragazzina con quel modo di abbigliarsi e acconciarsi e di cercare di usare certe malizie tipicamente femminili per mettersi in evidenza.
I miei colleghi di studio mostravano una sorta di accondiscendenza a questi fanciullismi riconducendoli appunto alla sua giovane età; io, viceversa, abituato come ero sempre stato a tenere accuratamente separati i rapporti umani da quelli professionali e pur avendo guardato a lei con simpatia, avevo poi cambiato orientamento. Così, se per i primi tempi avevo chiuso un occhio, certe sue manifestazioni cominciarono poi a infastidirmi. Iniziai a comprendere che le sue non erano semplici bambinate quando, oltre all’abbigliamento un po’ licenzioso, cominciò anche a servirsi di un certo frasario a mio avviso sconveniente.
“Avvocato Asperti – mi disse un giorno – non le hanno mai detto che lei è un gran bel pezzo d’uomo?”. Eravamo soli in studio in quel momento, i miei colleghi erano a pranzo perché ci eravamo accordati sul fatto che, durante le pause per il ristoro, almeno uno di noi restasse a presidiare lo studio in caso di necessità. Jessica era una ragazza piuttosto attraente e difficilmente un uomo le sarebbe rimasto insensibile. Decisi subito di parlarle chiaro; un altro uomo, forse, al posto mio, avrebbe ceduto alle sue avances ma io ebbi la forza di non farlo; “Jessica – le dissi duramente – non dire sciocchezze, pensiamo al grande lavoro che c’è da fare, poi ricordati che sono un uomo sposato e che potrei persino essere tuo padre per l’età che ci divide”. Forse intimorita dal tono che impiegai nel fare quest’affermazione, quel giorno desistette e anzi timidamente si scusò. Pensai davvero che il discorso si fosse chiuso a quel punto ma mi sbagliavo. Sarebbe presto ritornata alla carica facendomi cadere in un notevole imbarazzo.
[continua]
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