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Damiana Maria Giacobbe - Ritratti di zucchero
Collana "Le Schegge d'Oro" - I libri dei Premi - Narrativa
14x20,5 - pp. 88 - Euro 9,50
ISBN 978-883133632
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In copertina: «Young woman standing with pink cotton candy outdoors in front of the carrousel at the amusement park» © rh2010 – stock.adobe.com
Pubblicazione realizzata con il contributo de Il Club degli autori quale opera segnalata nel concorso letterario Jacques Prévert 2020 sezione narrativa
«Damiana Maria Giacobbe propone una raccolta di racconti che vedono la protagonista femminile di ogni racconto accomunata ad un famoso dolce che diventa simbolo narrativo, a volte di una rinascita, altre volte di vendetta, di libertà ritrovata e di una sospirata autodeterminazione.
I racconti riescono a coinvolgere nella lettura con alcuni passaggi degni di nota: in alcuni casi, sono pervasi di profonda umanità, e capaci di cogliere il mondo interiore delle varie protagoniste, in altri casi, il tono della narrazione risulta ironico e divertente.
Da segnalare i racconti dedicati ad “Aida e la Cheese cake al caramello” ed a “Patricia e il gelato alla nocciola”».
Motivazione del presidente della giuria del premio letterario “J. Prévert” 2020 – sez. narrativa
Massimo Barile
Prefazione
Damiana Maria Giacobbe propone una raccolta di racconti intensamente sentiti e profondamente percepiti nell’animo, che vedono la protagonista femminile di ogni racconto accomunata ad un famoso dolce, dalla meringa all’italiana alla torta Sacher, che diventa simbolo narrativo, a volte di una faticosa rinascita, altre volte di meditata vendetta, di libertà ritrovata e di una sospirata autodeterminazione.
Il titolo della raccolta «Ritratti di zucchero», sembra voler fuorviare il lettore, ma sicuramente è voluto dalla scrittrice, che pare giocare su tale aspetto, perché più che il dolce verrà messo in risalto l’amaro di talune condizioni di vita, con la conseguente sofferta presa d’atto, con la delusione e l’amarezza, le inutili attese ed i sogni infranti, le promesse mancate e la inevitabile riconquista della propria identità di donna.
La miscela alchemica dei racconti, offerta veramente come sostanza esistenziale da gustare nella sua totalità, riesce sempre a coinvolgere nella lettura, grazie ad una formidabile capacità di scrittura che coglie e fissa le “caratteristiche” delle varie figure femminili: come ad osservare una galleria di personaggi narrativi, di donne che rappresentano la metamorfosi, ricercata e voluta ardentemente, che incarnano la forza e la determinazione, ma anche le contraddizioni del mondo femminile, magistralmente raccontate.
Nel divenire della visione narrativa tutto viene illuminato dalla sua Parola, appassionata e vibrante, simbolico abbraccio al mondo femminile, espressione fedele delle sue intenzioni, sempre ammantata di un’atmosfera che si alimenta del continuo scandaglio interiore delle protagoniste, attraverso una rivisitazione del cammino e del travaglio esistenziale, tra consapevole amarezza e ricerca del sentimento autentico.
Nella trama della vita si miscelano allora i racconti di questa raccolta: intriso di forte delusione ed amarezza il racconto dedicato ad Amelia che, dopo un amore contrassegnato da grande passione, deve fare i conti con le liti e le accuse, e tra nostalgia e rabbia, prepara le “mandorle caramellate” mentre firma il divorzio; intenso e struggente il racconto dedicato ad Aida, da alcuni anni, amante di un uomo, che lei ha aspettato con immensa pazienza, ma, ora che è incinta, si rende conto che lui non lascerà mai la moglie, e la Cheese cake al caramello le offrirà un senso di libertà; poi, la figura di Patricia, che sopporta le numerose amanti del marito, ma prepara una micidiale vendetta che avrà il profumo della “rinascita” al gusto di un “gelato alla nocciola”; Alice, invece, diventerà mamma e si rende conto che tutta la sua vita cambierà, e sarà fondamentale accettare ed “amare se stessa”, con una fragrante fetta di “crostata alle fragole”; ed, infine, Alma che, dopo cinquant’anni di matrimonio, riscopre la magia di stare insieme al marito, grazie ad un corso di pasticceria che vedrà come prima ricetta una bella “torta al limone”.
Durante il processo narrativo emergono chiaramente le tematiche che più coinvolgono Damiana Maria Giacobbe, con alcuni passaggi degni di nota: in alcuni casi, i racconti sono pervasi di profonda umanità e tendono a cogliere il mondo interiore delle protagoniste; in altri casi, il tono della narrazione risulta ironico e divertente.
La scrittura di Damiana Maria Giacobbe irradia di nuova luce l’universo emozionale delle protagoniste, figure narrative illuminate dalla sostanza autentica della vita, simboli di forza e rinascita, che vivono e lottano tra le molteplici manifestazioni del vivere, sempre capaci di trovare uno spiraglio salvifico che conduca verso una nuova esperienza.
Massimo Barile
Ritratti di zucchero
Mandorle caramellate
Amelia
«Non mi hai mai amato davvero, altrimenti adesso non mi lasceresti così.»
Per quanto mi sforzi non riesco a trattenere una risata isterica.
Che frase banale, che uscita di scena banale, mi fa pensare a uno di quei film drammatici da quattro soldi che criticava tanto ma a cui non sapeva rinunciare.
Il rumore del bollitore mi riporta al presente, una tazza di tè è proprio quello di cui ho bisogno, devo rilassarmi ma soprattutto riflettere, le carte del divorzio sono proprio lì, davanti a me, in attesa, come un cane pronto ad attaccare al primo segnale.
Immergo la bustina di tè nero e attendo con trepidazione i cinque minuti necessari, lo stomaco ruggisce, non mangio nulla da almeno un giorno e devo avere un aspetto terribile con la mia tuta grigia logora e i capelli arruffati trattenuti a stento da un elastico troppo piccolo.
Fisso ancora una volta quei fogli e la penna nera, una normalissima bic, posta proprio lì accanto, penso che è soltanto una firma dopotutto, null’altro che il mio nome e cognome su un pezzo di carta, eppure anche questa è una semplificazione della verità.
La verità è che io mi odio, mi odio per tutto quello che sta succedendo, per non aver retto più, per non essere stata la persona che avrei voluto e che lui avrebbe voluto, mi odio in modo così violento e viscerale che neanche riesco a parlarne, soprattutto non con lui, non capirebbe, non lo ha mai fatto.
Conobbi Lorenzo a una cena fra amici, non era l’unico single della serata ma aveva quel quid in più che mi attraeva, una certa sicurezza nei gesti, una postura dritta e fiera, molta autoironia. Scambiai con lui poche parole a causa di un altro tizio, di cui non ricordo neppure il nome, che mi rimase accanto per tutto il tempo, sperando che con l’aumentare dell’alcol in corpo aumentasse anche la mia disponibilità nei suoi confronti, povero illuso, ho sempre retto l’alcol come e meglio di qualunque uomo. Rientrai a casa chiedendomi se avrei avuto modo di rivederlo, se anche lui mi avesse notata, se il continuo incrociarsi dei nostri sguardi non fosse che pura e semplice casualità. Nei giorni seguenti mi riempii la testa di supposizioni, di ipotesi contorte, delle solite sciocchezze romantiche che precedono ogni nuovo inizio e in effetti, non ci volle molto prima che lui ottenesse il mio numero da un’amica in comune e iniziassimo a uscire insieme.
Sorseggio il tè lentamente, ho bisogno di calore, la casa, la nostra casa, mi appare così immensa e vuota, così carica di promesse infrante e di sogni traditi, e improvvisamente intuisco che per riprendermi dovrò andar via, cercarmi un nuovo nido. Seduta a terra sul tappeto cremisi del salotto, immersa nel silenzio assoluto e circondata dai nostri volti sorridenti, realizzo quanto spesso ognuno di noi veda solo quello che voglia vedere rifiutando tutto il resto, come le prime crepe dietro quei larghi sorrisi.
Non posso negare che quello fu amore, una passione forte, sensuale, sessuale, monopolizzante e vorace. Avevo bisogno di sentirlo continuamente, di vederlo attorno a me, mi nutrivo dei suoi baci e delle sue carezze, mangiavo la vita a morsi golosi, ridendo e godendomi ogni attimo. Eravamo una squadra, io e te contro il mondo, un’altra frase banale che, però, racchiudeva perfettamente il senso del nostro amore. Mia madre mi osservava sorridente mentre alternavo giornate di gioia folle a tremende depressioni dettate solo da una parola di troppo o da una in meno. L’amore è la droga più potente, ti stordisce, ti tramortisce e quando riprendi i sensi è troppo tardi tu non sei più tu, sei un essere nuovo perfettamente amalgamato con qualcun altro che a sua volta non è più la persona di cui ti eri innamorata. Che maledetto infame è l’amore.
In poco tempo decidemmo di andare a vivere insieme, entrambi avevamo quasi trent’anni, due lavori stabili, io come contabile per un’azienda di import-export, lui come impiegato in banca, ed era forte il desiderio di condividere completamente la nostra intimità, di metterci a nudo. Fu la mia prima convivenza e quel periodo fu un entusiasmante insieme di prime volte indimenticabili come condividere la coperta del letto, usare la stessa spazzola, comprare due tazze coordinate per la colazione, lasciare dei post-it prima di andare a lavoro, mangiare pizza a letto guardando un film.
Ho finito il tè e noto che il cellulare, a cui ormai ho tolto la suoneria a tempo indeterminato, lampeggia. Un’altra telefonata di mia madre, non posso trattenermi dal provare un immenso fastidio. Lasciatemi in pace, lasciatemi sola a crogiolarmi nel mio odio, nella mia rabbia, nel mio senso di impotenza, non voglio pietà né comprensione, non voglio che silenzio e quiete, ho un compito, un obiettivo, qualcosa che rimando da giorni e non parlo dei fogli che giacciono come foglie cadute sul tavolo della cucina, mi riferisco a me, devo capire di nuovo chi sono. Quando ti innamori dovresti poter accedere al bugiardino con su scritte le controindicazioni, come ad esempio il pericolo di non essere più in grado di vivere da soli, di pagare autonomamente le bollette, di fare la spesa solo per una persona, di perdersi.
Chi sono io adesso? Chi ero io prima di lui? Dove inizia quel sottile confine che separa me da lui, i miei gusti e le mie abitudini dalle sue? Come faccio a ritrovarmi quando fino a poco tempo fa non sapevo neppure di essermi persa?
A piccoli passi, come iniziare a bere il tè perché incapace di ricordare se amassi il caffè senza zucchero anche prima di lui o se lo abbia bevuto per essere ancora un pochino più, più felice, più amata, più noi.
Poggio la tazza ormai vuota sul tappeto, mi fa male la testa, l’ultima lite, solamente qualche ora prima, rimbomba ancora nella mia mente, nella mia anima.
«Hai un altro vero? Chi è? Da quando va avanti?»
Un altro stupidissimo cliché, la solita giustificazione, l’unica accettabile e comprensibile quando tutto sembra andare a rotoli, quando la persona che credevi di conoscere ti guarda come fossi un estraneo e non l’uomo che le portava il caffè a letto la mattina.
«Non ho nessuno Lorenzo, non esiste un altro lui, siamo solo io e te, lo siamo sempre stati.»
In realtà questa è una mezza verità, un’altra persona esiste, una di cui mi sono dimenticata seppellendola sotto strati e strati di abiti e atteggiamenti non suoi, io. Con dolore ripenso all’esatto momento in cui lo realizzai.
Era sera, avevamo preso del cibo cinese take away e ingurgitato quantità spaventose di ravioli fritti e salsa di soia, il tutto sorseggiando una forte birra rossa che mi aveva dato la spinta necessaria per tentare di sedurlo, anche se in modo alquanto goffo, ben lontano dalla sensualità dei primi tempi.
L’uomo seduto alla mia destra, però, intento a guardare un notiziario con assoluta concentrazione, aveva semplicemente ridacchiato e mi aveva scostato dicendo di essere stanco e che l’indomani avrebbe dovuto alzarsi presto. Il problema non era stato il rifiuto in sé, non era neanche il fatto che non facessimo l’amore da mesi, ma che durante quel siparietto comico lui non mi avesse neppure guardata. A quel punto, fingendo di non accusare il colpo, mi ero diretta in bagno e mi ero osservata con più attenzione allo specchio, puntando quella luce fredda, implacabile, direttamente sul mio viso. I miei occhi verdi, un tempo brillanti, erano spenti, due pietre scure prive di spirito e cerchiate da evidenti occhiaie viola, le mie labbra incurvante verso il basso riportavano i resti sbavati del rossetto, sembravo un clown triste, una bambola rotta. Eppure non era l’aspetto esteriore a turbarmi ma il grigiore complessivo della mia immagine, ero priva di colore, di sapore, di vita. Ero sempre stata così? Così insulsa e monocromo? Non riuscivo a ricordare, non riuscivo a mettere a fuoco la me di un tempo, a cogliere eventuali differenze, a riconoscermi.
Quando, mesi dopo, presi la decisione di lasciarlo, lui mi accusò di essere cambiata, ma quanto c’era di vero in quella accusa se neppure io ero in grado di capire con certezza chi fossi stata prima di lui e chi fossi in quel momento? Come lo odiai e mi odiai in quegli istanti lunghi secoli. Voleva conoscere a tutti i costi la verità, pretendeva di capirmi, ma al tempo stesso mi attaccava, facendomi sentire vittima e carnefice insieme, l’assassina di un rapporto in apparenza perfetto.
La verità è che hai smesso di guardarmi e io di guardare te.
La verità è che abbiamo smesso di bere vino insieme e di ridere del mondo come due matti.
La verità è che il desiderio è scomparso sostituito da routine e discussioni futili.
La verità è che il nostro amore è finito e che non ce ne siamo accorti in tempo, annichilendolo e facendolo a brandelli.
Mi alzo dal tappeto e la tazza mi scivola a terra rompendosi in minuscoli pezzetti, la perfetta rappresentazione della mia vita, un’altra risata isterica mi coglie di sorpresa.
Lascio tutto lì e torno in cucina, ho bisogno di mangiare qualcosa ma il frigorifero è vuoto, sospiro amareggiata finché non noto una confezione semiaperta di mandorle su uno dei ripiani, il mio corpo si muove in automatico, le prendo insieme a dello zucchero, riempio mezzo bicchiere d’acqua e verso tutto in padella, in pochi minuti ecco pronte delle lucidissime mandorle caramellate. Inizio a mangiarle con rabbia, con disperazione, come se ne dipendesse la mia vita, e finalmente calde e rassicuranti lacrime iniziano a scorrere. Non ero mai riuscita a piangere, nonostante le liti, nonostante la paura, il senso di scoramento, la depressione incombente, gli occhi bruciavano ma restavano aridi, asciutti e stranamente vitrei. Ma questo dolce così semplice sa di lui.
La prima volta che dormimmo insieme fummo attanagliati, nel cuore della notte, da un’incredibile voglia di dolce ma non trovammo nient’altro che delle mandorle e dello zucchero, e ne mangiammo a tonnellate, ustionandoci la lingua e ridendo come due bambini.
La nostalgia mi stringe lo stomaco, il salato delle lacrime altera la dolcezza delle mandorle, un vortice denso e nauseante di emozioni aumenta la mia emicrania. Ripenso a quando nello scegliere i mobili di casa osservammo in silenziosa contemplazione il prototipo di una stanza per bambini, ricordo quando all’uscita dal cinema, baciandoci come due adolescenti, ci promettemmo amore eterno ipotizzando le nozze, ripenso all’ansia che provavo quando un’altra donna lo guardava, alla gelosia folle ed egoista. Piangere aiuta, scioglie alcuni nodi, mi rende più lucida, più umana.
All’improvviso il telefono vibra, è di nuovo mia madre ma non posso ancora risponderle, devo finire le mie mandorle e attenuare la fame che d’ora in poi porterò sempre dentro di me.
Una volta ho letto che in Giappone quando un oggetto di valore si rompe viene ricomposto usando dell’oro per sanare le crepe e ricomporre l’insieme, realizzando così delle vere e proprie opere d’arte a dimostrazione del fatto che tutto, con sforzi e buona volontà, possa essere riparato, guarito. Penso agli ultimi anni, alle parole trattenute per non litigare, alla mancanza del sesso, alla paura di restare sola, all’incapacità di riconoscermi allo specchio, al logorante proseguire di un rapporto ormai finito, sì, posso ancora ricomporre il tutto ma non con lui, quell’oro di cui avrò bisogno sarà il mio coraggio, la mia forza, la mia paura, il mio fallimento.
Firmo le carte del divorzio e mangio l’ultima mandorla.
Mia madre risponde al primo squillo.
«Come stai? Perché non hai risposto? Mi hai quasi ucciso.»
«Perdonami mamma, avevo bisogno di tempo… ho firmato, è tutto finito.»
Fa uno strano effetto dirlo, come se le storie d’amore fossero dei semplici libri da aprire, chiudere e sfogliare a piacere, come se bastasse una firma per concludere davvero qualcosa.
A piccoli passi. Uno di questi l’ho appena compiuto.
E non posso non pensare che mi dispiace, mi dispiace per com’è andata, mi dispiace perché è anche colpa mia, perché mi sono persa dentro di lui e non sono più stata in grado di ritrovarmi e di ritrovarlo, ma l’ho amato davvero ed è questo quello che conterà sempre, anche se ci odieremo, anche se ci insulteremo, anche se prima o poi andremo avanti e di noi due e del nostro tempo non resterà che un ricordo labile, io l’ho amato incondizionatamente. Chissà magari è stato proprio questo l’errore.
«Adesso che farai? La casa? Vi rivedrete?»
So che mia madre ha paura per me, lo sento, ma stranamente, mentre fisso il piatto vuoto pieno di zucchero, avverto una sensazione nuova, come la nascita di un piccolo germoglio.
«Adesso andrò avanti mamma, semplicemente avanti.»
[continua]
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