Lo zio d’America

di

Domenico Livoti


Domenico Livoti - Lo zio d’America
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
14x20,5 - pp. 108 - Euro 11,00
ISBN 9791259513588

Clicca qui per acquistare questo libro

Vai alla pagina degli eventi relativi a questo Autore


In copertina e all’interno fotografie di proprietà dell’Autore


L’ALVEO


Fascino del nulla
“sciatu” di niente
“ciauru” di ciò che fu!


Oro tremolante sul mare al tramonto!


Perché la fine in Sicilia
è sempre barocca?


Là incorono i miei difetti
e solo allora io mi riconosco.


E che il dolore sia eterno
perché l’oblio non si posi
come cenere su di esso!



Il filo di Arianna

Dammi un filo per il labirinto
che è diventata la mia esistenza!
Un varco, per favore, per la mia coscienza
tra i meandri della mitologia!
Ritroverò, Arianna, la mia via,
troverò un’arma per uccidere il mostro
e farò ali per alzarmi dal chiostro
di un enigma senza soluzione!


Ariadne’s thread

Give me a wire to the maze
that has become my life!
An opening, please, my conscience
the intricacies of mytology!
Find myself, Arianna, my way,
i find a weapon to kill the monster
and i will make the wings to get out of the cloister
a riddle without solution!



Lo zio d’America


A Luciana, mia moglie,
e ai miei figli, Anna, Francesca e Alfonso


I

L’alba è l’inizio. L’alba è l’incipit.
Quale scrittore può inventarsi un esordio migliore!
Se poi hai il privilegio di trovarti su una collina da cui è possibile capire la crescita inesorabile di una città, l’essenza dell’alba la puoi cogliere come il fiat di una creazione.
E se la città è New York, allora non è più tanto semplice trovare le giuste parole per descrivere quanto sta succedendo ai piedi di una collina, che comincia a sospettare di essere ormai preda della provvisorietà.
Quella marcia inarrestabile di esseri e di cose, che non stanno mai fermi, era ormai troppo vicina.
La collina era cosciente di non essere un Olimpo, ma quelle macchine di varie forme apocalittiche erano i Titani alla conquista del suo silenzio e della sua millenaria imperturbabilità.
Dinosauri, tirannosauri, scarafaggi enormi avanzavano ormai verso di essa.
Già uno di essi l’aveva raggiunta e ora stava lì, sull’onda dell’alba, ad aspettare chissà che cosa.
Era una Essex nera del 1923.
C’erano tre uomini su quell’auto nera, fermi, stabili e implacabili come il destino.
Un lampo arrivò da un grattacielo in costruzione e rese ancor più rossa e terribile la lunga cicatrice che traversava il volto dell’autista.
Due erano vestiti di nero e sulla testa portavano con spavalda sicurezza un cappello anch’esso nero.
Sapevano che quando si è scelto come modo di essere la violenza anche l’abito deve essere intonato a quella filosofia dell’esistenza.
L’altro, quello dietro, indossava invece una coppola siciliana.
L’uomo accanto all’autista aveva un lieve fremito sul viso e negli occhi, ma la bocca, dalla linea quasi retta, era chiusa come una cassaforte.
Fu il giovane dietro, quello con la coppola, che ruppe il silenzio.
– La città continua ad allargarsi! Fra qualche anno questa collina non ci sarà più. –
– Già! Ma ci vuole controllo e professionalità. Altrimenti si rimane tritati come quando mia madre faceva le salsicce! –
– Io niente dico! – disse il terzo, il passeggero di fianco.
Silenzio.
L’alba continuò nella sua profusione di luce e a un tratto due fiammate si accesero nella Essex e il silenzio fu rotto da due spari, uno dopo l’altro.
Inesorabilmente, nell’alba che non c’era più.


II

Tre buoi fanno girare la grossa macina di pietra sulle olive che continuamente vengono versate nella vasca.
È un’operazione quasi ipnotica che si ripete con artigianale precisione finché tutto diventa una pasta oleosa pronta per essere passata sulle apposite stuoie.
Il frantoio, nel periodo della raccolta delle olive, è un bazar vero e proprio.
La gente va e viene, si discute animatamente, si mangia, si beve, si assaggia l’olio nuovo con pane caldo e pepe.
Qualcuno addirittura ha portato con sé una boatta piena zeppa di acciughe sott’olio, che vengono tirate su a una a una, fatte sgocciolare e poi messe sulle larghe fette di pane croccante bagnato con quell’oro verde che sgorga dal rubinetto della centrifuga.
Femmine ci sono anche e bambini a non finire, che seguono con occhi sgranati tutta l’operazione della spremitura delle olive. Un omone mette a cavalcioni di un bue il suo bambino di tre anni, che poi sbotta in un pianto disperato che fa ridere tutti i presenti.
C’è pure Salvatore, che tira giù dal carro, trainato da due poderosi muli neri, sacchi di cinquanta chili l’uno come se fossero noccioline.
Poi a uno a uno li porta sul bordo della macina e con un ampio gesto da seminatore versa le olive nella vasca.
Le donne lo guardano con malcelato piacere, i muscoli di Salvatore guizzano come grossi serpenti sotto la canottiera ormai non più bianca e pulita.
Lui le guarda di sottecchi e ride.
Un uomo, nero di sole e di lavoro, si fa avanti.
– Salvatore, la vuoi fare una scommessa con me? –
– Una scommessa? E che è? Perché no! Dimmi di che tipo di scommessa si tratta. Che ti prendo due sacchi per volta e li svuoto contemporaneamente dentro la vasca? Eh, che ne dici? La paga di un uomo di una giornata! –
– No, no! Questo lo capisco che ci riesci. No. Scommetto che non ce la fai a far fare un giro completo alla macina, come fanno questi tre buoi, eh! Scommetto la paga di dieci giorni di lavoro di un uomo. Che ne dici? –
Fu così che Salvatore mise da parte i soldi vinti che, aggiunti ad altri risparmi, lo porteranno in America


III

In campagna, sulla collina di Rocche di Marro, era festa.
Finalmente dall’Asia Minore era arrivato a casa Giuseppe, partito soldato a diciotto anni per combattere sul fronte del Piave dopo la sconfitta di Caporetto.
Giuseppe, quando era stato portato al CAR per un veloce addestramento, pareva un ragazzino delle scuole medie, ma in prima linea, lungo le sponde del Piave, aveva fatto in fretta a capire che bisognava salvare la pelle.
Comunque Giuseppe non era un ragazzo timido e introverso.
Le battaglie combattute nel torrente, che divideva la collina di suo padre da quella dove sorgeva Portosalvo, contro i ragazzi di quel quartiere erano state un vero e proprio addestramento alla sopravvivenza.
Erano battaglie combattute a colpi di pietre così abbondanti nel torrente. Un corso d’acqua separava i due fronti e ci voleva un’abilità eccezionale per evitare le traiettorie insidiose dei lanci incrociati di pietre.
Giuseppe sapeva di avere una forza in più, quel fratello forte come un torello.
La banda di Portosalvo temeva i corpo a corpo con Salvatore e quindi le battaglie si combattevano con quel filo d’acqua che rappresentava la terra di nessuno.
Giuseppe era un ragazzo minuto e quindi doveva ricorrere alla sua intelligenza. Fu così che si fabbricò una fionda con rami d’ulivo e strisce elastiche di vecchi pneumatici di bicicletta.
Divenne un fulmine di guerra con quell’arnese primitivo e le bande di Portosalvo non si salvarono più.
Quando l’Italia era entrata in guerra nel 1915, Giuseppe e Salvatore avevano legato il ferro di una zappa ai rami del gelso di casa e l’avevano fatto risuonare come una campana rudimentale.
Loro due conoscevano l’esaltazione della battaglia, e quasi ogni giorno sperimentavano l’immortalità dell’essere giovani come fosse un afrodisiaco.
In guerra non è importante il numero ma la qualità e loro due erano una forza della natura perché c’era qualità nella loro coppia.
Giuseppe sapeva che poteva sempre contare sulla forza taurina del fratello, che si sarebbe scrollato di dosso quei cani arrabbiati di Portosalvo se per caso si fosse giunti a uno scontro da vicino.
E Salvatore ormai aveva apprezzato la mira e l’inesorabilità del fratello, che teneva a distanza di sicurezza quel branco di ragazzi, che si muovevano senza una logica, proprio come un branco di sciacalli che non hanno un capo e che contano solo sul numero.
Salvatore e Giuseppe erano stati sempre in guerra, e quella che si combatteva tra le Nazioni nel 1915 non faceva altro che stuzzicare la loro voglia di sapere e il loro orgoglio di italiani.
Purtroppo anche in famiglia c’era guerra.
Le sorelle facevano finta di non vedere, ma loro due maschi la percepivano nell’aria.
La grinta e la severità del viso della mamma era aumentata e non sfuggivano loro gli sguardi da cane bastonato del padre.
Cos’era successo?
La collina di Rocche di Marro era un fermento a luglio e agosto, quando si tagliava il grano, a settembre per la vendemmia e in tutto l’autunno per la raccolta delle olive.
Dall’interno del territorio, dove si parlava il dialetto gallico, arrivavano uomini e donne per i lavori di campagna.
Dormivano nelle varie baracche che erano sparse per la campagna e poi tornavano ai loro paesi con grano, mosto e olio.
Era una continua mescolanza festosa di uomini e donne, che mangiavano all’aperto, cantavano, raccontavano storie alla sera davanti ai fuochi accesi sull’aia e davanti alle baracche.
Il forno di campagna lavorava in continuazione, sapidi ragù con il profumo di una volta venivano preparati in grandi pentoloni, pescestocco veniva grigliato in grandi quantità insieme ai pomodori invernali, che adornavano i soffitti delle case, melanzane venivano preparate in cinquanta modi diversi, olive e formaggio riempivano i piatti e bomboli di terracotta facevano scorrere in gola litri e litri di vino novello.
Tra le ragazze che andavano a lavorare sulla collina ce n’era sempre qualcuna più sfacciata e più bella, e forse il padre di Giuseppe e Salvatore aveva avuto una storia con una di esse.
Ma non si sfugge alle antenne di una padrona e il povero peccatore era stato relegato in un cantuccio.
La guerra era lì, pronta a scoppiare in ogni momento e i ragazzi, che non capivano molto bene quelle silenziose minacce, scappavano via nel torrente a combattere le loro esplicite battaglie reali.
Giuseppe e Salvatore vivevano dentro una bolla di epicità, si sentivano i custodi della collina contro le invasioni di quei barbari del paese vicino.
Furono loro che si accorsero del tentativo di rubare le olive salendo dal torrente per un sentiero che i due fratelli avevano reso praticabile tra ginestre, rosmarini, agavi, fichidindia e tante altre piante della macchia mediterranea.
Il sentiero scendeva ripido per piccole terrazze infestate da miriadi di fossili e passava davanti a una grotta seminascosta dalla sabbia fossile finissima.
I due fratelli avevano nascosto con rami secchi l’inizio del sentiero laggiù sul torrente, proprio vicino a una sorgente che col tempo purtroppo si seccherà, la sorgente delle Rocche di Marro.
I teppisti del paese vicino, come tanti ragni, avevano scoperto l’inizio del sentiero e si erano arrampicati in silenzio su per la collina con canestri e panari per fare man bassa di olive e procurare un po’ di olio alle loro famiglie.
In silenzio salivano perché ormai conoscevano la forza dei due guardiani della collina. I loro corpi portavano i segni delle sassate beccate durante le battaglie nel torrente.
Ma, appena traversarono la linea dei cipressi, che riparava la piana degli ulivi dalle folate dello Scirocco, si trovarono davanti i due fratelli, armato di fionda l’uno e accanto a una carriola piena di sassi l’altro.
Fu una vera carneficina e i sei ragazzi di Portosalvo rotolarono giù per il sentiero abbandonando canestri e panari.
– Non fatevi più vedere quassù! – gridò Salvatore.
– Via, maledette bestie! – rincarò la dose Giuseppe.
Tra gli ulivi si levarono le risate degli uomini e delle donne che bacchiavano e raccoglievano le olive.
Quante volte quelle donne dell’interno, ma soprattutto le più giovani, avevano guardato i due fratelli con occhi sfacciati e compiacenti.
Ma i due ragazzi erano troppo impegnati nelle loro imprese, al massimo spiavano le donne accosciate dietro i cipressi per fare le loro cose, ma i loro stimoli sessuali erano annebbiati e, per così dire, ammantati dalla carica guerriera che ormai avevano assunto su quella collina, da dove era possibile ammirare il tramonto tra Alicudi e Filicudi.
L’Iliade e l’Eneide avevano preso il posto educativo dei loro genitori, che si guardavano in un rancoroso silenzio.
Giuseppe aveva un affetto particolare per Ettore, perché aveva difeso la sua patria, la sua città, fino al sacrificio contro Achille, che era invulnerabile e per giunta aveva dalla sua parte la guerriera dea Minerva.
Gli era sempre sembrata un’ingiustizia quel duello sotto le mura di Troia con un destino, che aveva già fatto rullare i suoi tamburi sulla testa del fratello di Paride.
A Giuseppe piacevano gli eroi destinati a soffrire e, a dire la verità, nella mitologia greca tutti gli eroi prima o poi dovevano fare i conti con l’invidia, la gelosia e l’avidità degli dei.
A Salvatore invece piacevano gli eroi che erano condannati a peregrinare per il mondo antico per un’impresa, un’avventura o semplicemente per un ritorno.
Pur se ancora giovani la loro esistenza su quella collina, che era emersa dal mare milioni di anni prima, era stata costellata da rischi mortali.
Salvatore, quando dall’interno arrivavano gli uomini per battere le olive su in cima agli ulivi secolari, chiedeva il permesso al padre di aiutarli e, in equilibrio sui rami più alti, faceva cadere le olive ormai mature con una lunga canna di bambù.
Le donne sotto l’albero erano chine a raccogliere le olive cadute e fu così che un giorno due belle donne formose riuscirono a prendere al volo il povero Salvatore che era stato tradito da un ramo poco paziente ed era crollato giù urlando al cielo la sua sorpresa.
Giuseppe invece, che voleva fare il signorino figlio del padrone in groppa a un asino, si era fatto disarcionare dalle bizze dell’animale col piede rimasto impigliato in un nodo delle redini.
Furono ancora una volta le donne che lo salvarono facendo fermare l’asino prima che facesse sbattere la testa del ragazzo contro il tronco secolare di un ulivo.
Per non parlare poi delle loro scalate sulla rocca a partire dal torrente senza neanche l’aiuto di una corda o di un qualsivoglia attrezzo da scalatore.
Insomma i due fratelli conoscevano i rischi di una vita all’aperto e di una difesa ad oltranza del loro territorio.
Così, quando dopo la sconfitta di Caporetto l’Italia chiamò in guerra i coscritti del 1899, Giuseppe non pianse, non si sconcertò neanche, ma col fratello maggiore si mise a picchiare sulla stessa zappa appesa al gelso, che avevano fatto risuonare nel 1915.

[continua]


Se sei interessato a leggere l'intera Opera e desideri acquistarla clicca qui

Torna alla homepage dell'Autore

Il Club degli Autori - Concorsi Letterari - Montedit - Consigli Editoriali - Il Club dei Poeti
Chi siamo
La Rivista
La voce degli Autori
Tutti i nostri Autori
Per iscriversi
ClubNews
Il notiziario gratuito
Ultimi inserimenti
Homepage
Avvenimenti
Novità & Dintorni
i Concorsi
Letterari
Le Antologie
dei Concorsi
Tutti i nostri
Autori
La tua
Homepage
su Club.it