Racconto premiato di Elena Fattarelli

Opera 1^ classificata Premio Letterario La Montagna Valle Spluga 2012


«I camosci dello Spadolazzo»

La Laura aprì la porta del rifugio. Al di là della valle il declivio degli Andossi era in attesa del sole. La colpì al viso l’aria di quella fine estate e le ricordò l’altitudine a cui si trovava. Sola. La sera prima erano scesi gli ultimi cacciatori, ospiti della capanna. Avevano scrutato le cime, avevano vagato su quegli ultimi ripidi pendii, prima delle vette, alla ricerca dei camosci. Salivano verso il crinale, guardavano le vallate svizzere.
Si fermavano vicino a qualche grosso masso. Allora controvento, prendevano un pizzico di tabacco. Non potevano resistere a qualche tirata di pipa, anche se sapevano che allontanavano la loro preda. Stavano attentissimi a non lasciar vagare nell’aria il profumo del tabacco. Nonostante tutte le astuzie e le precauzioni, dopo giorni e giorni di attesa, neanche l’ombra di un camoscio. Al rifugio si lamentavano, dicendo che la sfortuna seguiva i loro cauti passi, che non c’erano più camosci all’ombra dell’Emet. La giovane donna rideva. Commentava il loro malumore dicendo: “i camosci sono più furbi di voi!”. Conosceva il luogo e le sue creature, bestie erbe e fiori. Sapeva bene che con i camosci e con l’aria delle cime non si può barare. Lei svolgeva il compito di custode del rifugio Emet. La mattina, appena il cielo tendeva a schiarire, scendeva a Suretta, presso la casa alpina, per sentir messa. Veloce sui sassi, ritornava alla capanna per preparare la prima colazioni ai “sciuri”. A volte, nel veloce passo del ritorno, sentiva altri passi, leggeri, nel salto di chi smuove e fa rotolare qualche piccolo sasso. Sasso che sembrava staccarsi da solo dalla roccia. Li conosceva i camosci. Sentiva la loro presenza, anche se gli occhi non potevano intravedere che ombre o fugaci comparse. Quel mattino di settembre la Laura era tranquilla. Aveva tutto il tempo per gestire la sua mattina, senza l’urgenza di rientrare al rifugio. E poi, più tardi, poteva ricamare nelle belle ore di luce. Non stava un attimo senza lavoro. Era forte, piena di risorse. Aveva appena percorso il sentiero che tagliava a metà la sponda dello Spadolazzo quando, alzando gli occhi, li vide davanti a sé sul pendio erto. I camosci erano fermi sulle zampe tese, gli occhi rivolti verso di lei. Si fermò. Vide i loro sguardi e rispose con un sorriso. Quelli, con rapida mossa, dopo il primo balzo, puntarono dritti verso la cima della Spadolazzo. Uno dietro l’altro, in fila. Un attimo ed erano in vetta. Sparirono dietro la bocchetta. La donna, commossa da quella visione. “siete più svelti di me” disse, ridendo. Eppure lei era una grande camminatrice. Ripensò divertita ai poveri cacciatori. Sornioni, ironici, pigri. Non sapevano rinunciare ai loro comodi. Giunse al rifugio e pensò di dar mano alle grandi pulizie, prima della chiusura ormai prossima. Nel pomeriggio, attirata dai colori e dai profumi dei fiori della montagna, volle fare un giro, per “salutare i sassi”, si disse. Salì verso lo Spadolazzo. Vicino a un masso, proteso su un dirupo, si fermò. Sotto, una lastra di pietra inclinata sporgente nel vuoto, si protendeva sul canale di fronte. Qui, accasciato, vi era un camoscio. “Oh povero camoscino! No ce l’hai fatta a saltare!” La Laura si preparò a scendere. Con cautela, misurando con l’occhio l’erta franosa, cercò i punti d’appoggio per il piede. Si girava, per capire come arrivare in fondo e per individuare la via della risalita. Giù, giù. E fu vicina al povero camoscio. Bagnò il fazzoletto all’esile filo d’acqua che scendeva dai crepacci, battendo su schegge di pietra.
Si avvicinò al ferito, vide i suoi occhi umidi, mansueti “non so se posso aiutarti” gli disse piano. Cercò la zampa ferita. Guardò l’arto come abbandonato sul sasso liscio. Triste, rimase ferma. Poi reagì. Piano, infilò il fazzoletto sotto l’articolazione della zampa e la fasciò. Stretta. “Non ti faccio male”, sussurrò. Il camoscio ricambiava i suoi sguardi. Poi la donna si avvicinò al filo d’acqua che scendeva lieve. Raccolse l’acqua nell’incavo delle mani e portò da bere al ferito. Una volta. Tante volte. Il camoscino metteva il muso nelle mani. Lei lo sentiva caldo, delicato. Era tutto affidato a lei, abbandonato. Un incontro di pochi minuti, che valgono per tutta la vita. Restò lì fin quando le ombre fredde riempirono la gola, poi risalì l’erta, puntando sempre bene il piede. Si girava e vedeva il povero ferito accasciato. Su, fino al crinale. Poi scese sull’opposto pendio, ancora nella luce. Quella sera si sentì più sola nella capanna. Il mattino seguente nubi, pioggia e “scighera” (nebbia). E così per altri giorni. Il primo mattino di sereno trovò il tempo per cercare il camoscio: non c’era più. Settembre colorava d’oro le foglie dei rododendri, giù sulle scarpate fino a valle. Inclinava l’erba e la rendeva più trasparente. La Laura guardò giù verso occidente, il mondo sembrava fatto solo di cielo e di vette. “E’ ora di scendere” si disse. Tolse ogni resto di polvere dal pavimento della sala, con lo straccio bene ritorto. Le cuccette erano già arieggiate, le coperte piegate. Andò al lago con i secchi. Li lucidò con la fine sabbia. Li riportò vuoti alla capanna e li capovolse all’entrata, perché asciugassero alla brezza del giorno. Diede l’ultimo tocco alla cucina. Ritirò i secchi e li appoggiò sul ripiano basso della peltriera. Mise lo scuro alla grande finestra. Poi si attardò all’interno, la porta spalancata. Ripose i registri nel cassetto, con un senso di malinconia. “Ora faccio fagotto”, disse. Infilò le sue lenzuola nella sacca e gli indumenti personali ben ripiegati. Chiuse le cassapanche. Sulla porta scrutò il cielo, calcolò le ore di luce, socchiudendo gli occhi. “Devo arrivare agli Andossi prima del buio”. Dal cassetto centrale del tavolino tolse la grande chiave. Depose la sacca sulla pietra dell’entrata. Piegandosi un poco infilò la chiave nella serratura, la provò e riprovò. Allora chiuse la porta e con un solo tocco delle sue agili dita fece girare la chiave. Alzò lo sguardo, stava per infilare le braccia nelle bretelle dello zaino quando si fermò senza più respirare. Lì sulla roccia, di fronte alla capanna, c’era diritto il camoscino. Era lui, lo riconobbe. Incontrò i suoi occhi, che risposero con uno sguardo d’intesa. Aprì il suo viso in un largo sorriso. Il cuore le batteva forte. Così anche quello del giovane padrone delle vette. I muscoli del collo pulsavano. La donna trattenne il respiro nell’intensità del momento. Il camoscio, tutto immobile, l’occhio fisso nei suoi. Era la sua parola, era l’attimo del dialogo. “Sei venuto a salutarmi” mormorò e tese la mano. Quello partì rapido dalla parte dell’Emet. La Laura cominciò a scendere, la luce nel cuore. A ogni curva del sentiero guardava in alto. Pensava al mistero della vita, al mistero dell’amore.

I fatti narrati sono realmente accaduti, all’inizio degli anni ’30 del secolo scorso.

Elena Fattarelli



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