Con questo racconto è risultato 1° classificato nella XVII Edizione del Premio Letterario Internazionale Il Club dei Poeti 2013 – Sezione narrativa
Questa la motivazione della Giuria: «Nel silenzio d’un giorno d’agosto, avvolto dalla “solitudine del pensiero che si perde nel vuoto”, l’immaginazione conduce a ripensare alla sensuale bellezza di una donna, “arazzo filigranato di femminilità”, che diventa presenza interiore e visione salvifica.
Nel lento fluire delle parole si crea l’arabesco d’amore: tra realtà e sogno, dove ogni percezione è alimentata da una scrittura densa di fascinazione».
Massimo Barile
L’alchimia del tempo
Attraverso giorni con la sensazione che il vento imprigioni i miei movimenti, la lingua appiccicata all’orofaringe, la mente che vola pindarica in luoghi non ambientati in questo paese dal lungo inverno e dalla breve e ventilata estate. Rincorso da un pugnale di malinconie, attendo di sparire presto in un cielo striato di nuvole e colorato di raggi di sole. Non parlo più con nessuno. A volte c’è un non luogo a discutere, una solitudine del pensiero che si perde nel vuoto. Come in questo giorno agostano dal vento caldo, con la luce del sole sporcata dalla tardiva aratura sulla montagna. Cammino pestando a caso i sanpietrini divelti dal tempo, non c’è suono umano nella piazza che attraverso lento e pensoso, occupata da qualche malinconica auto demodé. Il silenzio impera, rotto da un flebile riecheggiare di vita stanca nelle case. Ripenso a lei, il mio unico amore, alle nostre considerazioni sulla vita, le utopie, le risate. Nei miei silenzi riascolto la sua voce, la ricerco ovunque. Ha reso invisibili le inevitabili imperfezioni della mia anima. Brividi percorrono il pensiero di quell’amore incondizionato. Era apparsa in un pomeriggio di un tranquillo finale d’estate. Nessuno ha mai creduto al racconto di quella mia esperienza incredibile.
Ricordo bene la prima visione di lei in una giornata di mezza estate, di lenta movida, assente di qualsiasi luce. La piazza piena di gente ferragostana, apparentemente spensierata, attraversata da bevute, chiacchiere, sigarette, risate. Tutto scorreva indolentemente tra quelle facce. Voltando il mio sguardo a panoramica sullo zibaldone umano vociante la vedo, smorzo il respiro in stupore. Chiedo di lei, si chiama Lana, è in vacanza.
Non ricordavo di aver mai visto un tale intessimento di cellule, piedi così sensuali, un volto indimenticabile. I suoi occhi tristi mi accecarono, il sorriso d’acqua limpida scorse tra il greto del mio destino, una bellezza tale non poteva donarsi tristezza. Eppure in quegli occhi abissali si celava una distonia esistenziale, una malinconia che pugnalava lo sguardo di tutti quelli che erano costretti a guardarla. Continuai a fissarla, intontito da quella luce, fino a quando non andò via accompagnata da un nugolo di persone insperatamente desiderose di un suo sguardo, di una sua risata. Era di un’eleganza d’altri tempi ma imprigionata in un incubo. Dopo la visione di questo arazzo filigranato di femminilità sentivo che qualcosa di bradisismico si era verificato nel mio universo interiore. Qualcosa di rivoluzionario sgomitava in me. Sentivo un’alchimia di sogno, amore, libertà.
Nei giorni successivi il pensiero di lei tracciava sul prato della mia immaginazione la sensuale geometria ellittica delle sue labbra michelangiolesche. Le mie parole mentalmente affrescavano i suoi occhi d’infinito. Annegavo nella realtà divenuta improvvisamente luogo comune. Giorni di solipsismo tessevano le mie radici da sempre aride di vero amore. Iniziai a perdermi nella ricerca di quella provenienza, sentendo che in quest’estate del mio lungo autunno interiore non volavo più con la mia solitudine. Leggevo libri a caso, cercandola tra le pagine, iniziando a scrivere, a colorare quell’immagine icasticamente salvifica che contrastava con l’inutilità fredda del sole sulla mia pelle. Ero sfondo di un paesaggio che sembrava perfetto ma inutile se disegnavo, ad ogni angolo, la sua luce lunga su di me. Riconoscevo in lei ciò che avevo sempre cercato. Ascoltavo esperienze solcate con altri anziani abituali mentre quell’iconografia improvvisa di donna era sempre nella meccanica dei miei pensieri, proiettandosi all’improvviso, scioccando la mia mente. Incrociai uno scritto su un antico muro “Attento a ciò che desideri, potrebbe avverarsi”. Ricordavo Moravia sussurrandomi attorialmente «Sai cosa si fa quando non se ne può più? Si cambia».
Una sera, seduto concentricamente nei miei pensieri, l’eco lontana di risa plastificate, appare Lana, saluta una ragazza, si siede, mi guarda. Fisso la sensualità delle mani immerse nei suoi capelli astrali, sfoglio pagine di libri mai letti impresse nei suoi occhi d’inenarrabile bellezza, scruto l’atmosfera bohemien della sua borsa mentre cerca sigarette bianche. La sua risata come un arcobaleno dopo la tempesta spezza il canovaccio dei gesti consueti, la metodica delle insicurezze ancestrali. Il fumo delle sue infinite sigarette assottiglia la quotidianità rendendola rarefatta, sento sindromi stendhaliane sulla mia epidermide ringiovanita.
Rimasta sola mi avvicino con il pretesto di accenderle una sigaretta. Inizio a coniare battute, ridiamo senza sosta, parliamo di tutto, per ore. Gli altri lentamente levitano via, il mondo dissolve il suo brusio. Provo una sensazione strana. Vorrei evaporare con lei, lontano da qui, dall’altra parte del mondo, unire i troppi intervalli delle nostre esistenze, debellare la nostra sensibile sofferenza, cercare il silenzio della verità tra noi, ubriacandoci di un vino fatto di acini di rabbiosa passione. La sua oltraggiosa bellezza, la sua fragilità ed inquietudine che può essere anche follia, ormai mi possiede. Sento materializzarsi il miraggio inseguito da una vita. Colloquiamo fittamente, ci scambiamo le urla dei nostri silenzi, inascoltate da ancestrali sentimenti destrutturati. Ripercorriamo le scelte di una vita, contestualizzate e non universali, la routine di sinossi sentimentali. Abbiamo coltivato le nostre solitudini come un fiore cannibale. Intorno a noi contenitori umani vuoti di abissi senza pensieri.
Ci alziamo, ci allontaniamo da tutto, intrecciando il sole caldo delle nostre mani, la bacio mentre affogo nel dolce naufragio del suo odore, nei gemiti dei suoi caldi pensieri. «Sei l’unica meta in cui si rifugia la bellezza» poetizzo nel suo orecchio. Scorriamo via mentre in lontananza una distesa di orgogliosi girasoli disvela il silenzioso panorama agricolo del tempo andato, soffocato da eliche giganti ed offensive che pugnalano l’aria di questa dolce estate. Invasioni abnormi che hanno stuprato per sempre la semiologia di un paesaggio con orizzonti ormai perduti. Vogliamo dare poesia a questi tagliatori d’aria, vestire di romantica passione questo scempio, fare l’amore tra questi invadenti mulini a vento. Ci liberiamo di tutto al ritmo dei nostri battiti che cantano l’emozione dell’incontro, la nostra pelle segue curve che tracciano un preciso confine sinusoidale nel turbine di movenze da danza dei sensi, vedo la genesi del mondo, lanciare il domani e guardare il passato lasciandolo andare lentamente in dissolvenza, vago nel suo corpo come un rabdomante che ha trovato l’essenza della sua esistenza. I nostri sensi sono un affresco incantevole sospeso in un caldo orizzonte che produce un’eco di desiderio immenso. Ci uniamo nelle grida assordanti dell’anima, vogliosi di lasciare il sipario strappato dell’esistenza per scendere disarmati tra la gioiosa crudezza dell’amore, rischiando, ma confessandoci di aver finalmente vissuto.
Con la bocca sulla sua ansimo un urlo «Andiamo, amore!». «Ma cosa accade?» domanda Lana baciandomi «Io ti amo – ribatto – ma devo andare!». Paralizzata da un brivido sussurra «Amore mio», in quell’attimo ebbi la certezza che è possibile provare nostalgia del presente. Sulla strada del ritorno non parlammo, non ci guardammo pur camminando attaccati. Il mio passo si faceva lento, col passare dei minuti sentivo che il tempo si stava rimpossessando della mia vecchiaia. Lei soffocava di amore la mia mano che, però, s’inarcava di anni mutando forma. Gettò sguardi di sospetto, intercettai il terrore della verità che sarebbe costato un addio tra noi «Sapevo di poter essere felice solo non esistendo – dissi tremulo – ma ora lo sono con te, esistendo». Si voltò, scattando fotogrammi di stupore, il suo sguardo sgranato dalla paura incontrò un pentagramma di rughe profonde da vecchio, alte sui miei occhi in cui aveva rifugiato per sempre la sua essenza di donna. Moltiplicò nella mente le sequenze della mia immagine che si stava modificando paurosamente. Conficcò le sue mani tremanti tra i miei capelli improvvisamente imbiancatisi, scorrendole sulla pelle del volto, del collo, avvizzitasi per l’età. «Ma sei un demone, un pazzo!» inveì indietreggiando mentre una lacrima colma di urla disperate le solcò il volto. I suoi pugni rabbiosi d’amore ararono il mio petto, spezzando le mie gambe al suolo. Tremando mi strinse nel suo grembo ancora caldo d’amore, mi prese le mani intrecciandole alle sue tanto forte da calcificare le nostre dita per sempre, si chinò su di me a formare un’unica figura umana sibilando «Io ti amo». Mi rialzò con fare materno, tornammo lentamente mentre albeggiava nel paese vuoto. Mi salutò con un bacio infinito. «Sono esistita solo con te» scandì, scavandomi gli occhi con uno sguardo d’addio. Si voltò, non ce la feci a raggiungerla, caddi, si dissolse inghiottita dai vicoli. Nel paese pulsa eterno lo spettro di quell’ultimo bacio, da anni attendo solo di sparire presto nel cielo striato e colorato di raggi di sole, per ritrovare il nostro amore.
Enzo Tommasone