(Articolo di Massimo Barile pubblicato nella Rivista Il Club degli autori n° 175-176 – Novembre 2007)
L’uomo che guardava dentro se stesso
«Se non posso esistere alle mie condizioni, l’esistenza è impossibile»
Le ombre che gravano su ogni uomo, e ancor più su ogni grande scrittore, sono sempre il segno evidente che i confini tra la gloria e la polvere, a volte, sono veramente sottili.
La chiave per comprendere ogni esperienza, tremendamente vissuta nella vita reale e non solo raccontata con l’immaginazione, è leggere tra le righe ciò che veramente vuole essere portato alla luce e messo in evidenza con parole che vanno dritte alla sostanza; e poi tentare di eliminare tutto ciò che di superfiuo è stato scritto come nel caso di Hemingway.
Tutto deve essere riportato nel suo alveo originale che aveva come imperativo «scrivere cose semplici in modo semplice», «scrivere solo di cose conosciute bene», per sconfiggere l‘«incubo del nulla».
Vi sono esperienze alle quali non si può sopravvivere. Quando tutto pare non avere più un senso. Dopo aver vissuto l’avventura personale, toccato ogni avvenimento, oltrepassato i limiti pericolosi, ecco che il vivere quotidiano perde ogni seduzione. Si può continuare a vivere solo grazie alla scrittura come se le illuminazioni che offre, gli spiragli carpiti dal luogo tenebroso che ci attende, i frammentari stati d’animo che ancora si salvano per alimentare quel poco di materia che è il nostro corpo, diventano ormai l’ultimo baluardo creativo, la momentanea salvezza dagli artigli della morte.
L’immagine tragica dell’esistenza che diventa “necessaria”, la costrizione a trovare un “nuovo” modo di vivere che non si immagina neanche, la sofferenza come uno stato di solitudine interiore che nessuno e niente può ormai attenuare.
Il sangue scorre nelle vene ma la mano non scrive più. L’esplosione dei pensieri guarda alle ferite, alla
continua sanguinante lotta per la vita, contro la vita.
L’uomo avventuroso, l’ardimentoso, lo scrittore capace d’un dinamismo esasperato fino al parossismo, si ritrova incapace di vivere una rassegnazione alla mediocrità del monotono vivere quotidiano, dell’abituale muoversi dentro quattro mura che diventano prigione mentale, limitante spazio alle gesta, alle imprese. L’inevitabile sortilegio demoniaco conduce al crollo.
Nei momenti di contemplazione quando l’unica compagnia è il ticchettio d’un orologio che scandisce il tempo “che manca”, quando il mistero della vita rimane insondabile, il dramma dell’uomo è nudo ed è in quel momento che si avverte l’assurdità del divenire. La constatazione che il tempo comprime il nostro essere, che è ormai appurata la nostra incapacità a continuare la stessa storia, non resta che la solitudine, l’abbandono al nulla, l’espansione d’un unico suono che è il rintocco della “campana” da un universo senza tempo.
Occorre il coraggio di guardarsi allo specchio senza mentire. Lo scintillìo della falce della morte farà il resto. Su richiesta della rivista Life che voleva dedicare un intero numero ad un solo scritto, le bozze de Il vecchio e il mare furono lette, tra gli altri, anche da James Michener, in una baracca sperduta tra le montagne della Corea del Sud, e quella storia d’un vecchio pescatore che cercava di catturare un grosso pesce e lottava per difendere la preda dagli squali, facevano capire chiaramente che ci si trovava di fronte ad un autentico miracolo che scrittori di grande talento ogni tanto riescono a fare. Il vecchio e il mare, scritto in otto settimane senza tornarci mai su, era “il” capolavoro.
Hemingway era appena stato stroncato per Di là dal fiume e tra gli alberi anzi la critica aveva perfino messo in discussione la sua legittimazione a continuare a pubblicare.
La vita buttava in altro modo ed Hemingway potè mandare all’inferno i critici.
Hemingway, il negromante che usava trucchi alla Balzac, che ricordava gli artifici di Tolstoj, lo scrittore capace di creare un nuovo modo di scrivere e, dopo di lui, molti si sono sempre affannati a sottolineare che pur ritenendosi bravi come lui, non volevano imitarlo salvo poi scrivere nello stesso stile. Ma Hemingway era unico. Quando nel 1959 Hemingway tornò in Spagna e, durante una bella estate in cui già erano palesi i sintomi del male che lo avrebbe condotto alla fine, scrisse Un’estate pericolosa per la rivista Life, ci si trovò davanti alla descrizione della corrida storica del 14 agosto del 1959 che è una delle cronache di corride più suggestive ed esatte che siano mai state scritte.
Un uomo vigoroso, diventato leggenda di se stesso, ritornava sulla scena. Ma non era la stessa cosa perché il tempo non può essere fermato, lo scorrere della vita lascia segni indelebili, ferite laceranti: ed è stato impossibile creare e miscelare o solo possedere un antidoto per una malattia autodistruttiva. Il filo psicologico che accomuna tutta la sua opera, il simbolo del tempo perduto, la figura di un uomo inghiottito dal caos del continuo spostarsi alla ricerca di chissà cosa, la funzione salvifica della letteratura, fino ad un certo punto però: un compagno pronto a seguire qualsiasi avventura, pronto a condurre in ogni luogo, sempre con sè l’amara constatazione della provvisorietà dell’esistenza.
Il carattere di Hemingway, spavaldo e malinconico, la sua spacconeria, la sua inclinazione a sfidare spesso a fare a pugni, la sua intolleranza, l’ossessione per la morte, la sua straordinaria generosità con chi riteneva degno di rispetto come quando a due amici, uno che voleva diventare un torero famoso e l’altro un fotografo di animali, Hemingway regalò un assegno di cento dollari e quando tentarono di ringraziarlo, l’unica cosa che disse fu «buena suerte».
E sempre ritorna alla mente la domanda d’un giornalista tedesco durante una lunga intervista: «Hemingway, può esprimere in sintesi le sue opinioni sulla morte?». E lui così aveva risposto: «Sì, una puttana come le altre». Niente di più e niente di meno. La parola che diventa saetta che spacca il cuore in due, lama tagliente che incide la carne, fulmine che riduce in cenere. Voce solitaria d’un mondo che “non è il suo” ma proviene da un regno ignoto dove non sono concesse pause, dove non è previsto nessun genere di tregua, sempre in cambiamento sempre dibattendosi in una temporanea sopravvivenza, in una lotta immane ed impari con una entità misteriosa che sovrasta, che rende impotenti davanti alla realtà, ai sogni, alle speranze. Il continuo gioco “della vita e nella vita”, tra manovre di prestigio, trasferimenti del proprio corpo qua e là per il mondo, in una incessante rincorsa che già conosceva il fatidico capolinea: e le fermate non erano poi così importanti, perché, in fin dei conti, Parigi poteva essere Venezia, Kansas City come Pamplona, Nairobi come Madrid, Toronto come l’Avana.
Nulla avrebbe fatto venir meno la romantica vita evasiva d’un uomo capace di stare in equilibrio anche sul fango. La ricerca era rivolta alle motivazioni nascoste dell’uomo, alla sua propensione a non voler essere soffocato dal gioco. «Stavo cercando di scrivere. Incontrai una grande difficoltà; a parte il fatto che non sapevo ciò che realmente provavo, invece di quello che avrei dovuto provare, si trattava di buttar giù ciò che realmente avveniva; cosa era in realtà a provocare l’emozione che provavo… quel quid che provoca l’emozione – la sequenza dell’azione e dell’avvenimento – e che sarebbe rimasto valido sia a distanza di un anno che di dieci, o, con un po’ di fortuna, e se descritto con sufficiente purezza, per sempre, si trovava al di fuori di me e stavo facendo sforzi disperati per afferrarlo» come scrive in Morte nel pomeriggio. E lui, con un gilet da pescatore, scarponi anfibi ai piedi, camicia di fianella con disegni a scacchi, fanciullescamente intento a dare un calcio ad una lattina vuota e farla volare in alto: ecco la metafora, la realtà dell’esistenza, la vita può farci volare liberi e allo stesso tempo può schiacciarci come una lattina vuota. Hemingway usava le immagini delle montagne, del mare, dei paesaggi della natura per riconfermare la visione del tempo e l’effimero esistere dell’uomo: e infine la presa d’atto che «una generazione svanisce e un’altra generazione viene: ma la terra dimora per sempre».
La battaglia del pescatore Santiago con il pesce spada dura per molto tempo nella corrente del mare che si muove di continuo; Robert Jordan muore tra la brulle e desolate montagne della Spagna; Richard Cantwell muore al di là del fiume: è un gettarsi oltre, come a proiettarsi al di fuori del tempo umano.
La limitata e limitante esistenza umana vengono racchiuse in una nuova dimensione del tempo, nella «terra che dimora per sempre».
Mentre passano gli anni, l’Uomo finisce per diventare una figura solenne, un famoso scrittore, ma la vita sempre conduce alla terra, al ritorno alla polvere, e quando ci si accorge che non si ha più niente da dare, più niente di buono da scrivere, quando non c‘è più la “freschezza” ma rimane sono la melmosa verità d’ogni istante non rimane che gettarsi nel nulla per andare incontro all’ultima immane vertigine.
Scrivere rappresentava per Hemingway il modo di avvicinarsi alla sua identità, cercare di trovare le cose che non poteva perdere, scoprire se stesso attraverso le sue metafore e il resoconto della sua
esperienza, vedere finalmente la propria immagine in modo chiaro e preciso: guardava dentro di sè con intensità nello stesso momento in cui stava scrivendo, come un esploratore che procede in un nuovo territorio e non ha una sicura mèta anche se sa molto bene dove vuole arrivare ma non conosce quello che potrà incontrare lungo il suo cammino.
È sufficiente leggere ciò che scrive Hemingway: «Se un autore può rendere vive le persone, può darsi che nella sua opera non ci siano dei personaggi di rilievo, ma è possibile che la sua opera rimanga come un tutto unico, come entità, come romanzo…
Non importa se le sue frasi ed i suoi paragoni saranno belli o meno. Può essere capace di fare delle frasi e dei paragoni belli quanto gli pare, ma se li introduce dove non sono strettamente necessari ed insostituibili, egli rovinerà la sua opera con il suo egoismo. La prosa è architettura, non arredamento interno… I personaggi di un romanzo devono essere proiettati dall’esperienza assimilata, dalla coscienza, dal cervello, dal cuore dello scrittore e da tutto ciò che c‘è in lui. Se ha un po’ di fortuna e di serietà e riesce ad estricarli completamente, avrà più di una dimensione ed essi dureranno più a lungo».
Hemingway parla al cuore, tramuta il silenzio e il vuoto della realtà in avventura continua ed esaltante, e la memoria poche volte ritorna sul luogo dell’azione, forse solo nel caso del ritorno nella terra di Spagna a scrivere della corrida con grande maestria: una forma di nostalgia (della quale forse si pentì) che si traduce in una esperienza pura, assoluta, vibrante, ardente.
Hemingway riesce in una sorta di miracolo, in una impresa straordinaria: seppure incatenato all’amore per il rischio e inebriato dall’avvincente sfida della vita, rimanda a noi, come immagine rifiessa da uno specchio della storia, l’uomo che “non tenta” di allontanarsi dal giogo della solitudine.
«Non sognava più tempeste, nè donne, né grandi avvenimenti, né grossi pesci, né zuffe, né gare di forza e neanche di sua moglie. Ora sognava soltanto luoghi, e i leoni sulla spiaggia… Poi sognò di essere al villaggio nel suo letto e c’era la tramontana e faceva molto freddo… Poi incominciò a sognare la lunga spiaggia gialla e vide il primo leone giungervi sul far del buio e poi giunsero altri leoni e lui stava col mento sul legno della prua dove la nave giaceva ancorata sotto il vento serale che veniva dal mare e aspettava di vedere se sarebbero venuti altri leoni ed era felice». Perché «l’uomo può essere ucciso, ma non sconfitto».
Nel 2009 il governo cubano terminerà il restauro della villa di Hemingway che sorge sulle colline vicino all’Avana. Inutile dire che vi sono numerosi cimeli, una biblioteca di novemila volumi e la macchina da scrivere usata per Il vecchio e il mare.
Nella casa di Key West in Florida, dove Hemingway trascorse gli anni Trenta con la seconda moglie Pauline Pfeiffer e dove scrisse Addio alle armi, i discendenti di Snowball, il famoso gatto a sei dita, dominano ancora tutto il territorio, terrorizzano gli altri gatti e infastidiscono i “poveri” turisti. Pare che Snowball si sia “reincarnato” in Ivan il Terribile e sia troppo feroce, troppo libero.
Sono sicuro che non finiranno in gabbia come vuole il Ministero dell’Agricoltura. E se questa sarà la sorte che li attende, offrendo il dono della parola ai felini, così sarà la risposta dei discendenti di Snowball: «Meglio la morte che la gabbia». Proprio come lui. Hemingway.
Massimo Barile