VERTIGINE
Mucchio di papaveri sbrecciati in un canto,
tenue sorge una musica che avevamo dimenticato,
la musica del nostro principio.
E non importa se a dirlo in versi è una malinconia,
fu il passaggio e la rosa d’ombra credo
inseguita nel suo dislessico sfiorirsi addosso.
Come quando sulla punta dell‘addio
germoglia il ritorno o come quando la lama dell’attimo
sembra perpetuarsi ben oltre la sua eco.
È una forma di gloria, io credo,
la luccicanza dell’abbandono in tenebroso serpente,
in fantasioso stordimento di forme,
laggiù, spazzate via…
La nostra materia è un filo appeso all’infinito,
un refolo di vento la spezza.
Noi siamo soli
nel guscio della vertigine.
ADOLESCENZA
Questo ricordo di fiamme nel sangue,
quando l’alchimia del verbo evaporava
rugiada su uno stelo di preghiera,
e la mente era un alterco
fra la mia caricatura sediziosa
e il fantasma di me stesso,
tacendo il limite di morte
spesse volte in estasi truccate.
Vidi natività di serpe nel fogliame
farsi auspicio di sapienza,
nei bassifondi stregata
dell’eterno mutamento;
e una candela rischiarava
fogli pieni di illeggibile
scrittura in cerca di visione.
E poi ricordo che c’era una ragazza,
che chiamava il mare goccia
d’infinito, e poi rideva.
AMNIOS
Sillabe fra i chiaroscuri del non detto
dove una parola raduna gesti e sguardi.
Qui dove il tempo duole e romba, è deserto.
Là dove la parola è in ascolto, è sorgente.
Nell’impazzita tenebra che canta
questo murmure fremente di lapis,
o altrove un segreto in punta di penna.
Così conosco la solitudine siderale
dello specchio in cui annegò Narciso.
In questo labirinto dove scrivo
nessuno sa se ci si perda o ci si ritrovi.
Qui dove l’ombra nell’anima s’inselva,
che fu stella, nell’amnio del silenzio,
ancora germogliano la danza,
la nascita e la tempesta
e io cerco la parola straniera
che disseti gli oceani
che furono i suoi occhi,
nell’infanzia che non rise
e che non scelse.
Dunque è così che si diventa simboli, sognando.
Oh principesse vagabonde, dal cuore abolito.
BORGES
Sfingi d’ocra nel terriccio
anime schiuse corolle
l’epiteto è “il silenzioso”,
cieco curvo sulle carte
i labirinti a rinnovarne.
In questa Buenos Aires di colombe,
di vicoli dritti all’enigma,
spaventarsi,
se ogni tanto ci rimanda lo specchio
di Asterione l’immagine, il cranio di un corvo,
o una Dublino dolcemente spettrale
dove l’ultimo pensiero di Bloom
aleggia poco prima dell’alba.
Vecchio sulla cifra degli specchi
innumerevoli e annosi;
nume Pessoa delle maschere
altrove ugualmente vivendo
l’ultima chance delle ombre.
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