La figlia del destino

di

Fabiola Liuzzi


Fabiola Liuzzi - La figlia del destino

14x20,5 - pp. 194 - Euro 13,50
ISBN 978-88-6587-9832

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In copertina: «Autumn fantasy girl, fairy in blowing chiffon dress» © Subbotina Anna – stock.adobe.com


Ringraziamenti

Un grazie immenso va ai miei genitori senza i quali tutte queste parole sarebbero rimaste nel mio computer. Grazie a Cristina e Lia, che mi hanno aiutata a studiare la situazione con occhio critico sin dal suo inizio e mi hanno sostenuta durante il percorso valutando con me ogni più piccolo particolare. E infine grazie a tutti i miei fantastici amici, vicini e lontani, che mi sono rimasti accanto anche quando tutto rischiava di scivolare via, credendoci e incitandomi più di quanto potessi sperare, grazie a tutte le persone che si sono interessate anche solo per un attimo.
Grazie ad Alessia, Sara e Arianna, e grazie a Silvia, la mia prima “critica letteraria”.


Prefazione

Fabiola Liuzzi offre un romanzo decisamente accattivante e ben architettato, sia in relazione ai personaggi che alimentano la narrazione, come alle varie vicende che si susseguono senza sosta, in un continuo alternarsi di colpi di scena.
Le atmosfere dark ammantano l’intero romanzo e si miscelano con l’intenzione della scrittrice di presentare un’ambientazione cinematografica, seguirne i ritmi incalzanti e le scansioni delle varie scene: tale volontà prevede un costante impulso alla trama con l’inserimento di eventi inaspettati e misteriosi che rendono coinvolgente l’intera narrazione.
Emerge chiaramente la profonda passione per la scrittura da parte di Fabiola Liuzzi, sempre protesa a rendere elettrizzante la sua narrazione grazie ad una propensione al fantastico con risvolti collegati alla Magia ed a poteri sovrannaturali dei protagonisti, nonché alla inevitabile presenza del Male, incarnato da un mago oscuro che tiene il mondo sotto minaccia, nell’eterno scenario della lotta del Bene contro il Male.
Durante il processo narrativo Fabiola Liuzzi riesce ad appassionare il lettore e a renderlo partecipe delle numerose vicende che si trovano a vivere i protagonisti: fortemente avventurose, decisamente misteriose e magiche, sovente elettrizzanti.
Il teatro del romanzo è la città di Sidney dove la protagonista, una ragazza sedicenne che si chiama Harrynia, è incuriosita dall’arrivo di Renè, un nuovo compagno di classe che il professore afferma “venire da molto lontano”.
Poco tempo dopo, Harrynia incontra due strane figure, una donna e un uomo avvolti da lunghi mantelli, dal comportamento misterioso, che sembrano cercare qualcosa di molto importante: lei scoprirà in seguito che si tratta del famoso libro del Mago Ashton.
Gli avvenimenti si susseguono e inizia a delinearsi l’oscura trama con imprevedibili verità, fino ad allora, tenute celate, che fanno luce sulla vera storia di Harrynia Turner: lei scopre che è stata lasciata alle amorevoli cure di Emily, praticamente diventata la madre adottiva, quando aveva solo un mese di vita, inoltre, verrà a conoscenza del fatto che i suoi genitori sono morti durante la guerra contro il mago tiranno Ahston, ed ora, il suo seguace Omega vuole portare a termine la missione.
La verità inizia ad illuminare la storia e la trama s’intreccia, tra normali vicende adolescenziali e misteriosi sogni, fin quando si capisce che è giunto il momento che i sette fratelli e sorelle di Harrynia, finalmente, si riuniscano: lei è già la quinta, dopo Kaleb, Alice, Luke e Page, ed, ormai, ne mancano solo due.
La storia s’infittisce ancor più con nuovi eventi che metteranno in luce i poteri magici dei protagonisti, costantemente calati in avventure tra magia, mistero e forze oscure.
Nel continuo evolversi della storia Fabiola Liuzzi continua a rendere elettrizzante la sua narrazione con nuovi colpi di scena, fino alla immancabile storia d’amore tra Harrynia e Renè, che diventa sigillo narrativo.
Credo siano sufficienti questi brevi cenni alla trama per far capire quanto sia avvincente il romanzo “La figlia del destino”, grazie al quale Fabiola Liuzzi mette in mostra le sue doti narrative, la sua creatività e la capacità di “inventare” storie fantastiche, sempre seguendo l’alterno gioco narrativo tra mondo reale e dimensione immaginifica.

Massimo Barile


La figlia del destino


A mio padre,
senza di lui non ci sarebbe
nemmeno la prima riga.


PROLOGO

Mi misi lo zaino in spalla, mi chiusi la porta alle spalle e mi fermai sulla soglia, a guardare il cielo plumbeo che incombeva sulla città di Sidney: una leggera pioggerella autunnale cadeva in un mese di aprile molto poco soleggiato.
Odiavo quando l’autunno risultava essere grigio e piovoso, era così bello quando invece si vedevano i colori e si sentivano i profumi.
Mi tirai su il cappuccio della felpa e iniziai a camminare verso la scuola, fermandomi solamente per comprare il giornale che Emily, da buona infermiera, usava per tenersi aggiornata su tutte le ultime novità mediche in circolazione.
La città, anche con il brutto tempo, rimaneva viva e rumorosa, seppur abitassi in una delle zone più tranquille e lontane dal bellissimo e trafficato centro, era un’allegra via fiancheggiata da piccole e colorate villette che si susseguivano per chilometri, formando un lungo serpente vivace che si inerpicava per le zone più o meno in salita di Sidney.
Quando superai la soglia della scuola, salendo gli ultimi gradini dell’ingresso, il cappuccio e le ciocche di capelli ricci che sbucavano sulle spalle erano completamente fradici, lasciai la felpa bagnata nell’armadietto e feci per chiudere l’anta, quando la faccia sorridente di Matt sbucò da dietro e mi fece sobbalzare.
“Matt!”
“Comprato il giornale?” in risposta glielo sventolai davanti al naso.
“Andiamo, Lesly e Joe sono già in aula.”
Quando raggiungemmo la classe, regnava il caos: ragazzi che si lanciavano palline di carta, altri che percorrevano a grandi balzi la classe saltando da un banco all’altro, e un gruppo di ragazze inebetite a guardare tutte nella stessa direzione.
Quando seguii il loro sguardo ne capii il motivo: c’era un nuovo ragazzo seduto al banco di solito occupato da Matt, che sbuffando si accasciò su una delle due sedie tenute libere da Lesly.
Il tizio nuovo sembrava crogiolarsi il più beatamente possibile nelle attenzioni delle simpatiche ochette che ora che lui si era alzato, mostrando nella sua totalità il suo fisico slanciato e prestante, avevano se possibile, gli occhi ancor più sognanti.
Mi sorpresi anch’io a guardarlo quando questo si girò di scatto e puntò i suoi occhi nei miei, sorrise quasi sbuffando, come a sottolineare quanto io fossi assurdamente insignificante e tornò alle sue attenzioni.
“Chi è?” chiesi a quel punto a Lesly.
“Non ti saprei dire, è arrivato stamattina sulle note della marcia trionfante,” rise tra sé, “ci hanno messo dai tre ai cinque secondi a dimostrarsi così amorevoli” mi avvisò, facendomi segno di sedermi.
Il professore entrò in aula proprio mentre Matt stava per fare una delle sue solite battute sarcastiche, che avevano lo scopo di far ridere solo lui, ripristinando il silenzio.
“Oggi avete un nuovo compagno, viene da lontano, spero sappiate accoglierlo con entusiasmo.”
“Oh eccome…” bisbigliai con le braccia incrociate dondolandomi all’indietro sulla sedia.
“Renè” si presentò lui.
Un coro di benvenuto si alzò all’unisono dalle prime file.

“Ma siamo seri!?” chiese Matt, eravamo usciti dall’aula e stavamo raggiungendo gli armadietti.
“In che senso?” Joe non capiva. “È un bel ragazzo, è normale che abbia tutte quelle attenzioni” scrollò le spalle.
“Beh, non proprio tutte quelle attenzioni, c’è chi ha ancora un po’ di dignità…” commentai io, controllando la mia felpa, prima zuppa, ora finalmente asciutta.
“Non puoi negare che sia di una grande… attrattiva” sentenziò Lesly chiudendo il suo armadietto.
“Non lo nego, dico solo che una reazione del genere è un tantino… spropositata” la guardai allargando gli occhi.
“Ma certo che lo è!” Matt sembrò essere d’accordo, ma non riuscii a capire fino a dove arrivasse il suo reale giudizio e dove iniziasse il suo tentativo di compiacimento nei miei confronti.
Proprio in quel momento a fianco a noi passò il ragazzo nuovo, lo si sentì arrivare prima di vederlo, non tanto per lui, quanto per il vociare agitato che lo precedeva lungo i corridoi: era come il cibo per i pesci in un acquario.
Sorrisi al pensiero, ma il riflesso di voltarmi per capire che stesse succedendo fu quasi automatico e ancora una volta mi trovai incastrata tra due occhi così profondi da cui sembrava impossibile uscirne.
Sostenne il mio sguardo fino a quando non sparì nella curva del corridoio.
Quando ripresi il controllo del respiro, chiusi l’anta dell’armadietto e mi avviai verso l’altra aula, scuotendo la testa.

Quando finalmente uscimmo da scuola, la pioggia non era diminuita, mi alzai il cappuccio sulla testa e uscii dal portico affollato, fortunatamente o stranamente Matt non era nei paraggi.
Volevo bene a quel ragazzo, ma in quel periodo era diventato più fastidioso, con i suoi continui tentativi di compiacermi, di farmi complimenti o di invitarmi per vedere mostre, musei, parchi o qualsiasi altra diavoleria che servisse ad attirare la mia attenzione.
Sembrava non sapere accettare un no come risposta, in altre occasioni avrei ammirato la sua determinazione, ma non in questo caso.
Feci per saltare la piccola pozza d’acqua che si era creata sul marciapiede ma andai a sbattere contro qualcuno che si ritrasse di scatto, come se si sentisse ustionato dal nostro contatto.
Quando ripresi l’equilibrio alzai gli occhi, giusto in tempo per scusarmi e vederli in faccia, erano un uomo e una donna, così strani che era impossibile non fermarsi a guardarli: avvolti da lunghi mantelli neri di pelle, con alti stivali che arrivavano fino alle ginocchia e un viso così contrito che sembrava stessero cercando qualcosa caduto a terra.
Ignorarono il mio sguardo stupito e si dileguarono sparendo nella pioggia fitta.
Non ero l’unica ad essere rimasta sorpresa dal loro atteggiamento, qualche passante si era fermato a seguire con lo sguardo i due, che dopo pochi passi sparirono dalla strada principale, infilandosi in una via più piccola.
Una volta davanti a casa attraversai il breve vialetto correndo e mi riparai sotto la piccola veranda che precedeva l’ingresso, cercai le chiavi, aprii la porta precipitandomi all’interno.
L’andamento a passo spedito non era servito a niente nel vano tentativo di evitare la pioggia che si era infilata fin sotto la giacca.
Lanciai lo zaino sul divano, afferrai la prima cosa commestibile che trovai in cucina e mi fiondai su per gli scalini, fino alla mia stanza.

Emily quella sera non tardò molto, c’era poco lavoro, aveva detto.
“Tu, come è andata oggi?”
“Matt persevera, mi spiace dovergli sempre tarpare le ali, ma io non provo quello che prova lui” spiegai, sistemando i piatti per la cena.
“Ti capisco, ma capisco anche lui, è giusto provarci, rimpiangerai sempre di non averlo fatto altrimenti” disse riempiendo la tavola della spesa appena fatta.
Sbuffai divertita per quanto fosse vera quell’affermazione, ripensandoci chiunque si sarebbe comportato come Matt, Emily purtroppo per me, era sempre stata saggia.
Era il contrario di me, era una di quelle cose per le quali la gente si accorgeva subito che lei non era mia madre e forse era proprio per questo che parlavo con lei di tutto con estrema facilità, più di quanto una figlia potesse fare con una madre, eravamo più libere e sorprendentemente unite.
Emily era sempre stata sincera con me, non mi aveva mai nascosto il fatto di non essere sua figlia, fin da quando avevo acquisito la capacità di intendere e volere.
Non sapeva cosa fosse capitato ai miei genitori veramente: l’uomo che mi aveva lasciato davanti alla sua porta sedici anni prima, quando avevo poco più di un mese, un ragazzo di pelle chiara, occhi castani e folti capelli tendenti al biondo, aveva detto che erano morti, lei non ci aveva creduto veramente, ma né di loro, né dell’uomo, c’era mai stata traccia, in più non aveva avuto molta scelta: prendere o lasciare.
Poi le autorità avevano concesso a lei di tenermi e infine mi aveva adottata a pieno titolo, ero contenta fosse andata così, quella ragazza sulla quarantina era adorabile, capelli tendenti al rosso, lunghi e mossi, occhi verdi e temperamento forte e deciso.
Era un caso particolarmente strano il mio, non era uno di quelli in cui un misterioso uomo lascia una bimba davanti ad una porta, qualcuno si era preso la responsabilità di farsi vedere in faccia, senza stare a specificare i dettagli della faccenda, ma era comunque piuttosto strano.
‘Uno di quei casi in cui sembra che chi abbandona non voglia in realtà farlo’ mi aveva spiegato Emily.
La cosa non mi infastidiva comunque, Emily era tutto ciò di cui avevo sempre avuto bisogno.

La mattina dopo, l’ingresso nella nostra classe fu più difficile del previsto, capannelli di ragazze urlanti stavano facendo a gara per accaparrarsi i posti più vicini a Renè senza nemmeno che lui fosse ancora arrivato, semplicemente basandosi sul posto che aveva occupato il giorno prima.
Dovevo ammettere che quella situazione cominciava a farsi interessante e assolutamente esilarante, mi sedetti in un banco libero e mi soffermai a guardare le mie compagne, riuscivo già a vedere la fila di cuori spezzati e di anime infrante e tradite da un amore non corrisposto.
Non mi accorsi nemmeno di come gli sguardi improvvisamente si fossero spostati dalla porta a me.
Sobbalzai un secondo, poi mi guardai attorno e mi accorsi del perché: Renè era entrato nell’aula e si era seduto proprio nel banco accanto al mio.
In quel momento Lesly, Joe e Matt, fecero capolino dall’angolo dell’ingresso e alla massima velocità consentita dai loro piedi, si accomodarono con una malcelata grazia da ballerini di danza classica e si voltarono verso Renè.
“Piacere ragazzi” cominciò lui con un sorriso tanto ammaliante quanto dipinto a pennello per l’occasione.
Effettivamente, a guardarlo da vicino, capivo meglio le mie compagne già innamorate di lui, era uno di quei ragazzi che non sono mai nella tua scuola, uno di quelli che è sempre nella scuola di qualcun altro, uno di quelli che alla fine ti convinci che non esistono veramente.
“Sono Renè.”
“Oh, sappiamo bene chi sei.” Lesly fu la prima ad allungare la mano e a stringerla alla sua: “Lesly”.
Joe sembrava tanto allegro nel fare nuove conoscenze, da oscurare perfino Matt, che era di tutt’altro parere.
“E tu…?” allungò una mano verso di me.
“Har” dissi sorridendo appena, la mia reazione sorprese persino me.
“Nome singolare. Che sta per…?” puntò i suoi occhi nei miei.
“Harrynia” svelai stringendogli la mano.
“Renè” ripeté lui.

Non sapevo esattamente quale fosse il problema, forse il problema stava proprio nel fatto che non era la prima volta che mi capitava, il che aveva solo due spiegazioni: o stavo diventando pazza o gli oggetti si spostavano da soli.
Quindi stavo diventando pazza.
Un attimo prima ero sdraiata sul letto con la schiena rivolta al comodino, osservavo la pioggia cadere veloce e infrangersi sul vetro, per poi unirsi al piccolo rivolo che scorreva sullo stipite inferiore, quando sentii il telefono iniziare a squillare, l’avevo scordato in bagno, ne ero quasi sicura, finché nel girarmi non lo vidi sul comodino.
Era impossibile stabilire con certezza se fosse sempre stato lì, ma il dubbio ricadeva comunque sulla mia imminente pazzia.
La volta precedente era successo con il mio zaino: alla mattina, convinta di averlo lasciato al piano di sopra, in camera mia, avevo fatto di nuovo le scale per poi a metà rampa accorgermi che quello era buttato sul divano in salotto.
Non ci avevo dato molto peso la prima volta, tutti si dimenticano di aver fatto o meno qualcosa nella giornata, ma non capitava a tutti due volte nella stessa settimana.
O almeno non capitava alle persone normali, ma io stavo diventando pazza.
Scrollai le spalle prima di rispondere al telefono.
“Har?”
“Sì, Emily, dimmi.”
“Senti, non riesco a uscire dal lavoro, abbiamo un’emergenza, passi tu a fare la spesa?”
“Davvero?” alzai gli occhi al cielo, guardando fuori dalla finestra, pioveva come se qualcuno tirasse giù delle secchiate.
“Sì, per favore. Non abbiamo più niente in casa.”
“Va bene, va bene, solo perché sei tu” sorrisi alla parete, avrei fatto di tutto per lei.
Mi vestii in fretta e lanciai il telefono nella borsa prima di uscire.
Il supermercato non era molto distante da casa, ma questo non impedì alle mie scarpe di diventare due pozzanghere ambulanti e, quando entrai, avevo solamente molto, molto freddo.
Raccolsi in fretta ciò che mi serviva e mi precipitai alla cassa, in men che non si dica ero di nuovo sulla strada per il ritorno e non stava più piovendo.
Mi fermai al semaforo e alzai la testa, spostando gli occhi da un lato all’altro della strada e sobbalzai.
Quante probabilità c’erano di incontrare due volte in due giorni, le stesse persone?
Anzi, le due stesse strane persone?
Stavolta non erano più intente a cercare qualcosa che avevano perso, erano semplicemente immobili a guardare proprio nella mia direzione.
La donna aveva uno sguardo così furioso, che mi venne il dubbio di averli già incontrati in qualche mondo parallelo e di aver fatto loro un torto imperdonabile.
Ma proprio in quel momento, una mano si chiuse sulle mie buste della spesa e alleviò il peso.
“Lascia che ti aiuti.” Un tuono risuonò insieme alla sua voce, alzai la testa, mentre Renè si sollevava di nuovo togliendomi di mano le buste di plastica.
Non ricordai più di controllare dove fossero finiti i due.
“Renè…”
“Vedo che ti ricordi il mio nome.”
Che sbruffone, mi venne da pensare.
“Che ci fai qui?” gli chiesi, “Che coincidenza.”
“Non credo nel destino, Harrynia.”
“Chiamami Har. Allora devo ipotizzare che mi stessi seguendo.”
“Ho detto che non ci credo, non che non esista.” Abbassò i suoi occhi nei miei “Har” concluse.
“Sei un tipo strano, tu” osai.
“Uhm… mi dicono tante cose: affascinante, mostruosamente bello, idilliaco… ma strano… no, mai.”
Scosse la testa visibilmente, il suo atteggiamento era un misto tra autocompiacimento e irriverenza allo stato puro, era uno di quei personaggi che avrei odiato, se non fosse stato per…
Per che cosa?
“Che c’è?” chiese lui, quasi leggendomi nel pensiero.
“C’è che tu saresti normalmente nella mia lista nera, ma non lo sei, e non riesco a capirne il motivo.” Lo guardai di sottecchi, cercando di carpirne qualcosa, ma niente, un muro d’espressione.
“Forse perché sono affascinante, mostruosamente bello e idilliaco,” propose sorridendo. Sbuffai allibita da tutta quella dimostranza di autostima, se solo l’avessi avuta io.
“Come fai a essere così sicuro di te?” gli chiesi svoltando l’angolo della strada leggermente in salita che portava a casa mia.
“Solo… so essere molto… convinto di quello che faccio.”
“Direi anche convincente. Sono sicura che almeno una delle tue gallinelle nel pollaio che stai allestendo farebbe di tutto per te” dichiarai sommessamente.
“Sai essere molto ironica, ma è questo l’effetto che faccio, non posso farci niente.”
“Adesso non mi vorrai far credere che ti dispiaccia…”
“Oh no. Per niente a essere sincero.”
“Perché sei qui, a proposito?” alzai gli occhi nei suoi, aprendo il cancello del piccolo giardino, proprio mentre una goccia cadeva sulla mia mano.
In pochi secondi ricominciò a piovere così forte che dovemmo correre all’interno per ripararci.
Gli presi le borse di mano e andai in cucina, lui mi seguì senza troppe domande.
“Carino questo posto… Ci vivi da sola?”
Spostai la testa dal frigorifero a lui “Da sola?” alzai un sopracciglio. “Da quanto lontano arrivi esattamente? Tu pensi che a sedici anni si possa vivere da soli?”
“Chiedevo…” scrollò le spalle con fare così laconico che mi sembrò fin troppo sincero.
“Vivo con Emily, fa l’infermiera.”
“Perché non la chiami mamma?”
“Perché non lo è” gli risposi, chiudendo il frigo e portandomi alla credenza.
“E tuo padre?” Di solito, una persona normale, avrebbe chiesto dove fosse mia madre, cosa le fosse successo, lui no.
Alzai le spalle e allargai le mani “Non ne ho idea. Perché sei qui?” conclusi girandomi verso di lui.
“Ti ho vista, per la strada, quelle borse che ti piegavano la schiena, volevo aiutarti.”
“Mi piegavano… da dove arrivi?” nessuno si esprimeva più così.
“Da lontano.”
“Questo lo so, l’hanno detto, ma non è una posizione geografica.”
“È una posizione geografica strana.”
“Perché mi tratti come un’idiota?” sbottai “Non so nemmeno chi sei, sei dentro casa mia… e stai mangiando i miei biscotti senza che nessuno te l’abbia permesso!” Alzai una mano nella sua direzione, mentre rovistava nel sacchetto alla ricerca del biscotto perfetto.
“Appunto” rispose.
Lo guardai dritto negli occhi, occhi azzurri, profondi, veri…
“Fuori.” Lo spintonai verso la porta, fino a che sulla soglia lui non piantò i piedi.
“Piove” si lamentò.
“Giusto, i biscotti si bagnano” gli dissi, strappandoglieli di mano e chiudendogli la porta in faccia.

[continua]


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