Quando il presente finisce

di

Filippo Finardi


Filippo Finardi - Quando il presente finisce
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
15x21 - pp. 148 - Euro 11,00
ISBN 88-6037-083-3

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Avevo vent’anni, Non permetterò a nessuno
di dire che questa è la più bella età della vita.

Paul Nizan


A Franco Frabboni
che segnava i goals di testa



Quando il presente finisce

MEDARDO E ORIANA

Oriana era davanti alla porta di casa ad aspettare suo padre, quando lui comparve in fondo alla strada proveniente dal paese, accompagnato da un ragazzo.
La casa era tipica dei pastori, fatta di sassi tolti alla montagna. Da lì si irraggiavano vari sentieri, verso l’alto dei monti.
Medardo portava con sé una valigetta di cartone, nella quale era tutto il suo corredo. Remo, il pastore, era andato a prenderlo quella mattina, all’ospizio dei trovatelli, dopo che si era offerto, come tanti, di ospitare bambini di città, che non avessero mezzi o genitori, per evitare loro il dramma dei bombardamenti, che in quel periodo cominciavano ad essere piuttosto intensi. Lo stesso Mussolini, in un preoccupato discorso, aveva invitato gli italiani ad abbandonare le città, divenute pericolose. Quindi, chi poteva pagare, aveva affittato case ed appartamenti in campagna; gli altri erano rimasti a rischiare la vita sotto le bombe inglesi.
L’offerta che avevano fatto pastori e contadini, di ospitare ragazzi soli o poveri, non era del tutto disinteressata. Si era all’inizio dell’estate e molti uomini erano in guerra; qualche ragazzo per dare una mano nel raccolto o per sorvegliare le pecore poteva far comodo. Erano tempi duri e bisognava darsi una mano l’un l’altro.
“Ciao” disse Oriana, che aveva circa la stessa età di Medardo, “ti ho preparato la tua camera, di sopra; è quella di mio fratello che è soldato.”
Medardo ringraziò con un cenno della testa, perché era timido e nell’orfanotrofio, da dove veniva, non c’era l’abitudine di parlare molto.
Si sistemò rapidamente, infilando nei cassetti le poche cose che aveva, poi scese in cucina con gli altri, perché era ora di mangiare.
La moglie di Remo servì una minestra di verdura, “fatta con i prodotti dell’orto” disse, “le uniche cose di cui possiamo disporre sempre”.
“Sei mingherlino” gli disse Remo, “bisognerà darti delle uova perché tu cresca un po’.”
Quella sera Medardo si infilò subito fra le lenzuola di canapa ruvida, senza neppure inginocchiarsi a pregare, come era solito fare quando era dalle monache.
La stanza era piccola, ma vi era un’aria familiare tuttintorno, come non aveva mai provato nel camerone dove dormiva con sessanta ragazzi.
Il silenzio che veniva dai boschi, era interrotto solo dal suo respiro, da qualche rumore della vecchia madre in cucina, un secchio mosso, un oggetto posato sul focolare.
A mano a mano, che acquistava confidenza con la morbidezza del materasso pieno di lana e si rendeva conto di essere solo in una camera propria, sia pure per cause eccezionali e provvisorie, si sentiva dentro, crescere a poco a poco, brividi di piacere, che dal sangue alla pelle gli procuravano un vago indistinto senso di felicità, fino ad addormentarsi con le labbra aperte in un sorriso per lui insolito.
Così cominciò la vita in montagna di Medardo. La mattina si alzava all’alba per portare le pecore al pascolo. Si avviava su per il viottolo che conduceva verso l’alto dei monti, dove si trovavano dei prati e qualche ruscello. Restava fino a sera, in compagnia dei due cani del gregge, le cui origini erano impossibili da supporre, tanto erano mescolate in loro razze diverse e ormai confuse. A mezzogiorno mangiava il buon formaggio di pecora fatto da Remo e il pane bianco fatto da sua moglie, di quello che in città non usava più.
Qualche volta veniva Oriana a trovarlo e si fermava con lui molte ore, a parlare o anche solo a lavorare di ferro.
Era molto magra e sembrava che anche per lei la nutrizione infantile non fosse stata delle migliori. Portava ai piedi degli scarponi chiodati, per neve e fango, che usava d’inverno e d’estate, e dai quali uscivano calzettoni di lana bianca.
“Ho compiuto da poco quattordici anni: adesso che avrei potuto cominciare ad andare a ballare non si può più” disse Oriana.
“Perché non si può?”
“Perché dicono che non sta bene ballare mentre i nostri soldati muoiono in guerra.”
“È vero” disse Medardo “non sta bene.”
“Mi rifarò quando la guerra sarà finita” disse Oriana.
“La scuola c‘è?” chiese Medardo.
“Sì, ma adesso è chiusa. Io quest’anno ho fatto la sesta. E tu?”
“Io ho finito l’avviamento, ma vorrei continuare. Mi piace la matematica.”
“Io non ho voglia di studiare” disse Oriana, “a me piace sposarmi, avere una casa mia con dei bambini e un marito.”
“Questa casa è tua?”
“È di mio padre, è lui che comanda. Io voglio una casa dove cantare sempre ed essere felice.”
“Che cosa vuol dire?” chiese Medardo.
“Essere felici è più che contenti: cantare, ridere, ballare.”
“Non so ballare” disse Medardo.
“Sai cantare?”
“Non ho mai cantato.”
“Ma che cosa fai tutto il giorno?” chiese Oriana.
“Lavoro e la sera studio.”
“Sei proprio un matto” disse Oriana. “Fai fatica anche a ridere; sei troppo serio.”

La vita nella famiglia proseguiva uguale. Non avevano la radio e non arrivavano giornali e quindi non sapevano notizie del mondo. La guerra la sentivano da lontano, quando passavano gli aeroplani; e la sentivano dentro di sé, per il vuoto lasciato dal figliolo, che era soldato in Grecia.
C’era il camino come in tutte le case della montagna e le braci sempre accese sotto il paiolo e l’acqua pronta a bollire, per preparare la polenta o il minestrone, per cuocere le patate lesse nell’acqua o arrostite sotto la cenere.
Ogni sera si riunivano tutti lì intorno, a veglia, quelli della casa e anche altri, che venivano da fuori, in visita, per scambiarsi le notizie degli avvenimenti di città o di persone dei paesi vicini.
La polenta era l’alimento più presente nei loro pranzi ed anche il più variato. La mangiavano calda e fumante, rovesciata sul tagliere e tagliata con il filo, insieme con il formaggio di casa; oppure con burro e formaggio fusi sopra le fette; oppure intingendola nel sugo di carne di maiale. La mattina la inzuppavano fredda nel latte e il giorno dopo la abbrustolivano sulle braci e vi scioglievano sopra una fetta di lardo.
Sotto le ceneri del focolare si cuocevano anche pannocchie di granoturco ancora verdi e pane succenericcio e fave, ch’erano un alimento dei più antichi e preziosi, da mangiarsi sole o macinate col grano e trasformate in pane.
Gran festa si faceva quando qualcuno trovava funghi nel bosco, mangiandoli preparati in padella o sulle braci, quand’erano porcini grossi e succulenti.
Medardo aiutava anche in casa e scendeva spesso con Oriana a prendere acqua alla sorgente, lontano, perché quella del pozzo non era proprio pura ed era meglio non berla.
L’acqua della sorgente sgorgava impetuosa dal bosco fitto precipitando direttamente dall’alto della montagna. era limpida e fredda, che a berla si feriva la bocca.
Ne raccoglievano ciascuno due secchi, che trasportavano in discesa per il pendìo verso la casa attraversando tutto il bosco vérde di abeti, fitto, dove si infiltravano rari raggi di sole e poi ancora per la radùra, dove sostavano le pecore e arrivavano sudati per la camminata.
“Che fatica vivere in montagna” diceva Medardo. “La città è più bella.”
“Perché avete i tranvai e i lampioni, ma non avete i nostri boschi. Gli alberi sono belli.”
“In città c‘è il cinema. Tu sei mai stata al cinema?”
“Qualche volta a Sasso. Io sono stata anche a Bologna, però mi vergogno, perché dicono che noi montanari camminiamo in un certo modo e ci distinguono da lontano.”
“Perché siete abituati a camminare in pendenza.”
“Va là, té! un giorno andrò a Bologna con i tacchi alti e nessuno si accorgerà che sono montanara.”

I giorni si susseguivano calcolati dall’alba al tramonto, in attesa del mutare delle stagioni, più o meno uguali, come sempre. Più o meno intensi per il lavoro di mungitura, fare formaggi, tosare le pecore, vendere la lana.
Remo scendeva al mercato di Sasso Marconi una volta il mese, a vendere formaggi e uova, qualche volta galline. Spesso quando tornava portava le notizie della guerra.
“I nostri sono arrivati a …” e guardavano Medardo, il quale controllava sul suo atlante dove si trovasse il luogo.
“È lontano?” chiedeva Remo.
“Sì” diceva Medardo, “è di là dal mare.”
“Che cosa vanno a fare laggiù? mi chiedo.”
“A conquistare un impero.”
“Ogni volta che un re vuole conquistarsi un impero vuol dire per noi andare a morire in qualche luogo lontano. E chi si salva ritorna sui suoi monti a faticare come prima.”
“Ma noi potremo andare a lavorare là” disse Medardo.
“Io ho sempre lavorato qui, come mio padre e mio nonno e suo padre e il padre di suo padre, e così faranno i miei figli e i miei nipoti.”
“Forse con l’impero si lavorerà di meno” disse ancora Medardo.
“Non credo che cambierà il tempo dei raccolti; l’estate e l’inverno sono sempre uguali, come la nascita e la morte.”

Un giorno, mentre seguivano il gregge, lungo un prato che costeggiava il bosco, Oriana gli disse: “da quando sei qui tu, io sono più contenta”.
“Perché?” chiese Medardo.
“Perché con te parlo, ti vengo dietro: sento che anche tu stai bene con me. Mio fratello mi diceva solo quello che non dovevo fare: peggio di mio padre. E poi non mi voleva mai con sé: aveva delle ragazze.”
“Io ti amo” disse Medardo.
“Non lo avevo mai sentito dire” disse Oriana.
“Neppure al cinema?”
“Sì, forse al cinema.”
“Tuo padre come dice a tua madre?”
“Ti voglio bène, perché lui parla solo dialetto e in dialetto ‘ti amo’ non si dice.”
“Forse l’amore è una cosa dei ricchi, che parlano italiano; per i poveri c‘è solo il bène.”
“Anche volersi bène è bello” disse Oriana.
“L’amore è un’altra cosa. È molto di più” disse Medardo.
“Amore o bène la mia risposta è sì. Anch’io te ne voglio.”
Medardo allungò una mano e lei gli tese la sua; restarono a lungo così, guardandosi negli occhi. Intorno a loro ronzavano gli insetti dell’estate, le pecore vagavano nei prati.

“Quei ragazzi si parlano molto” disse Remo una sera.
“È un bravo ragazzo” disse la moglie.
“Sì, è vero” disse lui.
“Mi piacerebbe che restasse con noi, dopo la guerra” disse la donna.
“Potrebbe farlo. Gli dirò che può farlo” disse Remo.
Medardo e Oriana erano fuori, come facevano ogni sera da quando era cominciata l’estate. Camminavano lungo il sentiero.
“Sono felice” disse Oriana.
“Perché?” chiese Medardo.
“Oh, te! me lo chiedi sempre. Vuol dire che sono contenta di essere viva.”
“È molto bello” disse Medardo.
“Tu non lo sei?” chiese Oriana.
“Adesso sì. Qui con te. Ma tutti gli altri anni? La noia, i cameroni, le suore, il buio della chiesa. Come si può essere felici quando si è ragazzi?”
“È vero. Anch’io mi sono sempre annoiata. Ma è stato perché non c’era nessuno con me… Non c’eri tu.”
“Credi che basti avere qualcuno vicino?” disse Medardo.
“Qualcuno è tutto. Con qualcuno si è in due. La vita è insieme.”
“E se l’altro manca? se io ti mancassi?”
“Morirei” disse Oriana.
“Anch’io sono noioso” disse Medardo.
“No. Però sei triste. Perché non pensi che potresti restare qui, con me? dopo la guerra, e potremmo vivere insieme.”
“Mi piacerebbe. Con te mi piacerebbe. Con i tuoi parenti e questi boschi. Ma io voglio studiare. Qui non ci sono scuole.”
“Dopo la guerra le faranno. Almeno qui vicino.”
“Aspettiamo la fine della guerra. Forse allora saremo troppo vecchi per qualsiasi cosa.”
Ora i due ragazzi si tenevano per mano. Erano sul limitare del bosco. Nel cielo limpido cosparso di stelle splendeva la luna. I loro volti erano argento puro.
“Ti voglio bène” disse Oriana “o come dici tu, ti amo.”
“Anch’io, sì” disse Medardo. “Ma come può piacerti uno come me? Non ho niente, sono povero.”
“Anche noi siamo poveri. Abbiamo solo le pecore. Ma tu studierai e sarai qualcuno. Anche mio padre dice che noi poveri dovremmo studiare tutti.”
“Qui da voi si lavora sempre. Non c‘è tempo per studiare.”
“Mica sempre: d’inverno c‘è più tempo. La sera stiamo intorno al fuoco e parliamo.”
“Di che cosa parlate?”
“Della famiglia. Oppure raccontiamo delle storie. Quand’era ancora viva la nonna ci raccontava della favole.”
“E adesso?”
“Adesso parliamo delle persone che conosciamo: della gente che parte, di quella che arriva.”
“Ma non sapete niente del mondo” disse Medardo.
“Compreremo la radio, così avremo notizie di tutti e ascolteremo le canzoni di Rabagliati.”
“E noi, come vivremo?”
“Come tutti quelli che si vogliono bène.”
“Come marito e moglie?”
“Sì, e saremo sempre insieme e non ci saranno più guerre.”
“E ascolteremo la radio?” disse Medardo.
“Sì, e andremo anche al cinema, perché a te piace tanto.”
Erano di fronte e vicini e Medardo poteva vedere gli occhi di lei grandi e pieni di luce. “Se mi ami, perché non mi baci?” le disse.
“Non mi azzardavo perché tu non me lo hai mai chiesto.”
“Tu sai fare?”
“Un po’.”
“Hai già provato?” chiese Medardo.
“Sì.”
“Con chi hai provato?”
“Con uno del Mandrione che mi accompagnava a casa da scuola quando ero in quinta. E poi con un altro, l’ultima volta che sono andata a ballare.”
“Eri innamorata?”
“Non lo so. Però quello del Mandrione lo sognavo sempre di notte.”
“È bello baciarsi?”
“Perché, non lo sai?” disse Oriana.
“No.”
“Ora vedrai” disse lei e gli toccò le labbra con le sue. “Ti piace?” chiese.
“Sì, si sente il sangue che si ferma.”
“No” disse Oriana “va più forte.”
“Non ho capito bène.”
“Fallo tu, adesso” disse lei.
Medardo le toccò le labbra con le sue e restò così per un po’.
“Ti piace?” Oriana chiese.
“È la più bella cosa che io abbia mai sentito.”
“Anche per me. Più delle altre volte.”
“Senti di più con me?”
“Sì.”
“Allora mi ami.”
“Sì, ti amo.”
“Ci ameremo sempre.”
“E ci baceremo e faremo all’amore e andremo a ballare.”
“Io non so ballare.”
“Lo so, tu non sai fare niente” rise Oriana; “ti insegnerò io.”
“Non mi piace ballare.”
“È tanto bello. Aspetta di provare.”
“Sono più grande di te e mi faccio insegnare tutto.”
“Ma io sono una donna.”
“E sei tanto bella.”
“Davvero sono bella?”
“Sì, non ho mai visto una ragazza come te.”
“Mi hanno sempre detto che sono troppo magra.”
“Ti ingrasserai. Anch’io sono magro.”
“Ci ingrasseremo insieme. A meno che non capiti solo a me” e Oriana rise forte.
“Perché ridi?”
“Niente” disse lei. “Sei proprio un tontone.”

Il 23 luglio 1943, verso le dieci di mattina, passarono stormi di bombardieri americani diretti su Bologna.
“Guarda, mamma” disse Oriana, “sono tanti.”
“Sì, sono tanti e sono brutti.”
“Passano su Bologna” disse Medardo.
“La madonna preghi per loro che sono in pericolo” disse la madre.
Poi sentirono le esplosioni delle bombe, che si susseguivano in tempi regolari, uno stormo dopo l’altro, come un terremoto lontano che fa tremare tutto fin dentro le viscere e poi lì in fondo all’orizzonte s’oscurò il cielo di fumo e polvere. E loro lassù sentivano dentro il cuore gli urli di quelli che morivano sepolti dalle case crollate o dilaniati dagli scoppi. I cani abbaiavano e correvano per la corte come impazziti. Oriana si avvicinò a Medardo e gli prese la mano.
“Chi sa se resteremo vivi per vedere la fine?”
Medardo non rispose e allora lei disse ancora: “per stare con te”.

In quel settembre 1943, cominciarono a passare per Rasiglio molti ragazzi, alcuni ancora in divisa, altri vestiti con abiti rimediati da qualche parte, che si avviavano oltre l’Appennino.
“Dove andate figlioli?” chiese Remo.
“A casa, la guerra è finita.”
“Ci siamo arresi?” chiese Remo.
“Sì, è finito tutto.”
“E i nostri, tornano tutti a casa?” chiese la madre.
“Quelli che possono. I tedeschi ci sparano addosso.”
“Allora tornerà anche mio figlio” disse la donna.
“Tuo figlio è lontano” disse Remo. Poi si rivolse a Medardo: “credi che nostro figlio possa tornare?”.
“La Grecia è lontana” disse Medardo. “C‘è molta strada, molte montagne o il mare, e molti tedeschi.”
E infatti il figlio del pastore non ritornò. E su quei monti, che pure erano vicini alla città, per molto tempo non si seppe più niente. Continuarono a pascolare il gregge e radunarono le pecore per l’inverno come ogni anno.
Fu un Natale triste quello del 1943. Le speranze di pace erano scomparse. C’erano soldati prigionieri, uomini in carcere, gente fucilata nelle piazze, bombardamenti.
Non passava più nessuno per la casa e quel silenzio era interrotto solo dal rumore di bombardieri, che volavano alti la mattina e luccicavano nel sole. Poi lontano lontano, ma chiaro e distinto, s’udiva il rumore secco e cupo degli scoppi delle bombe rintronare nell’aria e volare con il vento oltre i monti. Si infiltrava nei loro cuori quel fragore e aumentava la tristezza che già si era fatta tuttuno con loro e ne smorzava i sorrisi.
I due ragazzi erano però tanto presi di sé e tanto felici di vedersi e di sentirsi e cercarsi ogni mattina per confermarsi di esserci e andare insieme fuori sulla neve ad ascoltare i rumori, ad aspettare qualcosa e sognare una certezza che già avevano dentro il cuore uno per l’altra.
“Io vorrei essere soldato adesso” disse Medardo.
“Non ce ne sono più: sono scappati o sono prigionieri.”
“Eppure bisogna fare qualcosa. Non si può sempre scappare.”
“Ci penseranno gli americani. Quando arriveranno loro sarà tutto finito. Non ci bombarderanno più.”
“Sì. Ricominceremo a vivere come una volta.”
“No, noi no. Adesso siamo diversi. Siamo io e te.”
“Sì, siamo una vita a due.”
“Mi sembra troppo” disse Oriana. “Non si può essere tanto felici.”
“Noi lo siamo perché ci amiamo.”
“Io non l’avrei mai creduto. L’amore mi sembrava una cosa tanto lontana da me.”
“Invece è un sentimento grande e noi lo abbiamo.”
“È per merito tuo. Sei tu che sai parlare di queste cose.”
“Anche tu ne parli” disse Medardo. “Mi rispondi, dici quello che senti.”
“È così che si parla di amore?”
“Sì. Io credo che sia così. Perché così è bello e l’amore è bello. E allora noi ci amiamo e siamo felici. Siamo gli alberi e il cielo e i monti e Dio.”
“Anche Dio?”
“Sì, perché Dio è noi e noi siamo anche Dio.”
“Che meraviglia è conoscerti” disse Oriana.
“Non sono contento di me.”
“Perché?”
“Perché vorrei fare qualcosa, vorrei combattere per la mia patria.”
“Che cosa sai tu della patria? Che cos‘è la patria?”
“La patria siamo noi e gli altri. Questa terra che calpestiamo, la tua casa e la tua famiglia, tutte le famiglie come noi, tutta la gente che è morta in questi anni” disse Medardo.
“È anche il tuo istituto dei bastardi, i cameroni dove hai dormito, il pane che non hai mangiato” disse Oriana. “Per mio fratello è stata un reggimento, una nave che l’ha portato via e tanto tempo senza di noi. Sono i signori che parlano di patria. Perché loro sono nelle belle case e raccontano come sono morti gli altri.”
“Io credo che ci sia una patria anche per noi: per i contadini e per i bastardi. La patria dei poveri. In fondo respiriamo l’aria come tutti gli altri.”
“Ma la mettiamo fuori più brutta.”
“Vorrei che qualcuno mi spiegasse… C‘è qualcosa che io non so… Io devo sapere che cosa devo fare… Non si può restare così senza far niente… Solo aspettare” disse Medardo.

Un giorno apparve don Valentino, il parroco di Rasiglio, che di solito veniva per la benedizione di Pasqua, e fuor di quella, negli ultimi cinque anni, era venuto solo per dare l’olio santo alla nonna.
“È un piacere vedervi, don Valentino” disse Remo. “Bevete un bicchiere. È l’ultimo che ho imbottigliato prima della guerra.”
“Speriamo che porti bène” disse il prete. “Notizie di vostro figlio?”
“No. Ma voi sapete quanta strada c‘è dalla Grecia a qui e quanti tedeschi” disse Remo.
“Lo so. Ma presto o tardi tornerà, quando anche i tedeschi se ne andranno a casa.”
“Ci sono speranze?”
“Sì. Gli americani sono sbarcati vicino a Roma. È questione di giorni” disse don Valentino.
“Sia ringraziato Dio” disse la madre.
“E a Bologna che cosa succede?” chiese Medardo.
“Sembra una città in guerra” rispose il prete. “Ci sono tedeschi, i nuovi fascisti, che girano armati fino ai denti. Secondo me è solo paura. Sanno che ormai sono vinti.”
“Ma Mussolini, allora, è morto o è vivo?” chiese Oriana.
“Pare che sia vivo. Ma ormai può fare ben poco.”
“Mio padre” disse Remo, “diceva sempre che Mussolini aveva tradito il socialismo. Dei traditori non bisogna fidarsi mai.”
“Mi hanno detto” disse don Valentino, “che si sono formati dei gruppi… dei comitati… Proprio per evitare che Mussolini faccia altri guai.”
“E come faranno?”
“Pare che siano in contatto con gli americani. Cercano di aiutarli per finire prima la guerra.”
“Mi sembra giusto” disse Remo. “Tutti vogliamo che ritornino i nostri figli e che si smetta di morire ammazzati.”
“Voi siete saggio” disse don Valentino “e siete un galantuomo. Vorrei chiedervi un favore.”
“Per voi più che per tutti. Che cosa posso fare?”
“Ci sono soldati stranieri nascosti, qui intorno, prigionieri di guerra, che cercano rifugio fino a che arrivino gli americani. Se li aiutiamo facciamo opera buona e ce ne saranno grati. Voi vorreste nasconderne uno o due?”
“Se è un’opera buona si può fare e non c‘è bisogno che ce ne siano grati.”
“Voi siete un vero cristiano. Debbo però avvertirvi che è rischioso.”
Intervenne la madre: “spero che qualcuno faccia lo stesso per mio figlio”.
“Dio aiuterà anche lui” disse don Valentino.
E così arrivarono alla casa due uomini. Uno era russo, l’altro era un americano della Costarica, che aveva studiato medicina a Bologna e parlava italiano.
Prepararono per loro un posto nel fienile, sopra la stalla, dove potevano stare nascosti di giorno e uscire la sera tranquillamente. Ma la casa era talmente isolata che a poco a poco si abituarono a venir fuori anche di giorno ed aiutavano la madre di Oriana nei suoi lavori.
Medardo seguiva con curiosità morbosa i due stranieri, finché una sera, mentre sostavano fuori nel buio, si rivolse al costaricense.
“Come ti chiami?”
“Collado.”
“Parli bène l’italiano. Deve essere difficile per chi è abituato a parlare inglese.”
“In Costarica si parla spagnolo. Però io ho studiato a Bologna, all’Università.”
“È vero che sei dottore?”
“Sì, sono medico” disse Collado.
“Ti sarà spiaciuto essere richiamato” disse Medardo.
“Non sono richiamato. Mi sono arruolato io. In America non c‘è il servizio militare obbligatorio.”
“Perché?” chiese Medardo stupito.
“Perché c‘è la democrazia. Ogni uomo è padrone di se stesso.”
“Allora se uno non vuole andare in guerra può stare a casa!” disse Medardo.
“Non proprio. Se uno non ha malattie e imperfezioni e non vuole arruolarsi lo processano e può anche andare in prigione.”
“Allora è come qua.”
“Circa. Però la costituzione americana dice che l’arruolamento nell’esercito è volontario.”
Medardo disse ancora: “il Duce diceva che le democrazie sono nemiche delle nazioni proletarie”.
Collado rise: “l’Italia di Mussolini era proletaria soltanto perché i fascisti hanno fatto molti figli”.
“Perché il Duce dava dei premi. Che cosa vuol dire proletario?” chiese.
“Vuol dire avere come sola ricchezza i propri figli. Ma era vero una volta. Oggi i figli sono miseria, perché dargli da mangiare costa molto.”
“Io sono costato poco” disse Medardo. “Mi hanno abbandonato nei bastardini.”
“Una volta, non tanto tempo fa” disse Collado “le famiglie povere, che avevano molti figli, li abbandonavano sulle strade o nei boschi, o li vendevano, o li davano in affitto come garzoni.”
“È quello che ho sempre pensato. Noi poveri siamo come le bestie.”
“È per questo che i democratici combattono. Perché tutti possano vivere nello stesso modo. Senza dovere abbandonare i figli.”
Medardo chiese: “in America studiano anche i poveri?”.
“Sì, tutti possono studiare.”
“In America, anch’io potrei diventare dottore?”
“Sì, certo. Se avessi voglia di studiare.”
“Se diventiamo democratici potrò diventare dottore anch’io.”
“Certo.”
Medardo era così contento, che mentre saliva per andare a dormire bussò alla porta di Oriana che si affacciò assonnata.
“Sai?” le disse mentre la illuminava con una candela, “mi ha detto l’americano che in America tutti possono studiare fino a diventare dottori.”
“Vuoi andare in America?” disse Oriana spaventata.
“No. Però se diventeremo democratici anche qui, potrò studiare anch’io.”
“Se diventerai dottore non mi vorrai più perché sarai troppo importante.”
“Potremo studiare tutti e due. In America studiano tutti, anche le donne” disse Medardo.
“Mah! Per ora siamo in mezzo alle pecore” disse Oriana. Ora si era svegliata e sorrideva. “Vai a dormire, dottore, che domani mi racconti.”
“Sì, buona notte” disse Medardo e la carezzò con lo sguardo entusiasta.
Alla fine di settembre si sparse la voce che le SS avevano attaccato e annientato la brigata partigiana “Stella rossa”, rastrellato Marzabotto e ucciso gli abitanti; e ora il 16° battaglione del maggiore Reder si dirigeva contro la 63^ brigata “Bolero” che agiva fra Rasiglio e Monte san Giovanni.
Due partigiani con il mitra a tracolla e un fazzoletto rosso intorno al collo passarono per la casa. Era quasi sera.
“Dovete fuggire” dissero agli abitanti. “Sono rabbiosi: sparano su tutti, bruciano le case.”
“Voi, dove andate?” chiese Medardo.
“Cerchiamo di raggiungere i compagni, a Mongardino. Avete armi?” chiese il partigiano.
“No.”
“Prendi questa” disse il ragazzo e diede a Medardo un revolver da carabiniere. “È carica. Ora dobbiamo andare.”
Remo e la madre erano scesi in cucina dalla loro camera. Medardo disse: “bisogna scappare o ci uccideranno tutti”.
“Sì, presto” disse Collado.
Remo scosse la testa: “non io. Io sono vecchio, dove vuoi che vada? che vuoi che mi facciano?”.
“Dovete venire” disse Oriana ai genitori fermi nella cucina davanti al lume a petrolio.
“Sono sempre stato qui. Come mio padre e mio nonno. Andarmene sarebbe veramente morire” disse Remo.
“Dopo ritorneremo” disse Medardo.
“Sì, ora nascondiamoci” aggiunse Collado.
Remo scosse la testa: “ci sono le pecore da badare, la casa da custodire. Prendi Oriana con te. Tornerete quando sarà finito questo disastro”.
“Vai con lui” disse la madre a Oriana. “Noi custodiremo la roba.”
Si abbracciarono, poi uscirono nel buio. “Andate da don Valentino” disse Remo. “Vi dirà lui che cosa fare.”
Oriana portava con sé una borsa di paglia con dentro alcuni pani e due maglioni, che sua madre le aveva dato in fretta prima di partire.
Passarono per le radure dove di solito pascolavano le pecore, poi attraversarono un bosco camminando per un sentiero fra gli alberi. Oriana era davanti perché conosceva ogni metro di terreno e ogni tronco.
Sotto si sentiva uno scorrere d’acqua e lo sciacquìo quando batteva contro le rocce. Attraversarono il torrente, che scendeva impetuoso verso la valle, camminando su grossi sassi posti per il guado. Poi scesero in direzione di Rasiglio e allora videro sull’altra costa del monte, verso Mongardino, il bagliore di un incendio e spari di fucili e di mitraglia.
“Sono là” disse Oriana.
“Credo che siamo circondati” disse Collado.
“Sono ancora lontani. Facciamo presto” disse Medardo.
Ora però si udiva sparare anche vicino al paese.
“Sono anche là” disse Oriana, “dove andiamo?”
“Alla Ca’ Mandrione c‘è un gruppo di ragazzi” disse Medardo. “Cerchiamo di unirci a loro.”
Cambiarono direzione. Camminavano al limitare del bosco, sul versante della Val Samoggia. Dal fondo valle, nel paese di Colombara, si sentivano rumori di motori e cingoli. Ogni tanto spari isolati, poi un altro chiarore di incendio alle loro spalle.
Quando furono al limitare di una pianura scoperta, dove in fondo c’era la Ca’ Mandrione, sentirono passi di uomini sul sentiero che portava alla casa, poi d’improvviso dalle finestre e dalla stalla spararono i mitra dei partigiani sulla colonna tedesca.
“Sono circondati anche loro” disse Oriana.
“Andiamo a Rasiglio, da don Valentino, presto, corriamo.”
Si inoltrarono ancora fra gli alberi del bosco, che costeggiava la strada fino al paese. Sentivano alle loro spalle la fitta sparatoria intorno alla Ca’ Mandrione.
Arrivarono alla prima casa dove sapevano abitare il vinaio, che aveva due figli, ragazzi come loro.
“Sono Oriana: Arrigo, Alfredo.”
I ragazzi aprirono subito la porta perché erano in piedi ad ascoltare.
“Bisogna scappare, rastrellano tutti.”
“Lo sappiamo. Aspettavamo quelli del Mandrione.”
“Sono circondati, non ce la faranno.”
“Don Valentino, dov‘è?” chiese Medardo.
“Aveva raccolto gente in chiesa, ma si è sentito sparare anche là.”
L’aria si schiariva. Sentirono grida in tedesco poi apparvero sulla strada in cima al paese sagome d’uomini con l’elmetto.
“Alto là” gridarono e contemporaneamente spararono su di loro con fucili e mitraglie.
Corsero via a perdifiato fra le poche case del paese.
Esplosero bombe a mano poi una granata di mortaio. Adesso si sentiva correre per il sentiero che veniva dalla Ca’ Mandrione poi ancora granate e urli in italiano e tedesco. Una casa bruciava e illuminava di luce rossastra il paese, la gente era tutta per le strade, le donne urlavano, c’erano bimbi che piangevano, i tedeschi erano tuttintorno e avanzavano in cerchio e sparavano su ogni cosa viva.
Medardo teneva Oriana per mano e Collado li seguiva. In quell’inferno di spari e di fiamme s’erano persi tutti.
Trovarono aperta la porta della chiesa e don Valentino a terra, davanti all’altare, dove l’avevano mitragliato.
“Se restiamo qui è finita” disse Medardo. “Buttiamoci verso i boschi.”
“O.K.” disse l’americano, “ma non per la strada. Troppo in vista.”
“Dobbiamo passarci per arrivare al bosco. Via di corsa senza fermarsi.”
Aprirono di colpo la porta e si buttarono fuori. Oriana fu colpita ad una gamba da una pallottola e cadde. Riuscì a trascinarsi ancora verso la chiesa, mentre altri spari sibilavano vicino.
Era ormai l’alba. Si vedevano distinte le divise dei soldati, che avanzavano attraverso i sentieri.
Medardo era giunto al limite del paese e chiamava: “Oriana, Oriana!”.
“Sono qui” gli urlò, “non posso camminare.”
Medardo corse indietro mentre dalla parte opposta scendevano due militi fascisti. Alzò l’arma verso loro, ma gli spararono a raffica.
Cadde bocconi davanti alla porta socchiusa della chiesa.
Oriana se lo vide lì davanti, immobile come era caduto, e sentì morire con lui le sue proprie speranze e la sua giovinezza.
Gli prese dalla mano il revolver, lo infilò con calma nella bocca finché la canna toccò il palato, poi pigiò il grilletto.

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