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Candido - Romanzo di formazione
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In copertina: «Candido fra le braccia della sorella Maggiorana»
La presente narrazione è un’opera di fiction.
Tutti i personaggi e gli eventi rappresentati in questo romanzo sono il prodotto dell’immaginazione dell’autore o usati fittiziamente.
Pubblicazione realizzata con il contributo de IL CLUB degli autori in quanto l’opera è finalista nel concorso letterario Jacques Prévert 2021
Introduzione
di Alfredo Franchi
“L’immediata osservazione di sé è ben lungi dal bastare per conoscere sé stessi: abbiamo bisogno della storia, giacché il passato continua a scorrere in noi in cento onde; noi stessi infatti non siamo se non ciò che in ogni attimo sentiamo di questo fluire.”
Nietzsche, “Umano troppo umano”, 223
Questo romanzo di formazione è stato scritto per una esigenza interiore, senza condizionamenti di sorta che ne avrebbero danneggiato l’autenticità. È un libro sincero perché non mira alla gratificazione dei lettori, come spesso oggi accade per conseguire consenso e successo. È un libro che coinvolge e commuove chi si trova a condividere le aspirazioni ideali e le vibrazioni emotive dell’autore che, in questo romanzo, in maniera dissimulata, racconta le tappe della sua formazione umana e culturale, le vicende della famiglia i cui componenti vengono delineati in maniera abile e realistica con una capacità rievocativa che ne rende palpabile l’individualità, al di fuori di ogni facile schematismo, come invece si verifica nella scrittura più banale di facile consumo. Nel libro si narra anche la storia del paesino sperduto della Toscana meridionale e della montagna in cui è adagiato, senza la loro denominazione precisa per cui tutto rimane indefinito e sospeso in una atmosfera fiabesca e onirica.
La descrizione è insieme realistica e pervasa di afflato lirico, andamento che si conferma di seguito quando si parla della casa in cui abitava il protagonista della storia:
“al piccolo Candido, che vi era nato, appariva allora come il centro dell’universo … un piccolo corridoio all’ingresso, più fresco, dove avrebbe dormito d’estate, per anni, un cucinino … dove invece avrebbe dormito d’inverno insieme al fratello maggiore, … Il resto del paese: il chiassetto dove avrebbe giocato con gli amici, le due viuzze, ripide e strette che stringevano quasi in una morsa quella piccola casa, le due piazze: quella a pochi passi da casa sua, con un bel palazzo … e quella più in alto, la piazza dell’orologio … da cui si dipartivano le quattro vie che dividevano il paese in quattro contrade, erano per il giovane Candido, il resto del mondo.”.
Vien fuori con evidenza il senso di appartenenza e la sicura identità di chi faceva parte della comunità paesana. Aspetti questi assai significativi, ove si pensi alla condizione di solitudine e di anonimato di chi vive negli agglomerati urbani, senza radici comuni e senza una memoria condivisa come invece si verifica nei paesi “collocati ad anello” intorno alla montagna che si ergeva solitaria, coperta di boschi,“circondata da pianure e da colline cretose e riarse dal sole … da vigneti e da prati ubertosi, … un mondo a sé, una terra–madre maestosa e severa, che dava da secoli a quei poveri montanari, che ci vivevano, quel tanto o quel poco che bastasse loro per sopravvivere e per non morire di fame.”
Con realismo viene descritta la vita difficile che vi si conduceva. L’autore non si lascia condizionare dalla facile commozione estetica degli occasionali visitatori della montagna che ignorano l’asprezza e le dure condizioni di vita di coloro che vi stanno in permanenza.
Della vita di montagna vengono notati anche gli aspetti poetici, momentanei e fuggevoli, non caratteristiche perenni di certe raffigurazioni arcadiche:
“Candido nacque in questi luoghi, a maggio, che in montagna è la stagione più bella, perché ovunque le piante si coprono di un verde fogliame e le acque sgorgano fresche dalle sorgenti; fioriscono le rose, la natura si risveglia ed è tutto un suono di grilli e cinguettio di uccelli …. Il parto era andato bene. Candido piangeva che era una meraviglia…
L’autore ricostruisce la vicenda con annotazioni di colore che restituiscono in maniera divertita la bonomia e certe astuzie di sopravvivenza in una comunità sempre al limite delle sue risorse.
Molti capitoli del libro ricostruiscono, in maniera analitica, condizioni di vita, abitudini, giochi infantili, con l’intento esplicito di conservarne la memoria. La precisione del racconto risulta talora a discapito della evocazione poetica. L’autore non si lascia condizionare da astuzie letterarie: prevale il desiderio della fedeltà storica e di salvaguardare tutto quello che aveva avuto importanza nei processi di socializzazione e nelle ritualità della vita.
Uno dei capitoli più belli, anche nel titolo: “Il tempo infinito nella montagna incantata: Primavera, estate”, merita un’analisi dettagliata a partire dal suo inizio.
“Prima di andare avanti nella narrazione che farà conoscere al lettore anche eventi tristi e drammatici … è necessario soffermarsi un po’ per cercare di capire meglio “il mondo di Candido”, soprattutto quel suo “universo interiore”, in gran parte immaginario, che gli faceva percepire allora gli eventi intorno e la vita in maniera oltremodo ottimistica, come se – nascendo su quella montagna, in quel paese e in quella famiglia – fosse capitato nel migliore dei mondi possibili, nel bel paese della felicità.”
Certo la vita del bambino non era estranea alle ansie e alle paure, a momenti di sconforto e di rabbia che erano comunque “ombre fugaci che venivano e se ne andavano d’un colpo e che non intaccavano il fondo ottimistico del suo animo, la sua vitalità.”
Il bambino aveva imparato a convivere con le sue paure e a dominarle, “quelle paure che a volte gli adulti trasmettono ai bambini o involontariamente o anche con l’intento di abituarli, forse, pian piano, al dolore e alle ansie che la vita a ciascuno poi riserva.”
Le novelle e le storie paurose narrate ai bambini avevano la funzione di prepararli ad affrontare certe situazioni spiacevoli della vita ed a muoversi in esse in maniera più adeguata.
Queste storie paurose e queste novelle venivano narrate soprattutto nelle fredde e interminabili notti invernali.
“Lo zio Cèncio era un narratore ed un affabulatore d’eccezione. Con la sua calma imperturbabile, si metteva al centro della stanza, mentre le sue figlie e i nipotini si disponevano intorno, seduti su seggiolini o sui gradini delle scale e lui iniziava: c’era una volta… Si faceva allora un silenzio totale…
Le novelle narrate in maniera tanto avvincente non sono solo fonte di angosce ma anche di rassicurazione; nel loro andamento ricorrente il protagonista, positivo, giungeva alla vittoria mentre l’antagonista incorreva invece nella giusta punizione. Lo zio non si limitava a narrare novelle era anche depositario di “storie di briganti e di pirati, di fantasmi, di cimiteri e di morti apparenti tornati a vivere”.
Si trattava in effetti di storie largamente presenti nell’immaginario popolare dell’epoca, anche al di là dei paesi situati intorno alla montagna incantata.
Il bambino rassicurato dalla distinzione fra mondo fantastico e mondo reale che lo zio, con accortezza, gli aveva fatto capire, non si lasciava più spaventare dal buio e dalla notte.
Era diventato coraggioso e, diversamente dalla sorella, non aveva paura ad andare da solo nelle stanze buie.
“Uno dei divertimenti preferiti era di uscire di notte, nel chiassetto, per giocare al buio, insieme agli amici nei modi più fantasiosi. Se giocavano a rorò e toccava a lui nascondersi, se ne andava nei luoghi più bui nei quali si sentiva più sicuro, perché le bambine, più timorose, non vi si sarebbero mai avventurate.”
Alla fine della primavera la montagna si mostrava in tutta la sua incantevole bellezza nel versante meridionale:
“si offriva una vista meravigliosa sulla vallata: prima venivano le piante di ginestre tutte fiorite che coloravano con riflessi dorati le crete intorno, poi i filari di viti verderame, poi a scendere i campi coltivati a grano, biondi fulvi, e più in fondo il tratto pianeggiante, nel quale si attardava il corso del fiume, che aveva colori cangianti, sempre più sfumati. Qua e là, sulla valle, i fumi dei soffioni boraciferi, quasi che, scendendo e allontanandosi da quel paesaggio paradisiaco della montagna, si andasse a passare ai fumi dell’Averno di dantesca memoria. Oltre, in lontananza, riprendeva il rilievo del monte, dall’altra parte, che a salire tornava a coprirsi di vegetazione, prima quella dei campi coltivati, poi quella della macchia di querce, infine dei castagneti. All’altezza di questi si intravedevano i paesi che, a notte, si accendevano di luci come in un presepe”.
La storia degli uomini si intreccia alle vicende della natura, al suo ciclo ripetitivo, sia nella quotidianità, sia in eventi di particolare importanza reale e simbolica che segnalano le fasi dell’anno:
“Durava poco l’estate nella montagna. Le prime piogge che venivano, appena passato il ferragosto, che nella vetta veniva ancora festeggiato coi fuochi dell’Assunta, centinaia di fuochi accesi, nei casolari di montagna, intorno ai quali si raccoglievano “a novellare” intere famiglie, con giovani e coppie di innamorati che guardavano le stelle, la temperatura improvvisamente si raffreddava e segnava la fine della bella stagione.”
Per il bambino non si trattava di una svolta traumatica. È vero che se ne andavano via i pochi turisti venuti a villeggiare, che si chiudevano i locali rimasti aperti durante la buona stagione, che si doveva tornare a scuola e rimanere più spesso chiusi in casa per le intemperie, ma tutto questo rientrava nel ritmo naturale che imponeva ad ogni stagione “di cambiare qualche abitudine ma tutto sarebbe rimasto come prima e, nel ciclo della vita, niente sarebbe cambiato.”
Per comprendere l’importanza di tali annotazioni occorre riflettere su quanto è accaduto in età moderna, quando l’ordine del tutto ha perduto il suo significato. A suo tempo già Pascal, con una frase ad effetto, aveva espresso lo smarrimento dell’uomo in seguito alle novità che avevano sconvolto la concezione tradizionale, rassicurante, dell’universo: “Il silenzio eterno di questi spazi infiniti mi angoscia”. Nell’odierno disincanto gli uomini hanno smarrito ogni riferimento a valori che li trascendono per cui ognuno ha il diritto di scegliere il proprio modo di vivere, di decidere, di plasmare la propria personalità in libertà totale. Da tale punto di vista, l’irrilevanza del passato e della tradizione, il misconoscimento della solidarietà verso gli altri sono conseguenze inevitabili. Alla fine la ricerca della felicità individuale, senza limiti di sorta, porta alla crisi radicale di chi si risolve in tale traiettoria alienante poiché l’io, senza il riconoscimento degli altri, perde ogni consistenza. Se non esistono valori condivisi il riconoscimento di chi si sia realizzato come studente, lavoratore, artista, politico, risulta impossibile. Unico fattore di riconoscimento diventa il successo, il danaro oppure la capacità di imporsi tramite la forza e la violenza.
Alla luce di tali annotazioni ben si comprende come la storia narrata da Francesco Rossi riguardi veramente “il mondo di ieri” che non potrà mai ritornare ma del quale va conservata la memoria perché, nonostante la penuria e la ristrettezza, era fondato su valori condivisi che davano significato a quanto accadeva, anche agli eventi spiacevoli e dolorosi, ombre della vita, controparte ineliminabile di ogni umana felicità.
Molto bella la pagina in cui viene descritta la raccolta dell’uva:
“La vendemmia, con il rituale che l’accompagnava, della raccolta dell’uva, della messa in funzione dei tini, delle botti e delle bigonce, con la conseguente pigiatura, in seguito alla quale l’afrore dei mosti si spargeva nelle vie, la castagnatura e la ricerca dei funghi: tutto dava la sensazione a Candido che quella vita all’aperto, nei boschi e in quelle campagne, la vita di quei paesi non sarebbe mai terminata e, certo, non si lasciava scoraggiare da qualche giornata di pioggia che si faceva più intensa.”
E di seguito la raccolta delle castagne, “pane di legno”, risorsa fondamentale per chi viveva nella montagna e nelle sue adiacenze:
“La raccolta delle castagne era più faticosa, perché bisognava alzarsi la mattina presto per uscire in quelle fredde mattinate e tornare con pesanti panieri pieni o con sacchette di castagne sulle spalle, ma era anche più avventurosa..”
La ricerca dei funghi aveva un’importanza particolare in quanto si trovavano in lontananza e quindi “bisognava addentrarsi nel bosco e salire sul monte per arrivare ai faggi”.
Per il bambino che vi andava con gli amici più grandi era quasi un riconoscimento ed una conferma del processo di crescita che lo rendeva “enormemente felice”, nonostante la competizione tra coloro che si avventuravano nell’impresa. La ricerca dei porcini, chiamati gobbori, “dava una soddisfazione particolare a chi avesse trovato una porcinaia: i porcini infatti non si trovano quasi mai soli, anche se non si vedono facilmente. Si nascondono bene per il colore, simile a quello del sottobosco e spesso si trovano sotto le felci che li coprono interamente o addirittura sottoterra, o nascosti da un sasso. Per cui quando Candido li trovava ne provava una gioia indescrivibile.”
Niente, come i gobbori, gli dava la sensazione dell’atmosfera magica del bosco.
“I funghi potevano comparire all’improvviso, come per magia, e, come per magia, poteva non vederli più.”
Con accenti lirici e squisita sensibilità poetica così viene descritta la montagna:
“Anche in questo periodo la montagna appariva in tutto il suo splendore, anzi sembrava che prima di entrare nel lungo letargo dell’inverno, prima di morire, la natura volesse mostrare a tutti, nei colori sgargianti delle sue foglie, che andavano sfumando dal rosso rubino al magenta, al cremisi, al giallo paglierino e oro, tutto il sole e la luce che avevano preso durante l’estate. Le foglie delle piante, che nell’estate si erano come ubriacate di sole e di luce, e quelle che svolazzavano nell’aria, ad ogni colpo di vento, coprivano la montagna, fino alla vetta, di un manto di vivi colori. Sembrava allora una bella donna matura che avesse voluto sedurre l’amante, non con le sue nudità, ma coprendosi, fino alla testa, con un vestito nuovo, quello più bello e sgargiante.”
La stagione più amata dal bambino era, strano a dirsi, l’inverno. In realtà non casualmente ma per tutta una serie di motivazioni, ignorate al momento, e rese esplicite nella rivisitazione della memoria che ne coglie l’importanza nel processo di formazione della personalità infantile.
L’inverno che piaceva al bambino non era quello passato al chiuso di una cucina appena illuminata, dinanzi alla stufa, quando fuori tirava un vento di tramontana da fare paura. La gioia sarebbe venuta alla prima luce della mattina dinanzi alla vista della prima neve, caduta durante la notte.
“Ci volevano quelle mattine d’inverno che ti presentano a prima vista uno spesso manto di neve che copre i tetti delle case e le strade e tutto, quando nessuno ancora è uscito di casa a lasciarvi le proprie impronte e quel manto è lì, come per annunciarti un mondo nuovo, per far uscire dalla bocca di Candido l’esplosione di un grido di gioia..”
Indimenticabili certe nevicate favolose, con la neve che arrivava alle finestre del primo piano, con le porte di casa interamente ricoperte, con gli uomini a spalare per poter uscire, e questo per più giorni. In paese tutti si lamentavano, salvo i ragazzi per questo dono inaspettato della natura:
“Loro andavano con le loro slitte fuori dalla porta del borgo dove nelle strade interamente coperte non si vedeva transitare un’auto, né alcun mezzo di trasporto. Solo loro, i ragazzi, si vedevano. Erano loro che avevano preso possesso del territorio in quei giorni per andare sulle loro slitte tutto il santo giorno, schiamazzando e divertendosi un mondo.”
In certi giorni, per l’alternarsi delle temperature ed il gioco dei venti, capitavano eventi meravigliosi e spettacoli di fiaba:
“tutte le cose intorno, alberi, case, strade, vigneti parevano fatti di cristallo, appena usciti da una gigantesca vetreria di Murano. Tutto sembrava fatto di vetro: un paesaggio di sogno, che avrebbe potuto rompersi a toccarlo”.
Certo, sciare sul ghiaccio, rimanere sulla neve per fare a pallate, aveva più di un rischio. Quando il bambino tornava a casa con le mani e i piedi ghiacciati gli veniva spontaneo andare a scaldarsi nella stufa nonostante le raccomandazioni in contrario dei genitori:
“– Non stare tutto quel tempo al freddo e, soprattutto, quando torni non andare subito a scaldarti: ti vengono, se no, i diavolini nelle mani e i geloni nei piedi – … Candido non sapeva neanche cosa fossero i diavolini e pensava che i genitori scherzassero, ma poi si accorse quanto dicessero il vero. Quando il passaggio dal freddo gelido a quel caldo della stufa era repentino, sarebbero poi venuti dolori fortissimi che rimanevano per giorni e giorni”.
Una volta aveva infilato i piedi nei fornelli della stufa… e vi si era trattenuto un po’…
“Candido dovette nei giorni e nelle settimane successive sopportare dolori lancinanti e improvvisi ai calcagni… capì allora cosa fossero i diavolini e i geloni”.
In prossimità del Natale in ogni chiesa e in ogni casa veniva preparato il presepio, e questo era motivo di gioia per tutti.
La mamma “tirava fuori dalla cantina la scatola delle statuine degli anni precedenti, la capannina, la stella cometa e la carta zucchero con il cielo stellato e Candido andava nel bosco a fare un po’ di muschio.” La donna aveva abituato i figli alle pratiche religiose tradizionali e “a credere a quel Dio che si era fatto uomo per salvare gli uomini dal peccato e dalle false lusinghe del mondo e per indicare una via di salvezza prima di tutto ai poveri, ai semplici, ai più bisognosi, agli ultimi.”
Le feste nelle comunità paesane avevano una importanza particolare, come pausa ristoratrice e interruzione della dura quotidianità. Gli eventi unici e non reiterabili, come la prima comunione, si svolgevano con una ritualità precisa. Questo è il resoconto presente nel libro e in cui molti, non giovani, si potranno identificare:
“Candido, nel giorno della sua prima comunione, vestito a festa in pantaloncini corti e giacchetta a doppio petto grigi, con camicia e guanti bianchi, cravattino, scarpette di cuoio nero lucide, si era ritrovato al centro dell’attenzione di parenti e amici come mai era avvenuto. Aveva ricevuto per regalo le cifre d’oro con le sue iniziali che quel giorno portò con una spilla sul petto. Dalla mamma, fu organizzato un rinfresco con dolci, cioccolatini e confetti. Fu stampato persino un bigliettino che venne posto nella bomboniera dei confetti, con su scritto il suo nome e la data di quell’evento speciale. Come regalo, più gli piacque una girandola con un’elica che lui spingeva lungo un’asticella a vite, facendola volare su in alto. Ma non arrivò a durare molto perché l’elica, dopo alcuni tiri, finì per perdersi su di un tetto.”
L’elica che scompare sul tetto è metafora della felicità transitoria ed effimera, secondo la fine annotazione con cui termina la narrazione del “giorno più bello della vita”, come si diceva ai bambini in quel tempo lontano.
Di grande suggestione la descrizione della festa della Befana, offerta dalla Direzione della miniera in cui lavorava il babbo ai bambini in età compresa fra i sei e i dieci anni.
Candido partecipa felice perché questa nuova Befana si presentava senza più quegli infingimenti con i quali si presentavano, ai piccoli, i regali.
Candido si ricordava che qualche anno prima, quando ancora non aveva sei anni, al ritorno dall’asilo…
“aveva detto alla mamma, con quell’aria saputella che i bambini prendono quando scoprono qualcosa che i grandi avevano tenuto loro nascosto:
– Mamma, io lo so chi è la befana…
– Ah – esclamò la mamma – e chi è?
– È la mamma… la befana non esiste!
– Bene – rispose secca Bardana – così non riceverai più i regali dalla befana!
Così fu. La befana era morta.
Ma ora, con la miniera era tornata a vivere… Evviva la befana!”
La frase finale, ad effetto, restituisce il senso profondo di questo suggestivo romanzo di formazione che è anche storia di un paese e della montagna incantata in cui è adagiato. Ciò che è scomparso nello scorrere inesorabile del tempo torna a vivere per la magia della scrittura pervasa da afflato poetico nelle sue pagine più belle e significative.
IMAGO ANIMAE MANET IN LIBRIS – L’immagine dell’anima rimane nei libri. Questa antica frase, generalmente plausibile, appare ancora più vera per un libro che si presenta come romanzo di formazione in cui, con autenticità, si alternano i successi e gli insuccessi, le gioie e i dolori della vita. Eventi ugualmente importanti nel processo di maturazione di una personalità. Non a caso nelle tragedie greche, si diceva che “l’uomo impara a conoscere attraverso la sofferenza”. Molte persone adulte prendono congedo dai sogni e dagli incanti dell’adolescenza; per eccesso di realismo e consapevolezza si diventa cinici e disincantati. Questo non vale di sicuro per l’autore di questo libro sincero ed emozionante in cui si coglie integra la capacità di sognare e rimanere attoniti dinanzi al misterioso spettacolo della vita.
PRESENTAZIONE
di Gino Serafini
Limpido nel linguaggio, leggero nel tono, piacevole a leggersi, il romanzo di Francesco Rossi potrebbe sembrare anche semplice. Non lo è: a dircelo sono intanto i suoi possibili livelli di lettura, almeno tre, tutti interessanti.
All’evidenza è posto il faticoso dipanarsi della vita di una famiglia, quella di Candido.
Angustiata dalle ristrettezze e irta di tensioni ma non miserabile. Paradossalmente perché la povertà, in un’economia di sussistenza, è condizione assai diffusa e quindi non suscita stigma sociale né separa, semmai rende ‘uguali’; e soprattutto perché, in sintonia solidale con tante altre, è una famiglia laboriosa, mossa da una sana volontà di riscatto sociale.
La ombreggiano: l’incauto fidanzamento della sorella maggiore (Maggiorana), cui segue un inquieto matrimonio pre-destinato al peggio; e soprattutto il contrasto irriducibile, ma solo una volta esploso, che oppone i due capi-famiglia, l’energica Bardana e il mite Rusco, madre e padre di Candido.
La nobilitano, invece, due episodi di pacifico eroismo, espressivi entrambi degli schietti valori imparati in famiglia: quello, strenuo ma sottaciuto, di cui è protagonista l’esuberante Viburno (il fratello maggiore diventato carabiniere), che frutta comunque un’ambigua medaglia; e l’episodio, strombazzato però manipolato e sterile di riconoscimenti formali, vissuto da Candido, sgorgato naturalmente dal suo carattere buono e socievole.
Il tema centrale è però quello della crescita di Candido, nato alla fine degli anni ’40 del Novecento e appena adolescente agli inizi degli anni ’60, quando s’interrompe il racconto del libro. Del resto è esplicito, nel nome del protagonista e nel titolo, il richiamo al celebre ‘romanzo di formazione’ di Voltaire, Candide.
Incantato davanti agli spettacoli e ai doni delle stagioni e immerso in corali giochi infantili in cui si slancia euforico, il nostro Candido, come quello francese, ha uno sguardo felice e ottimista sul mondo in cui si affaccia, l’unico vissuto, ritenuto ingenuamente perciò stesso l’unico possibile.
Alla poesia della prima infanzia – che ha per culmine il rito della Befana, tuttavia precocemente interrotto – seguirà presto la prosa della sua carriera scolastica, promettente alle Elementari e alle Medie e troncata nel primo anno delle Chimiche, ostico Istituto tecnico industriale. Né gli andrà meglio con la scuola per corrispondenza Radio-Elettra, illusorio surrogato per le speranze dei giovani poveri.
E così – siamo ormai alle ultime pagine del romanzo – lo sguardo di Candido si fa lucido e pensoso, forse anche amaro, poiché la realtà che sta sperimentando, con crescente consapevolezza, è, appunto, amara ed equivoca e il destino che l’attende difficile.
Un destino al quale la prudente Bardana lo aveva già preparato, così come si prepara, gravandolo del basto, un giovane mulo al ruolo di animale da soma: caricato dalla madre di una balletta di preziose castagne, Candido, esile decenne, lo porta stoicamente dal bosco all’abitazione e qui, liberato dal peso, scoppia in lacrime, non di sollievo ma – pare suggerirci l’autore – di vago presagio di un futuro da lavoratore di fatica.
Questa pagina, disvelatrice e dura, è forse la più drammatica del libro.
Per chi conosce l’autore e proviene dalla stessa realtà, non è troppo difficile intravedere, nella montagna narrata, luoghi e personaggi, per quanto taciuti o dissimulati, dell’aspra Amiata della metà del secolo scorso. E nella figura di Candido, lo stesso autore che, come il Candide di Voltaire, dovrà affrontare, in questo caso nella vita reale, larghe peregrinazioni in Libia e in Germania come operaio-saldatore, mestiere a cui ha dovuto piegarsi.
Tuttavia siamo alla presenza di un romanzo, non di un’autobiografia.
La volontà di riscatto sociale, anche individuale, ha fortunatamente ricondotto l’autore verso gli studi (diploma in un anno e laurea con il massimo dei voti) fino a diventare presto insegnante di Scuola Media.
Oggi, è quindi assai lontano dal mondo di Candido: dal periodo narrato è trascorso più di mezzo secolo, Rossi ha lasciato l’Amiata da altrettanto tempo e, soprattutto, appartiene ormai, a pieno titolo, al mondo dei “colti”. Esemplari, la sua recente pubblicazione dedicata a due grandi intellettuali amiatini dell’Ottocento (F. Rossi, a cura di, Barzellotti-Pratesi. Carteggio 1866-1917, Effigi 2017) e il suo impegno specialistico sulla figura di Martino Ceccuzzi, poeta, romanziere e saggista del Novecento (F. Rossi, Vita scritta di Idilio Dell’Era, Cantagalli 2014) ed altri.
È ai loro scritti e più in generale alle profondità di certa letteratura toscana, che Rossi pare, in effetti, volersi ispirare.
Ora, quindi, guarda al passato e ai personaggi che hanno popolato la sua infanzia, alle loro gioie e affanni, con comprensione e tenerezza, a tratti con lieve ironia, dall’alto della sua raggiunta maturità umana e culturale, che lo orienta adesso all’universale.
Ha voluto anzi esentarli da contingenti particolari veristici, puntando piuttosto a coglierne le essenzialità psicologiche. In altri termini li ha destrutturati come personaggi reali e ricostruiti letterariamente.
Visto dagli occhi di un bambino, il mondo così evocato ha spesso l’indeterminatezza di una favola ma lo scrittore lascia comunque intravedere sempre la trama ferrigna delle dinamiche sociali, motore e non semplice fondale delle azioni.
La vita materiale degli amiatini può essere anzi un terzo livello di lettura del testo. Interessante, perché ritratta nel cruciale passaggio dall’elementare economia delle necessità a quella dei consumi; passaggio ben rappresentato dal trasloco della famiglia dalle angustie abitative del paese medievale alle comode larghezze delle nuove edificazioni fuori dalle mura.
Del resto Rossi dispone anche di una non dimenticata cultura di storico-sociale, già sperimentata con successo all’Università (F. Rossi, La vita agra di montagna tra Ottocento e Novecento. Tesi di laurea, Facoltà di Magistero di Firenze, a.a.1977/78).
Candido, insomma, è un libro in cui, per gli amiatini di una certa generazione, è facile rispecchiarsi e, per taluni, persino riconoscersi.
Per me, antico amico di Franco, veder evolvere e in qualche modo sublimare i comuni studi storici in questa raffinata opera letteraria, è stata, poi, anche un’apprezzata sorpresa.
La sua lettura non è però meno coinvolgente per chiunque voglia godersi una storia felicemente ispirata, ricca di significati e ben scritta.
Candido - Romanzo di formazione
PARTE I
Dell’ottimismo
ossia l’età dell’innocenza
“Questo piccolo libro dove l’allegria e la tristezza sono gemelle, come le orecchie di Platero, fu scritto per…
Chissà per chi!… per quelli per i quali noi poeti lirici scriviamo…”
J. R. Jiménez, “Platero e io”
I.
Come Candido venne al mondo
nella montagna incantata
“Non si vede bene che col cuore.
L’essenziale è invisibile agli occhi.”
Saint-Exupéry, “Il piccolo Principe”
La storia che sto per narrare comincia alcuni decenni fa, a metà del secolo passato, in un paesino sperduto della Toscana meridionale in cui allora non arrivavano che pochi turisti e viaggiatori e che non segnalavano neanche le carte geografiche, ma che google.maps potrebbe trovarvi oggi in pochi secondi e potrebbe farvelo girare dall’alto, metro per metro, in tutta la sua estensione, facendovi restare comodamente seduti, a casa vostra, davanti allo schermo del vostro pc.
È un paesino disposto su di un pendio ad un’altitudine di 700-800 metri, allora con poche decrepite case, umide e scalcinate, costruite con la grigia pietra, sgorgata, sottoforma di fluido magmatico, dalle viscere di quella montagna incantata, ora un vulcano spento coperto di roccia lavica e da estesi castagneti e faggi maestosi. Il paese prende il nome dal pianoro, su cui è posato, coperto di castagni secolari intorno ai quali sono venute fuori, addossate le une alle altre, quelle piccole e umili case, separate le une dalle altre da vicoli stretti e tortuosi che si diramano dalla piazza centrale nelle quattro direzioni. Non serve nominarlo perché è un punto insignificante come una miriade di molti altri spersi in questo nostro mondo sconfinato.
Ci basti sapere, per le vicende che andiamo a raccontare, che al piccolo Candido, che vi era nato, appariva allora come il centro dell’universo e sentiva, come immagino un po’ tutti nella prima età, di essere capitato, nascendo, nell’ombelico del mondo. La casa dove era nato: un piccolo corridoio all’ingresso, più fresco, dove avrebbe dormito d’estate, per anni, un cucinino di 7-8 metri quadrati, dove invece avrebbe dormito d’inverno insieme al fratello maggiore, il piano di sopra, con il pavimento a mattoni con due minuscole camere, una per i genitori e l’altra (praticamente un soppalco) in cui dormiva la sorella di poco più grande: erano l’ombelico del mondo. Il resto del paese: il chiassetto dove avrebbe giocato con gli amici, le due viuzze, ripide e strette, che stringevano quasi in una morsa quella piccola casa, le due piazze, quella a pochi passi da casa sua, con un bel palazzo appartenuto un tempo a un nobile, un Marchese, e quella più in alto, la piazza dell’orologio (così la chiamavano per il suo campanile su cui spiccava un grosso orologio, da cui si dipartivano le quattro vie che dividevano il paese in quattro contrade) erano, per il giovane Candido, il resto del mondo.
La montagna, sulla quale erano collocati ad anello altri paesi simili al suo, Candido ancora non la conosceva e non sapeva che fosse il mondo di quei suoi paesani e, come tale, un loro elemento distintivo e caratterizzante. Essa, che si erge solitaria, tutta coperta di boschi, per circa 1800 metri, circondata da pianure e da colline cretose e riarse dal sole e da benefiche acque termali, da vigneti e da prati ubertosi, era pure allora un mondo a sé, una terra-madre maestosa e severa, che dava da secoli a quei poveri montanari, che ci vivevano, quel tanto o quel poco che bastasse loro per sopravvivere e per non morire di fame.
Molti dei suoi abitanti erano minatori che scavavano cinabro dalle viscere del monte e da cui ricavavano il mercurio, altri erano bravi artigiani: calzolai, falegnami, bottai, boscaioli, carbonai; altri braccianti agricoli che andavano a lavorare le terre giù in basso, nella pianura alle pendici del monte, fino alla Maremma. Altri purtroppo, dopo l’ultima devastante guerra, erano rimasti disoccupati e campavano, come braccianti a giornata. Integravano i loro miseri guadagni, coltivando propri piccoli appezzamenti di terra, campicelli non più grandi di mezzo ettaro, dai quali ricavavano un pessimo vino, aspro e “viziato”, un po’ d’olio, verdure e frutta. Quasi tutti allevavano anche il maiale, che tenevano in uno stanzino (un castro), che forniva praticamente, per tutto l’anno, l’unica carne per la famiglia. Il pane di questi montanari erano però le castagne, che tutti raccoglievano a quintali nei castagneti posti poco sopra ai paesi e conservavano gelosamente nelle stalle e nelle cantine, per poter con quelle più agevolmente passare il rigido inverno.
Candido nacque in questi luoghi, a maggio, che in montagna è la stagione più bella, perché ovunque le piante si coprono di un verde fogliame e le acque sgorgano fresche dalle sorgenti; fioriscono le rose, la natura si risveglia ed è tutto un suono di grilli e cinguettio di uccelli. I paesani allora in questo mese raccoglievano fior di ginestre e rosolacci e fiori di campo e viole per addobbare le strade nelle processioni del Corpus Domini e le donne, la sera, cantavano il rosario alla madonnina di questo o quel quartiere, mentre le vecchine stavano fuori della porta di casa a frescheggiare.
La mamma di Candido, Bardana, già grossa di suo per costituzione, in quei giorni, prima del parto, era così pesante che faceva difficoltà a muoversi.
Verso la metà del mese arrivarono infine le doglie del parto.
Venne la levatrice, che allora era stipendiata dal comune, e l’aiutò a partorire in quella camera di sopra, dove entravano appena il letto a due piazze, con i comodini e l’armadio addossato alla parete.
In quella camera – mi par di vederlo – un via vai di bacinelle di acqua e pezze di biancheria e grida… Rusco, padre di Candido, era agitato, fuori dalla camera che non poteva entrare né riusciva ad allontanarsi e andava avanti e indietro, praticamente senza fare niente. Poi, un vagito… e Candido venne alla luce, alla tenue luce di una lampadina che illuminava appena quella stanza, alle 10 di sera. Tutti: madre sfinita, ostetrica, il fratello Viburno e la sorella Maggiorana erano intorno a lui, in completa penombra.
Il parto era andato bene. Candido piangeva che era una meraviglia: il che significava che respirava bene, era in salute e tutto era andato per il meglio.
Poi l’ostetrica, prima di congedarsi, chiese il libretto della mutua della partoriente o del marito.
Purtroppo Bardana era una casalinga, senza libretto, e Rusco, che era disoccupato, lo aveva scaduto da due giorni: pertanto avrebbe dovuto pagare l’intervento dell’ostetrica. I due però non avevano soldi per pagare. Che fare?
Dopo un momento di imbarazzante silenzio, che sembrò ai due genitori un’eternità, la levatrice, che era una brava donna, disse:
– Sentite come si fa: facciamo risultare che il bambino è nato due giorni fa, così è coperto dalla mutua e voi non mi date niente!
Rusco portò il suo libretto, mentre l’ostetrica certificava che il piccolo Candido era nato due giorni prima e firmò. Poi, consegnando il foglio all’uomo, disse:
– Ecco, Rusco, vai ora in comune all’anagrafe a registrare questa nascita e ricordate – concluse, rivolgendosi anche alla puerpera – oggi è il 15 maggio, ma la nascita di questo bambino… Come lo chiamate?
– Candido
– Bene, Candido, ricordàtevelo, il giorno della sua nascita è il 13 maggio!
E se ne andò.
[continua]
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