Con questo racconto è risultato 10° classificato nel concorso “Città di Melegnano 2001”
La torre di cristallo
Non riesco proprio a capacitarmi come sia successo – però è successo: mi trovo imprigionata in questa torre di cristallo, senza un’apparente o forse è meglio dire una concreta possibilità di soluzione positiva.
Che tragedia!
Mi sembra che per fatalità o stregoneria sono stata proiettata o inserita in una fantastica novella medievale, dove imperano fattucchiere ed alchimie, maghi ed alambicchi, cialtroni e trabocchetti.
Insomma, andiamo per ordine: – come sono solito fare – vagavo, senza una precisa meta.
È un peccato?
Ditemi voi che peccato possa essere andare in giro in piena libertà senza far male a nessuno.
Senza far male a nessuno? Solo se sono provocata.
Voi mi direte, che caratteraccio! Ebbene sì, io sono fatta così, e sono molto accorta se intervenire o meno, perché mi conosco, sono nervosetta io, se mi faccio prendere dalla mano, divento un ciclone, non mi controllo più e quindi, se reagisco in un certo modo, corro il rischio di morire, ed io non voglio morire, ci tengo alla mia vita, perché la vita è bella, è troppo bella. Comunque nell’occasione specifica posso assicurarVi sul mio onore, che non stavo arrecando fastidio a chicchessia.
Comunque vadano tutti i ragionamenti che sto facendo tra me e me, la situazione permane invariata.
No, non mi debbo ostinare a ricordare come sia accaduto, perché... è accaduto e basta, incomincio a dare segni di stanchezza…, che sia a causa della mancanza di ossigeno… non esageriamo, non mi ricordo e basta… ero solo distratta.
Però che rabbia, me lo dice sempre mia madre che a volte sono con la testa fra le nuvole; se riesco a venir fuori da questa avventura, certo io non gliela racconto proprio e chi la sopporterebbe “quella lì”, quando incomincia con la solita solfa: “Te l’avevo detto io!”.
Andiamo per ordine, il pavimento è bianco, liscio e non c‘è nessuna apertura, una botola forse. – Che strano! Negli antichi castelli c‘è sempre una botola, forse ci sarà un segreto – ma dove sarà questa benedetta apertura?
Vediamo, le pareti sono concave, non sono un ingegnere, però, direi che sono perfettamente circolari, quasi ialine, si certo, trasparenti.
Non ci sono né luci, né finestre, ma vediamo con maggiore attenzione se ci sono feritoie.
Nelle torri degli antichi castelli c’erano a volte delle feritoie che servivano agli arcieri od ai balestrieri per scagliare i loro dardi verso il nemico, e successivamente agli archibugieri per sparare le loro primitive palle di ferro.
Ma qui non c‘è ombra di feritoia, né qualsiasi ipotesi di pertugio, comunque il sole sta definitivamente tramontando e la luce scarseggia, forse domani mattina con i primi chiarori dell’alba mi metterò di buzzo buono ad effettuare la più minuziosa delle ispezioni, avrò tutta la giornata a disposizione e sono certa che qualcosa troverò: certo quello che non mi manca, non è certo l’ostinazione e la laboriosità.
Ciò che mi disturba veramente è che, anche se riesco a vedere completamente questo miracolo della natura,
non riesco a godermelo fino in fondo, perché questa barriera che si frappone tra me ed il mare, m’impedisce ad avvicinarmi a quel poggiolo da dove sento ogni suono del mare, anche l’apparente tonfo del sole quando sembra che s’inabissi lentamente, colorando con ogni sfumatura di rosso le acque circostanti, ed il profumo di questi attimi? È irripetibile!... ed io sono sempre qui imprigionata senza sapere per quale misfatto.
A proposito di ossigeno, ce la farò ad arrivare a domattina?
Oh mio Dio! – che incubo – debbo stare calma, filosoficamente imperturbabile, se mi faccio prendere dall’angoscia potrei fare anche qualche stupidaggine, ed in un’occasione come questa, l’ultima cosa da fare è perdere il controllo.
Però che stress! Ci sono dei momenti che noi esseri viventi vorremmo gridare, piangere, abbandonarci – insomma vogliamo essere normali, stracarichi di virtù e di difetti – no, invece no, nei momenti difficili, difficilissimi, come questo, dobbiamo essere a tutti i costi un qualcosa che rassomigli ad un super eroe, che lo si emuli, anzi addirittura che lo si superi, quindi freddi, calcolatori, decisionisti, attendisti fintanto che occorra, in altre parole eccezionali, direi anzi perfetti.
Ma non m’importa nulla essere perfetta, io odio essere eccezionale, non hai capito, te lo sillabo: io o-dio es-se-re ec-ce-zio-na-le! Non l’hai ancora capito, allora te lo urlo:
IO O-DIO ES-SE-RE EC-CE-ZIO-NA-LE!
Voglio la mamma e voglio piangere, si voglio piangere accanto a mia madre che mi vuole tanto bene, anche se spesso rompe, ma adesso che ho bisogno di te, mamma, quanto mi farebbe bene che tu rompessi… anche tanto!
Questo groviglio di riflessioni, se da una parte mi procura profondo sconforto, dall’altra sembra che siano parole lanciate al vento, che scivolano lungo il mio corpo, come gocce di pioggia, come quando vengo sorpresa d’estate durante un temporale improvviso.
Ricapitoliamo. La situazione è tragicamente invariata e se io sono obbligata a fare il super eroe, pardon la super eroe, e la farò al meglio, al limite delle mie possibilità, facendo comunque violenza alla mia indole gitana e romantica.
Incominciamo a calcolare quanto io possa resistere in questa prigione.
Vediamo un po’, non disponendo di un centimetro, l’unico dato certo è la mia altezza, che – per comodità – chiamerò unità/base.
Il pavimento circolare, nella sua massima dimensione è lungo quattro unità/base, mentre l’altezza, sarà almeno sei unità/base e mezzo, se non sette, ma per prudenza conservativa, eseguo i calcoli in questo modo: raggio per raggio per tre e quattordici dà l’area del pavimento di dodici e mezzo unità/base quadrate, che, moltiplicate per sei elido il mezzo dopo la virgola per sana cautela – ottengo un volume di almeno settantacinque unità/base cubiche, per cui, ad occhio e croce, ritengo di avere una sufficiente riserva d’aria, non solo per la notte, ma anche per tutta la giornata di domani.
Speriamo proprio che ci sia da qualche parte una fessura nascosta, almeno per il ricambio, perché altrimenti l’aria s’ impoverisce di ossigeno e si carica di anidride carbonica ed allora sono guai, guai veramente seri.
Già incomincio ad avvertire una strana rilassatezza, quel tipo di volontario abbandono prodotto non dalla stanchezza, bensì dalla inconscia debolezza, quella che ti fa distendere con un lieve sorriso sul volto, convinto che tu sia in grado di dominare ogni cosa, invece, subdolamente, sei aggredito da un nemico invisibile, che prima ti alletta con il riposo, con il sonno, e con l’eventuale suadente prospettiva onirica, mentre poi, invece, ti rimbocca le coperte per il più irreversibile dei coma.
La mancanza di ossigeno, od ancor meglio l’avvelenamento da anidride carbonica è in qualche modo paragonabile all’assunzione della droga in genere, sia essa erba, cocaina, eroina, sostanze sintetiche od altro, – chi più chi meno – ma può essere estensibile anche alla nicotina ed all’alcool, in quanto, in tutti questi casi, il soggetto, o per meglio dire il gradasso, è sempre convinto di essere in grado di poter gestire la situazione, senza sapere che si sta confezionando una lussuosa bara di prima classe.
Si, è subdolo, in quanto non ti fa stramazzare al suolo quando ancora sei in grado di connettere, per cui, se sei reattivo – ed hai la possibilità di fuggire – scappi a gambe levate, fintanto che il cuore non ti scoppi dentro, tanto morire per morire, è meglio che sia tu a provocarti un collasso, piuttosto che subirlo, però non è questo il caso, perché nello specifico, non saprei proprio dove fuggire, mentre questa debolezza è un suadente stillicidio, un supplizio mimetizzato, privo di dolore, ma lento ed inspiegabile, efficace ed irreversibile nel tempo.
Mi sembra d’impazzire gira e rigira la frittella, arrivo a parlare di morte, solo di morte, e quel che è più raccapricciante che trattasi della mia morte, me tapina, della mia morte, io che adoro tanto la vita…
Chi se lo sarebbe immaginato stamani, in una bellissima giornata d’agosto, tutto sole e gioia, senza alcun impegno particolare da sbrigare, se non quello di dare sfogo al mio animo libero, zingaro e felice di girare, vedere e godere degli altri, e trovarmi invece, chissà per quale perverso sortilegio, imprigionata in questa torre di cristallo, senza la possibilità di avere la minima probabilità di superare indenne questa disavventura.
Questo agitarmi col fisico e con la testa mi ha letteralmente stremato e se è giunta la mia ora, pazienza, facciamola finita, penso che stendermi per un attimo sul pavimento male non mi possa fare, nella peggiore delle ipotesi, mi aiuterà ad andare all’altro mondo almeno rilassata.
Non faccio a tempo ad ultimare queste conclusioni, che un torpore/tepore mi avvolge in un abbraccio sottile e lento, apparentemente protettivo, ma letale come le spire del pitone, tristemente senza ritorno.
Le luci del giorno hanno passato le consegne alle prime tenebre dopo il tramonto, e questo crescere del buio accelera – giocoforza – il processo di pre-coma.
Anche i suoni non sono più distinti come prima, risultano più lontani, più ovattati, isolati da invalicabili barriere di spazio/tempo, difficili da captare; non li comprendevo neppure prima, figurarsi adesso in questa sorte di letargo pre-mortem.
Ecco adesso odo in modo non chiaro una voce di fanciullo, gaia e squillante… Incomprensibile idioma. Chissà cosa vorrà dire…
Mentre mi accascio senza più forze, rimbalzano echi ampie di quel prossimo suono infantile: “Mamma, adesso che abbiamo finito di mangiare, posso togliere il bicchiere capovolto dal piatto e così liberare la vespa?”
Senza attendere la superiore decisione, la piccola mano paffuta rimuove la torre di vetro e la gitana romantica, senza saperlo e, comunque, senza farselo dire due volte, dopo aver respirato a pieni polmoni, svanisce oltre la ringhiera della terrazza, direzione libertà.