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In copertina e all’interno dipinti di Franco Mora
Franco Mora – Nasce a Guastalla (RE) nel 1949. Inizia a dipingere nel 1973. Guastallese di nascita, ma viadenese di adozione. Franco Mora è uno degli esponenti più veri, più genuini della pittura naif italiana, fra i più noti e ammirati per freschezza e originalità inventiva su tutto il terrtorio nazionale. Col pennello e con i colori racconta storie fantastiche, ricche di poesia e di partecipazione.
Unico pittore naif insignito dell’Onorificenza di Cavaliere al merito della Repubblica Italiana, dal Presidente Azeglio Ciampi, come riconoscimento per meriti artistici ed umanitari, acquisiti nel campo delle arti e della sua attività artistica svolta spesso per fini sociali, filantropici ed umanitari.
PREFAZIONE
Il libro di Franco Tagliati, dal titolo “Ricette della memoria”, risulta decisamente interessante, prima di tutto, per le famose ricette di cucina dell’Ottocento e del Novecento che vengono amorevolmente riportate e che riconducono, in larga parte, alle tradizioni della cucina contadina italiana dell’Ottocento, con meravigliosi riferimenti ad alcune ricette che rappresentano un tesoro per l’arte culinaria del nostro Paese e, in secondo luogo, il libro assume un valore storico e culturale.
Come si evince dalla raccolta di ricette che viene offerta, non v’è dubbio che meritino di esser conservate e custodite, rappresentando una testimonianza della cultura e della tradizione italiana.
La prima parte del libro comprende alcune ricette che risalgono al periodo che va dal 1815 al 1825, e che riguardano il territorio di Guastalla, governato dalla duchessa Maria Luigia d’Austria, nel Ducato di Parma, Piacenza e Guastalla.
Franco Tagliati ha trovato casualmente queste ricette, scritte in dialetto, grazie ad una anziana signora conosciuta per caso mentre cercava notizie storiche per scrivere una commedia.
La ricca collezione di ricette parte con i “Salàmei ad custàia ad gugiöl invuàdi in dal pulastar” (Costine di maiale avvolte nel petto di pollo), per continuare con la “Socà in barca” (Zucca in barca); i “Farteli d’urtiga” (Frittelle d’ortica); i gustosi “Taiadèli ai gambar” (Tagliatelle ai gamberi pescati freschi nel Po); i “Psulèn al pivròn” (Pesciolini al peperone); il “Bacalà a la guastàlesa” (Baccalà alla guastallese); il “Löss al fnocc” (Luccio al finocchio); le “Persagh cun li rani” (Pesche alle rane), che venivano pescate nei canali di S. Rocco e S. Martino; i “Chisöl imbutì” (Gnocco farcito) che i forestieri apprezzavano molto nelle occasioni delle fiere che iniziavano a primavera; i “Turtlèn fritt al limòn” (Tortellini fritti al limone) e, poi, i dolci speciali, a partire dal “Ciòndul ad Guastàla” (Dolce ciondolo di Guastalla); il “Turtacun candì e nisöli” (Torta con canditi e nocciole), una torta con canditi e nocciole che si preparava per la festa della Madonna della Porta e, infine, la famosa “Turta dla Düchessa” (Torta della Duchessa) con crema, mandorle, pere e liquore fatto in casa, preparata proprio in onore della Duchessa che l’aveva così apprezzata da volerla portare ad uno dei suoi figli.
Logicamente ho proposto solo una selezione delle ricche ricette che il lettore potrà trovare nel libro.
Oltre a queste ricette “storiche” vengono anche riportate alcune antiche ricette della nonna paterna di Franco Tagliati, molte delle quali sono state tramandate dalla famiglia e risalgono all’Ottocento, ma sono presenti anche altre ricette dei primi anni del Novecento.
Ecco allora sfilare una seconda deliziosa galleria di ricette: doveroso iniziare con la specialità della nonna “Gamberi di fiume con polenta”; poi, le “Frittelle di petto di pollo”, preparate in occasione della festa del patrono e della Madonna; il “Tortino di zucca” che la nonna serviva con rametti di menta selvatica; lo “Gnocco fritto ripieno”; le immancabili “Tagliatelle del contadino”; il famoso “Pastisòn ad campagna”, una frittata alla campagnola con le erbe selvatiche che lei raccoglieva nei campi; e, poi, la divertente “Ciambella spaccadenti” le cui fette necessitavano di esser intinte in un ottimo Lambrusco bianco e, infine, la rinomata “Torta Pasqualina” che era una vecchia ricetta che lei aveva ereditato dalla madre e veniva preparata per le feste pasquali.
Queste antiche ricette che, dopo grandi insistenze di Franco Tagliati, sono state “concesse” dalla nonna, diventano la testimonianza più vera d’una cucina contadina che aveva come punto di forza la semplicità dei suoi ingredienti, l’esperienza antica della sfoglia della pasta fatta a mano e alcuni piatti speciali cucinati per le occasioni importanti che rappresentano un tesoro, senza dubbio, da salvare e custodire.
Le ricette “ritrovate” riguardano il territorio di Guastalla, il luogo natio di Franco Tagliati, e diventano “documenti” della storia di quella terra: le atmosfere ed i sapori della cucina contadina si accompagnano a numerosi riferimenti relativi anche alle vicende della sua famiglia.
Nella parte finale del libro, Franco Tagliati offre inoltre una decina di poesie in dialetto guastallese, con traduzione in italiano, che diventano gemme luminose capaci di illuminare l’atmosfera dal sapore antico di questo libro: la visione poetica viene cullata dal ritmo delle stagioni e da un dolce recupero memoriale, dalla campagna silente del Po con le sue nebbie invernali alle corse dei fanciulli tra il “grano dorato”.
Il profumo dei ricordi evoca le atmosfere della campagna con il silenzio delle “aie assolate”, purtroppo desolate ed abbandonate, come la “vecchia casa” ridotta ormai a “quattro mura fatiscenti”, eppure questo scenario della memoria riporta alla mente il “dolce volto della madre” e la “forte mano del padre” che sono ancora vivi nel suo cuore.
La Parola lirica di Franco Tagliati affonda la sua forza nelle forti radici della terra natia, nelle esistenze di donne e uomini semplici, tenaci e fieri, che hanno vissuto tra l’oro del grano maturo, il giallo della polenta e il rosso del Lambrusco, un dono della terra capace di regalare il “fremito d’una poesia” che diventa canto eterno.
Massimo Barile
PRESENTAZIONE
Tagliati ci invita alla sua tavola, alla sua maniera. Tra le parole si sentono profumi e sapori di vecchia cucina contadina, dove nella lotta contro la penuria degli ingredienti si faceva ricorso all’invenzione. Scaltrezza e buon gusto saltano agli occhi e producono un invidiabile godimento di lettura. Ai piatti forti si associano contorni di racconti che alzano il sipario sulla vita di famiglia, episodi, bozzetti e canzoni, in versi e in prosa, alla ribalta di una storia che fatalmente trascorre per lasciarci più soli. Confessioni e impressioni di una verità assoluta, dove non c’è un grammo di finzione, se non quel tanto dovuto di necessità al morbo dello scrittore, che non teme nessun ostacolo pur di arrivare allo scopo: “posso affermare che la fortuna assiste gli audaci, anche se nel mio caso più che di audacia si trattò di quella indescrivibile pazzia che a volte inebria lo spirito di chi ama scrivere”, scrive lui stesso in Conservare una parte di storia. E audacemente ha invitato a mensa anche Maria Luigia d’Asburgo, nell’Ottocento venerabile duchessa di Parma e Guastalla, che, donna di spirito, sensibile e cortese, ha accettato senza esitazione di essere fra noi: “La prossima volta che passerò da Guastalla, contateci!”. E noi ci contiamo, perché la sovrana, teneva in particolare considerazione Guastalla, e promosse nella nostra vecchia città gonzaghesca non poche iniziative di pubblica utilità. Fra le altre, ottenne dal papa Leone XII l’istituzione del vescovado e del seminario cattolico.
Appunto per il vescovo, una certa famosa cuoca, preparava un piatto con bistecche di pollo, costine e salamelle di maiale rosolate in padella, e guarnite da fette di polenta abbrustolita, che faceva venire l’acquolina soltanto a nominarlo. A fine quaresima il presule mandava due pretini a ritirare il tegame in casa della cuoca, poco distante dalla curia. Durante il tragitto i portatori avevano scrupolo di coprire la casseruola con un piccolo drappo. Il profumo che ne usciva, malgrado il riparo, attirava, oltre a cani e gatti, anche qualche cristiano a stomaco vuoto. Si formava così un corteggio misto che suscitava l’ilarità dei presenti, perché i due pretini infastiditi cercavano di andarsene via svelti, impettiti e con qualche alzata di gamba per allontanare gli importuni.
Ma anche la duchessa era oggetto di attenzioni da parte della solerte gastronoma. Innanzitutto va menzionata quella che si chiamava per eccellenza “La torta della Duchessa” composta da crema, mandorle, pere e liquore casareccio. Il dolce fece così successo che Maria Luigia ne portò con sé una fetta, per suo figlio. E su questa benedetta fetta pende un punto di domanda: di quale figlio si trattava? Quello di Parma (che poi erano già due) o di Franz, il duca di Reichstadt, il figlio di Napoleone, relegato nella reggia di Schönbrunn, a Vienna? Maria Luigia passava da Guastalla anche diretta colà, dove la cattiva salute di Franz, il bellissimo giovane, deperito anzitempo, la teneva in molta apprensione. Una torta di frutta però nel lungo viaggio poteva guastarsi; quindi è più probabile che approdasse a Parma.
La rassegna delle altre leccornie sarebbe troppo lunga, ma almeno i titoli di alcune vanno ricordati, perché sembra di scorrere un indice di fiabe, naturalmente intorno ai fornelli: Zucca in barca, Frittelle d’ortica, Caramelle di pollo, Spiedini di lumache, Insalata di pesce gatto, Gamberi di Po al liquore (raccomandati con polenta calda), Polpette di storno, Baccalà alla guastallese, Dolce ciondolo di Guastalla (il dolce preferito dai guastallesi), Mele al vino cotto, Tagliatelle con i piscialetto o dente di leone, Luccio al finocchio, Gnocco farcito, Salame di mele, Minestra di zucca. Ma soprattutto graditissimi alla Duchessa i “Pesciolini al peperone” e le “Pesche con le rane”. I primi da servirsi con polenta calda e abbrustolita, erano in pratica dei pesciolini impanati e fritti nello strutto (che del resto si usava in ogni frittura), ai quali davano la giusta strizza peperone e peperoncino con erbe aromatiche, che facevano buon bere, in questo caso il Lambrusco nero di Guastalla.
Quanto alle pesche con le rane, richiedevano rane fresche appena pescate “nei nostri canali di San Rocco e San Martino, rane grosse e saporite perché mangiano l’erba e bestioline pulite” (oggi chi le trova?). Si procedeva a pelarle, pulirle e cuocerle in acqua con vino bianco, liquore, e mandorle; ciò fatto, disossate si mescolavano con cannella, zucchero e cacao, e ancora mandorle: un impasto col quale farcire le pesche tagliate a metà e snocciolate. Cuocere il tutto lentamente (“ma attenzione che non diventino patocche, fradice”), servirlo con Lambrusco chiaro di Gualtieri e – raccomandazione finale – proporlo alle mogli tradite, da offrire ai mariti infedeli: ma, occhio, soltanto nelle serate di luna piena. Dettagli esilaranti che mettevano di buonumore la Duchessa, anche se nessuno, in quella Guastalla sorniona, sapeva spiegarle esattamente le ragioni e gli effetti dell’inconsueta terapia.
Assaggi appena, questi citati, dell’intero pranzetto succulento (l’origine del ricettario è svelata in Conservare almeno una parte di storia, che poi tiene viva l’attenzione con un funebre giocoso “mort in ca”). Assaggi, perché, dicevamo, anche i contorni aggiunti da Tagliati, dal suo archivio personale di autore, sono pregevoli quanto mai.
Restiamo in cucina, assistiamo alla confezione di altri manicaretti e intanto diamo un’occhiata in giro, dentro e fuori. Uno spasso. Dei racconti mi sembra che il più teatrale, e perciò attraente, sia Zabaione e pesto di cavallo, che ha un andamento descrittivo molto vario, spigliato e disinvolto. La natura dei luoghi e dei protagonisti è presentata con dettagli che non riguardano soltanto il cibo e la sua lavorazione, ma la condotta dei personaggi, illuminata a giorno da una memoria felicissima di ricordare in tutta chiarezza e cognizione di causa, senza inibizioni. Di seguito va letto, pensoso nella sua pura qualità sentimentale, L’intingolo della nonna, che meglio se definito Pucén dla nona, scrive Tagliati, perché come lo pronunci, sei già lì col pane che lo intingi nella casseruola mentre bolle sul fuoco. E intorno nell’ala del ricordo, viene su la commozione per quel viso triste della nonna, inondato di lacrime, oppresso dal ricordo di un lutto, uno dei tanti che le guerre ci hanno crudelmente regalato (“quel profondo dolore che le oscurava lo sguardo e non l’avrebbe mai abbandonata”, leggiamo in Zabaione).
E alla fine, per dessert, le canzoni, gli stornelli, in duble fas (usiamo il gergo), in italiano e in dialetto, tra i più belli di Tagliati che, oltre a Maria Luigia, ha invitato al nostro banchetto letterario (ne La Saracca) la povertà, “Sua Grandezza la Miseria”, per citare il verso di Illica nell’Andrea Chénier. Sotto la saracca “appesa argentea / punta di stella crocefissa”, sul piatto Solo polenta, afferma il titolo, di un’altra pagina da ricordare, perché “Se gli occhi non vedono il pane / lo stomaco non sente la fame”: tutt’al più “cinque fagioli e una carota / per una pancia che resta vuota”. Mamma sapeva come fare: abile illusionista, conosceva la virtù magica (di Arlecchino e Charlot), dove “un solo fagiolo faceva per cento”. E per consolazione, per non venire proprio via, alla fine, con l’amaro in bocca, Un bicèr ad ven, di rosso frizzante (di quelli barilliani che fanno bum nello stomaco) e un gelato alla menta finiscono in gloria una cascata di ricordi e infuocano “l’anima / che partorirà nuovamente / ricordi di fanciullo”.
…E tu là in fondo, tu ridi fanciullo, e continua.
Gustavo Marchesi
CONSERVARE UNA PARTE DI STORIA
Fu agli inizi degli anni Novanta che riordinando alcuni vecchi appunti, mi capitò tra le mani un mio vecchio racconto scritto quando ero quindicenne. Il tempo sembrò riavvolgersi come una di quelle antiche pellicole che si vedevano nei piccoli cinema di periferia ed i ricordi sfilarono d’un tratto proiettati sul drappo della memoria riportandomi ai dolorosi avvenimenti in quegli anni. Una famiglia contadina del mio paese si vide recapitare un bel giorno dall’America la salma di un parente che tutti ritenevano deceduto durante l’ultima guerra. Tutto il paese parlò per un bel pezzo della vicenda, alcuni ironicamente, altri con tristezza e commozione, in me, tutto ciò, suscitò un così profondo turbamento che non potei fare a meno di scriverne la storia. Più tardi decisi di trarne una commedia che intitolai: “Al mort in ca”. Ricordo che per scrivere avevo bisogno di maggiori informazioni e dettagli, soltanto un membro della famiglia avrebbe potuto fornirmi dei chiarimenti. Erano trascorsi venticinque anni, il tempo aveva sbiadito ogni ricordo e mutato il volto degli uomini e delle cose, ma nonostante ciò iniziai una ricerca spinto dal desiderio di dare vita a quei personaggi che dentro la mia mente iniziavano a prendere vita. Non fu impresa semplice, ma in questo caso posso affermare che la fortuna assiste gli audaci, anche se nel mio caso più che di audacia si trattò di quella indescrivibile pazzia che a volte inebria lo spirito di chi ama scrivere. Da una anziana parente ritrovata per caso riuscii a sapere che la famiglia in questione s’era trasferita sulle colline di Modena al confine con la provincia di Bologna. Al numero telefonico che mi era stato dato rispose uno dei nipoti il quale asserì di non sapere nulla e che tutti i componenti della famiglia erano ormai deceduti. Non rimaneva altro da fare che lasciargli il mio recapito e numero telefonico con la speranza di essere contattato nel caso in cui si fossero presentate novità.
Fu il due aprile del 1994, ricordo bene quando un membro di quella famiglia chiamò lasciando un nuovo recapito e addirittura fissando un appuntamento per il colloquio. Attesi con molta trepidazione che giungesse la data stabilita. Quel pomeriggio ero emozionato, misi in una cartella di cuoio un piccolo quaderno con una penna ed un registratore, come fanno i bravi giornalisti quando viene concessa loro un’intervista. Non ritenevo di essere abile come un vero professionista, ma ero deciso a non perdermi neanche una parola del colloquio che sarebbe intercorso.
Trovai facilmente il luogo convenuto: una vecchia palazzina di tre piani, su una lunga via in salita che conduceva al centro di quel piccolo paese. Suonai al citofono con mano tremante e poco dopo venne ad aprirmi un uomo calvo e grassottello. Dai suoi occhi emanò una luce gelida che mi fece sentire a disagio e fuori luogo, ma poi la patina del tempo si sciolse e quel volto assunse sembianze più familiari quando sussurrò quel “buongiorno” forzato ogni dubbio, ebbi la certezza che si trattava di uno dei ragazzi con cui avevo spesso giocato per le strade del mio paese quando ero giovincello.
Aveva un anno meno di me. Decisi di rompere ogni indugio e per rendere l’atmosfera più accettabile presi a dargli del tu con la certezza che mi avrebbe riconosciuto, ma non fu così. Mentre salivamo le austere scale continuò a darmi del lei rendendo quella mia presenza quasi inopportuna, a tal punto che, prima di farmi entrare in casa, quasi mi intimò di porre domande brevi ed evitare quelle inopportune. Mi lasciò attendere in salotto e sparì senza una parola. Poco dopo mi accolse sua moglie. La gentile signora, mi chiese se gradivo un caffè, che naturalmente accettai.
Mentre assaporavo quell’ottimo caffè, una anziana signora entrò nella stanza. Camminava lentamente tenendo stretto il suo bastone. I suoi candidi capelli raccolti da un fermaglio scuro facevano risultare quel volto solcato dal tempo evidenziando i suoi novantaquattro anni, ma come ebbi modo di scoprire in seguito, il tempo non era riuscito ad impallidire i suoi ricordi né ad appassire la grazia della voce e la gentilezza dei gesti. Fui io ad essere sottoposto ad innumerevoli domande rivolte con tale cordialità che non potei fare a meno di rispondere volentieri. Fu così quasi per incanto che si stabilì tra noi una strana magia; come se conoscessi già quella misteriosa, gentile signora. Le sue labbra presero a narrare gli eventi con una tal ricchezza di particolari da lasciarmi sbalordito. Molte cose le conoscevo già, molte altre mi ritornarono alla mente ascoltando lo scandire di quella voce. I ricordi e gli avvenimenti fiorirono, e mentre il mio registratore incideva le sue parole, dovetti prometterle che in seguito avrei distrutto quel nastro. Quando il racconto terminò, titubante, chiesi alla mia interlocutrice se esisteva qualche documento che potesse confermare la correttezza degli eventi descritti. Per un po’ rimase silenziosa a fissarmi poi con un gesto della mano invitò la moglie di suo nipote, che nel frattempo s’era seduta accanto a noi, ad andare a prendere nella sua camera da letto, una vecchia scatola. Quando questa le fu portata l’aprì lentamente come si trattasse di un oggetto sacro e ne estrasse una busta ingiallita che recava un timbro ed un francobollo americano. Me lo porse con mano tremante invitandomi ad aprirla. Dentro c’erano tanti foglietti di carta sottilissima, scritti con una calligrafia quasi infantile, tutti in dialetto e mi resi conto che non avevano nulla a che vedere con quanto mi era stato narrato. Probabilmente fu l’impressione confusa apparsa sul mio viso che fece capire alla gentile signora l’imbarazzo in cui mi trovavo. Inforcati i suoi occhiali, mi pregò di mostrarle quelle carte.
Sulle sue labbra si aprì un sorriso. Mortificata ma al tempo stesso meravigliata sussurrò: “Ma guarda dove sono finite le preziose ricette di mia nonna!”.
Mi spiegò che le sue antenate avevano tutte la passione per la cucina. La sua bisnonna affittava camere ai forestieri a cui amava far da mangiare e a volte lo faceva anche per diversi signori di Guastalla quando ricevevano ospiti importanti. Capii che quelle antiche ricette erano un pezzo di storia della mia città. La pregai di consegnarmele facendo solenne giuramento di restituirle al più presto. Anche queste del resto potevano rivelarsi utili per la commedia che intendevo scrivere, e d’un tratto mi resi conto di quanto valesse il materiale che ero riuscito a raccogliere.
Non appena giunto a casa mi accinsi con trepidazione a leggere il contenuto dei preziosi foglietti scritti in antico dialetto e ci misi molto tempo per decifrare tutte le parole e prima di riconsegnarli ne ricopiai accuratamente il contenuto. Fui poi rimproverato amaramente quando riconsegnai i manoscritti per averlo fatto così in ritardo e fui invitato dai nipoti della vecchia signora a non farmi più vedere. Il mio rammarico fu quello di non aver fotocopiato il materiale, ma per le pressanti insistenze dei nipoti che pretendevano la restituzione e le difficoltà che trovai nel decifrare i manoscritti, non ne ebbi il tempo. Lasciai trascorrere un po’ di tempo affinché le acque si calmassero, poi decisi di richiamare il numero di telefono che avevo conservato per tentare di scusarmi e vedere se riuscivo a convincere il nipote della signora affinché mi fotocopiasse gli scritti. Rimasi molto male nel ricevere un secco NO come risposta, ma ancor di più lo rimasi nell’apprendere la scomparsa della gentile signora.
Ogni mio seguente tentativo di riappacificazione fu vano, sino che seppi che dopo la morte dell’anziana nonna tutte le sue cose furono date alle fiamme e tutti si erano trasferiti a Bologna.
Non ho mai creduto del tutto a questa versione, e non sono più riuscito ad avere loro notizie. Tutto è svanito come fanno i sogni; senza lasciar traccia, rimane il rammarico dal sapore amaro di non poter rivedere quel volto gentile ne riascoltare quella dolce voce che mi narrò una delle tante storie di cui è ricca questa città, ma anche la soddisfazione d’aver trascritto e conservato viva una piccolissima parte di lei.
L’autore
Ricette della memoria
Farteli D’urtiga
(Frittelle d’ortica)
Fare la sfoglia con farina e uova, tirare con il mattarello. Tagliare quadretti di sfoglia che siano larghi una mano in lungo e in largo. Lasciare riposare. Preparare un chilogrammo di punte fresche di ortica, raccolte lungo l’argine del Po, tritarle belle fini, metterle in un tegame, mescolarle con quattro bicchieri da osteria di puìna (ricotta), tre cucchiai di zucchero, una salatina leggera, due manciate di riso cotto un po’ al dente.
Mettere l’impasto sopra i quadretti di sfoglia. Coprire con un altro quadretto e schiacciare ai quattro lati per chiudere il tutto. Mettere dentro la padella di rame. A fuoco alto friggere, togliere quasi subito, quando sono rosolati e gonfi.
Servire con un buon bicchiere di vino bianco di S. Rocco. Si mangiano al mattino a colazione.
Queste frittelle le preparavo per il marito di mia sorella, che era carrettiere e carriolante.
Quando al mattino andava a lavorare, ne dava una parte ai lavoranti, che con grande entusiasmo le intingevano nel Lambrusco o nel vino cotto. Mio cognato diceva che i lavoranti erano più contenti, lavoravano di più cantando fino a sera. Mio cognato con queste frittelle, offrendole ai lavoranti, ne ricavava qualche soldo in più dal capomastro, perché lavoravano di più.
Salàmei ad custàia ad gugiöl invuiàdi in dal pulastar
(Costine di maiale avvolte nel petto di pollo)
Prendere 6 o 7 bistecche di pollo, batterle con un battitore di legno per allargarle un po’, stenderle, sopra ad ogni bistecca metterci una costina di maiale, una foglia di salvia, avvolgere nella carne di pollo per farne dei rotolini, legarli con un filo bianco ai due lati.
Sciogliere 2 cucchiai di burro in un tegame di rame, farci rosolare dentro una mela tagliata a fette. Quando la mela è cotta bene quasi infiappita a straccio toglierla dal tegame.
A questo punto mettere in padella i salàmei ad costine di maiale, girarli ogni tanto finché arrivano ad avere un colore uniforme quasi dorato.
A questo punto, mettere nella padella un bel bicchiere di Lambrusco bianco di S. Rocco, poi mettere un po’ di sale sparso, voltare, e rivoltare. Aggiungere un mezzo bicchiere di acqua e sopra a tutto una grattatina di noce moscata, voltare e rivoltare. Lasciar rosolare lentamente finché il sugo si è ridotto. Servire in tavola con polenta abbrustolita a fette, e Lambrusco nero di Guastalla.
Questa ricetta amata da tanti, era particolarmente adorata da S.E. il Vescovo. Finita la Quaresima S. E. il Vescovo mandava sempre due pretini a prendere il tegame pieno di questa ricetta. Prima di ritornare a palazzo, coprivano il tegame con un telo rosso da chiesa, quasi fosse una processione. Durante il breve tragitto, i due pretini, erano seguiti da cani gatti e qualche povero diavolo che mangiava poco, attirati tutti quanti dal profumino che usciva dal tegame. Noi da sotto i portici ci divertivamo ad osservare la scena, perché i due pretini infastiditi da tutto quel seguito, andavano impettiti con passo svelto, alzando ogni tanto una gamba per allontanare gli affamati inseguitori.
Socà in barca
(Zucca in barca)
Tagliare una zucca un po’ grossa, comprata nelle valli di S. Martino. Fare delle fette lunghe e larghe quattro dita, cuocerle ma non troppo. Togliere dalla pentola, appoggiarle su un blocchetto di paglia pulita, aspettare che si asciughino. Dopo che le fette si sono asciugate, con un cucchiaio togliere un po’ di polpa da farle sembrare delle barche. Prendere un po’ di pane vecchio grattato con una spolveratina di noce moscata, sale, e una manciata di farina gialla. Mescolare il tutto, poi mettere un cucchiaio ben steso nella parte concava della fetta di zucca. Sopra a questa, aprire un uovo e metterglielo dentro. Prendere tre o quattro filetti di tosello, tritarli fini, fini, poi metterne due cucchiai sopra l’uovo dentro la barca di zucca.
Mettere le fette dentro un tegame di rame, con due o tre cucchiai di grasso di maiale e far friggere. Togliere dal fuoco quando l’uovo si è cotto e il tosello quasi sciolto sull’uovo.
Servire con Lambrusco chiaro di Gualtieri
Taiadèli ai gambar
(Tagliatelle ai gamberi)
Fare la sfoglia con farina di grano e uova. Impastare, mescolare, e poi tirare col mattarello.
Tagliare la sfoglia in strisce larghe una mano. Arrotolarle e poi tagliare strisce grandi come la metà di un dito di mano di donna. Alla fine del taglio, srotolare i rotoli di pasta diventati tagliatelle, e stenderli ad asciugare su un pezzo di legno piatto e ben pulito.
Prendere un mezzo kilogrammo di gamberi freschi pescati nel Po, lavarli bene, togliere quel filettino nero che hanno all’interno che dà l’amaro. Metterli in un tegame di rame, versarci sopra tre cucchiai di liquore fatto in casa, e far rosolare con una grattatina di noce moscata e cinque o sei pomodori sbollentati, pelati e tagliati a pezzetti fini.
Aggiungere quattro cucchiai di grasso di maiale, un finocchio tagliato a tagliatelle, una manciata di tosello tagliato fine, fine, due foglia di menta, salare il tutto, mescolare e rivoltare.
Far cuocere per un po’ a fuoco lento con un’aggiunta di due cucchiai di grasso di maiale fresco, fino ad ottenere una doratura del preparato. Far cuocere le tagliatelle, non troppo patocche, scolarle, e versarci sopra i gamberi con verdure. Mescolare, e poi servire con Lambrusco di Guastalla.
[continua]
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