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Oltre l'orizzonte - Racconti tra sogno e realtà
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Gabriele Sorrentino - Oltre l'orizzonte - Racconti tra sogno e realtà
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
15x21 - pp. 280 - Euro 15,00
ISBN 978-88-6037-7739
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In copertina: «Sfida», cm 70 × 80, olio su tela, 2007 opera di Maurizio Delvecchio foto di Daniela Ori
Il libro contiene opere di: Daniela Ori – Gabriele Sorrentino – Manuela Fiorini
RINGRAZIAMENTI
Ringrazio la mia famiglia, i miei amici e tutti coloro che mi hanno insegnato a vivere, ad apprezzare la magnificenza di un tramonto, l’adrenalina di un successo sportivo, la forza espressiva di un’opera d’arte, la bellezza di un gesto semplice. Soprattutto, ringrazio tutti coloro che mi sono stati vicini e che lo sono tuttora. Perché nulla merita di essere vissuto veramente, se non può essere condiviso con gli altri. Ringrazio, in particolare, le mie compagne di viaggio in questa mia avventura letteraria: Daniela e Manuela, dolci, determinate e completamente “folli” … come me.
Gabriele Sorrentino
Prefazione
La presente raccolta degli autori Daniela Ori, Gabriele Sorrentino e Manuela Fiorini, raccoglie alcuni racconti eterogenei che spaziano da atmosfere prettamente legate al genere noir, alla rivisitazione dalle classiche caratteristiche horror, all’ambientazione di narrazioni che nascono e si plasmano su vicende storiche, alle visioni oniriche fino alla fantascienza che riportano ad una continua espansione d’una creatività proteiforme.
Il filo conduttore sotterraneo è quel muoversi sulla linea di confine tra il mondo reale e materiale ed una propensione alle molteplici possibilità di visioni irreali, fantastiche e misteriose, in una costante ripresa del sovra umano.
Un autentico viaggio di scoperta nelle dimensioni dell’animo umano che porta con sé le contraddizioni, i dissidi interiori, le inquietudini e le sue fragilità: una percezione più sottile di ciò che viene visto con gli occhi e sentito nel profondo dell’animo, nelle variazioni dell’esistenza oltre la concezione comune.
Gli interrogativi sono numerosi, le domande altrettanto e le risposte non sempre sono avvertibili in prima battuta ma occorre scandagliare, fino in fondo, le più labili mutazioni, i più semplici segni che contraddistinguono la conoscenza ortodossa.
Tale processo di superamento dei limiti conoscitivi viene portato avanti e viene alimentato di continuo allo scopo di rappresentare le antinomie del mondo, le difficili condizioni della limitante finitudine dell’Uomo che conosce i suoi limiti ma non si capacita di rimanere incatenato ad essi.
Tutto il mare magnum delle possibili evidenze, riscontrabile nelle vicende narrative, viene racchiuso all’interno dei racconti che, in varie forme, esplicano la loro forza e deflagrano con la loro energia propulsiva in avvincenti storie che compongono tale raccolta.
Ecco allora che nei racconti luminosi ed ammalianti di Daniela Ori, vengono in superficie, quasi estrapolati dall’immaterialità, la figura d’un uomo che è convinto esista una porta segreta che conduce ad una dimensione ignota, proprio lui che è nato lo stesso giorno in cui si sentì un urlo straziante nel castello di San Leo, il castello di Cagliostro ed ora, in quello stesso giorno, torna alla ricerca della porta segreta quasi perdendosi in una dimensione irreale ed evanescente. Poi storie di fantasmi e arcane presenze in castelli e una lettera nascosta in un affresco, segnali onirici e segni che riportano a luoghi pervasi di mistero.
In un altro racconto, emerge la figura di Egloge Vetilia, una donna giunta come schiava a Roma e poi liberata da Lucio Valerio, un decurione di Mutina, che si era innamorato di lei e aveva fatto ogni cosa per poterla sposare: proprio per questo motivo, lei aveva voluto erigere un’ara grandiosa che ricordasse per sempre il suo amore per il marito ed il figlio ed ora quell’opera monumentale era venuta alla luce come a voler rappresentare il simbolo dell’amore eterno che risorge sempre dalla polvere del tempo. E ancora, la figura d’una donna con una forte sensibilità, che scrive poesie per esprimere se stessa, per liberarsi dalle costrizioni quotidiane, che non è compresa dall’uomo che è al suo fianco ma un magico incontro con un’altra donna “magica” cambierà ogni prospettiva.
Nei racconti di Gabriele Sorrentino, allo stesso modo, vengono recuperate le risorse inesauribili del mistero grazie ad una profonda capacità di costruzione narrativa ed emergono così le leggende della Baia del Mattatoio, ricordi di epoche lontane con le reminiscenze di spettri della Torre del Mattatoio “che si nutrivano di anime umane”, riti satanici ed ancestrali, incubi da lenire o ancora, in un altro racconto, uno strano negozio aperto “dal tramonto all’alba” che vende curiosità e regali ed una splendida donna imprigionata in una sorta di maleficio che la rende così bella solo per un giorno all’anno, il giorno del suo compleanno mentre per il resto dei giorni è ormai una donna molto vecchia: una ninfa proveniente dal gineceo dove dimoravano le Naiadi capace di far perdere la cognizione del tempo e dello spazio.
E poi ancora, nei racconti di Manuela Fiorini, la sensibilità femminile diventa profondamente ricettiva come nella vicenda di due ragazzi Max e Luna che diventano viaggiatori fantastici con una irreale agenzia Dreams Tour grazie alla loro fantasia e alla loro capacità di inventare storie fantasiose: lei scriverà le storie e lui le illustrerà. E poi con il racconto, decisamente interessante, de “Il Guardiano della Cattedrale” con la protagonista Micol, una restauratrice appassionata al suo lavoro, che durante il restauro del Duomo di Modena, scopre l’esistenza di un “angelo” che sembra emanare una forza propria, un’energia misteriosa seppure con una espressione di estrema sofferenza L’Angelo come simbolico guardiano dal volto straziato che sembra chiedere aiuto e chiamarla come già era successo ad un frate che aveva sentito la stessa voce dell’angelo prima di lei. Proprio come le antiche leggende che affermavano che ad ogni cattedrale veniva assegnato un custode quasi a riportare in vita la magia dell’antico Egitto che consisteva nell’incanalare le energie della natura ad esseri soprannaturali e ancora centauri e messaggeri degli dei, riferimenti mitologici, incubi notturni, alchimie letterarie e rivisitazioni di ancestrali leggende.
Nei racconti di questa seducente raccolta si possono ritrovare le numerose fascinazioni ed alchimie che accompagnano l’essere umano da sempre: nulla è così vicino alla verità come quando viene nascosto nel suo significato più recondito, nulla è così chiaro come quando abbandoniamo le gabbie mentali e lasciamo che il nostro istinto ci guidi nei meandri dell’avventura umana.
Il distacco dalla realtà e la conseguente prospettiva dell’infinito che fa percepire la solitudine, conducono all’abbandono della propria esistenza per elevarla ad un’avventura ultraterrena.
Nel tuffo indistinto che accompagna in una dimensione irreale forse possiamo ritrovare più concretezza di quanto pensiamo: un abisso artificioso, un’entità indistinta, una porta segreta per un mondo parallelo, un ritorno di figure mitologiche, il continuo esplicarsi di eventi che hanno parvenza magica, l’inevitabile dissolversi di pseudo certezze della nostra mente, le visioni che diventano incantesimi da “vivere” e la dilatazione di ancestrali paure mai sopite, mai dimenticate.
Massimo Barile
Presentazione degli autori
L’orizzonte è un luogo lontano, magico, fantastico, che nessuno può mai raggiungere, perché muta ogni volta che si cambia il punto di osservazione. Descrivere cosa c’è “Oltre l’orizzonte” è come un viaggio verso l’illusione di raggiungere qualcosa di inafferrabile, che è consentito solo alla narrativa. Ciò che non si coglie nella realtà, lo si vive con la fantasia. E così si scoprono dimensioni del vivere e dell’animo umano, che sono precluse ad una visione tradizionale delle cose. È questo il cammino che abbiamo cercato di percorrere con queste nostre storie.
Questo libro raccoglie racconti differenti tra loro. Alcuni hanno tratti squisitamente noir, altri sono a sfondo storico, qualcuno si può genericamente definire horror, qualcun altro si fonda sull’arguzia e l’ironia; un altro, infine, può tranquillamente vestire la casacca della fantascienza. Che cosa, dunque, li accomuna? Tutti i racconti si muovono sul labile confine tra la dimensione reale e quella soprannaturale; dimensioni che, in un continuo gioco di specchi, si guardano, si fondono e si confondono. Queste distorsioni della realtà sono l’artificio narrativo, che ci ha permesso di affrontare temi diversissimi come l’amore, il diverso, il delirio di onnipotenza della scienza, il coraggio. Sono, insomma, la maschera dietro la quale abbiamo tentato di rappresentare il mondo, come noi lo percepiamo.
Siamo partiti da esperienze umane e professionali assai diverse, uniti dalla passione di scrivere, non solo per noi stessi, ma anche per condividere il nostro mondo interiore, fatto di sogni, speranze, fantasie, creatività ed amicizia.
Questa passione per la scrittura ci prende e ci avvolge, come un velo leggero, trasparente e impalpabile ma, al tempo stesso, resistente. Attraverso la magia della penna, esso ci conduce in una dimensione senza tempo, dove il tempo non lo sentiamo più, perché la frenesia di scrivere ci coinvolge e ci avvolge, fino a che liberiamo quelle parole, quelle frasi, quelle storie che, fino a poco prima, erano solo un’intuizione.
È proprio allora che gli orizzonti si superano, i sogni si colorano di sfumature sempre più intense e le parole incarnano voci segrete e speranze.
Il risultato è questo libro. Pagine scritte con passione da chi desidera confrontarsi col mondo che lo circonda. Pagine dove la vita reale si intreccia con il ricordo ancestrale dei miti e dove le immagini dei personaggi della storia escono dalle pagine dei volumi letti e sfogliati, o dai dipinti ammirati, per sussurrarci segreti e confidenze. E, a fare da sfondo, sul quale si muovono i personaggi, immaginati, eppure reali, la nostra città, Modena, ma non solo, che diventa un teatro senza più contorni o confini, uno spazio aperto alla mente e che, a sua volta, conduce il lettore nella dimensione della fantasia e del sogno.
Anche nella scelta del dipinto, che abbiamo voluto nell’immagine di copertina, è racchiuso il segreto del nostro viaggio letterario. “Sfida”, opera del pittore Maurizio Delvecchio, rappresenta il dualismo della vita, il reale e l’irreale, il vero e il sogno, la quotidianità e la fantasia, in una danza che disegna il continuo desiderio di far emergere qualcosa, oltre quello che si vede, come una sfida, come nella vita.
Abbiamo sognato tanto, scrivendo queste storie. Speriamo di far sognare anche tutti coloro che vorranno leggerle.
Daniela Ori
Gabriele Sorrentino
Manuela Fiorini
Modena, marzo 2009
Oltre l'orizzonte - Racconti tra sogno e realtà
A Carlo Alberto Pederzoli
Noi siamo le voci dei venti erranti
che vanno lamentandosi in cerca di riposo e mai lo trovano.
Ascolta! Così com’è il vento, così è la vita dei mortali:
un pianto, un sospiro, un singulto, una tempesta,
una battaglia.
The Deva’s Song, di Sir Edwin Arnold (1832-1904)
5
LA TORRE DEL MATTATOIO
di Gabriele Sorrentino
L’anziano pescatore amava correre vicino al mare di notte. Lo faceva sempre, con ogni condizione climatica, era un modo per tenersi in forma. Percorreva ogni volta lo stesso cammino, dalla sua casetta vicino al porto fino alla spiaggia meridionale.
Il paesino istriano era disteso su un promontorio, posto ad est di una altrettanto piccola baia a forma di u. Tutto era ammantato di boschi, un vero paradiso. Quando, però, arrivavano i turisti, tra giugno e settembre, il paese si trasformava in una specie di parco giochi. Da quando, tre anni prima, gli accordi di Dayton avevano sancito l’indipendenza della Croazia dalla Jugoslavia, i turisti si erano fatti sempre più invadenti, attratti da un paesaggio sublime e dai prezzi decisamente contenuti. Tedeschi, italiani, francesi calavano su quelle valli come cavallette. Portavano soldi, certamente, ma anche sporcizia e speculazioni.
Il pescatore detestava quel mercato e si era sempre tenuto lontano dalla vita mondana del paese; per questo, sebbene fosse uno degli abitanti più anziani del borgo, se ne stava spesso da solo e aveva pochissimi amici, tanto che in paese tutti lo chiamavano “Orso”, ma il suo vero nome era Yuri.
Uno dei momenti di massima affluenza dei turisti era la notte di San Lorenzo. Le spiagge intorno al paese si stipavano di famigliole chiassose e il mare si copriva delle luci degli scafi da turismo. In quelle occasioni, Yuri cercava percorsi alternativi, lontani dalle zone preferite dai visitatori. Quell’agosto del 1997, però, per trovare un po’ di pace, Orso aveva dovuto percorrere alcuni chilometri fino al Tridente Carminio, tra profonde insenature di roccia rossa e fondali profondi ed insidiosi. Laggiù, il terreno era più impervio e ancora lontano dalle principali rotte turistiche. Nessuno l’avrebbe disturbato.
Sull’insenatura più a sud, troneggiava un’antica torre di avvistamento. La “Torre del Mattatoio”, così era chiamata dal volgo, aveva qualcosa di spettrale, ma il vecchio non aveva mai creduto alle innumerevoli leggende su quel posto.
Ad un tratto, vide sul mare una luce azzurrognola, che si avvicinava alla costa. Sembrava un fuoco fatuo e qualcosa, in essa, emanava una sensazione di ostilità. Si nascose nel bosco, in una posizione da cui poteva dominare il Tridente ed osservò.
La luce si avvicinò alla riva, nel punto più impervio della costa.
Orso notò un capannello di ombre scurissime accalcarsi vicino al bagliore; da quella posizione, non poteva capire se fossero in acqua o sulla terraferma, sembrava che la luce, mentre illuminava tutt’intorno, lasciasse dei punti ciechi, dei negativi. Il pescatore non era in grado di spiegare meglio la sua sensazione visiva.
Il gruppo di ombre setacciò la caletta in maniera minuziosa, macchie nel buio, come quelle che si vedono quando si hanno gli occhiali da sole sporchi. Un canto sommesso salì dalla spiaggia.
All’improvviso, tutti i suoi ricordi di infanzia affiorarono: le leggende sulla Baia del Mattatoio, i racconti delle anziane donne che, a loro volta, li avevano sentiti raccontare da altre donne, più anziane di loro, in una catena di ricordi che risalivano a epoche remotissime.
Gli spettri della Torre del Mattatoio, che si nutrivano di anime umane, i sabba che si tenevano nelle notti, a cavallo di quella di San Lorenzo, quando le stelle cadenti portavano i Dèmoni, caduti dal cielo, verso il loro appuntamento mondano.
Il pescatore rabbrividì. La curiosità, però, fu più forte della paura. Yuri scese lentamente il sentiero che portava alla baia nel punto più vicino alla Torre, che emergeva dal mare come un enorme scoglio alto e sottile, un dito di pietra puntato al cielo dove le prime stelle cadenti stavano disegnando arabeschi di luce fredda. Rispetto ai fuochi sulla spiaggia, la Torre era in ombra e Yuri poteva solamente intuirne la massa scura, che grandeggiava sugli scogli. Il mare era una distesa di pece, leggermente increspata. Il rumore della risacca sembrava un mantra, che si sommava alla cantilena che si elevava sommessa ma incalzante dai fuochi sulla spiaggia.
Si rese conto di ciò che stava succedendo solo quando fu vicinissimo all’arenile, appena un lembo di sabbia, conteso da millenni tra la terraferma e il mare. La spiaggia brulicava di persone, forse un centinaio. Alcuni erano giunti laggiù con lance, che ora giacevano abbandonate a riva, altri stavano scendendo dai numerosi sentieri, torce nella notte come ferite giallastre sul manto scuro dei monti boscosi. Innalzavano un canto che non era di quel mondo, una litania cupa e baritonale i cui versi sembravano cacofonie, perché erano pronunciati in una lingua sconosciuta. A riva, vi erano luci galleggianti sul mare nero, come tanti lumini che ornassero il notturno di un cimitero. Le fiammelle sull’acqua ondeggiavano e si contorcevano come dotate di vita propria. Dalla sua posizione, Yuri non riusciva a cogliere perfettamente i contorni della scena, che si stava rappresentando sulla spiaggia. Non osava accendere la torcia che portava con sé, temendo che qualcuno lo scorgesse. Così, doveva accontentarsi di osservare ombre che danzavano con il bagliore delle fiamme. Alcune sagome ne trascinavano altre verso il mare. Orso udì grida di supplica in diverse lingue. I prigionieri – perché di questo si trattava – venivano gettati in mare ed accolti tra le onde da uno sciabordio sordo. Yuri percepì i loro disperati tentativi di alzarsi in piedi; poi, udì grida terribili, che uncinavano le viscere. Come animali in un mattatoio.
Le luci aumentavano di intensità, anzi, diventavano più grandi, pasciute.
Orso decise che ne aveva abbastanza. Ora torno al paese e avverto la polizia. Questo è un rito satanico. Pensò, tornando sui suoi passi con la massima circospezione.
Fu allora che vide una torcia scendere per lo stesso sentiero, che aveva percorso lui. Sentiva lo scalpiccìo di piedi sui rami secchi del sottobosco; si acquattò, tremando. “Ho la strada bloccata”. Rabbrividì, celandosi nuovamente dietro la roccia che lo aveva protetto.
Arrivarono pochi minuti dopo. Un uomo segaligno, dallo sguardo invasato, si muoveva nervosamente, a scatti, con una torcia. Un secondo energumeno trascinava una ragazza bionda, recalcitrante. L’uomo era molto grasso, sulla quarantina; teneva la ragazza stretta in una morsa dolorosa, con le braccia bloccate dietro la schiena. Al chiaro di luna, il suo ghigno sembrava quello di una bambola di porcellana, bianco ed inquietante.
Inutilmente, lei protestava e tentava di divincolarsi; l’uomo corpulento le aveva stretto la mano sulla bocca e lei era troppo fragile per resistergli.
“Taci, puttana: ora vedrai il più glorioso dei Primi Nati, andrai in sposa al Custode della Torre. Sei una privilegiata. Un’ora fa battevi il marciapiede, ora sarai il pezzo forte del nostro banchetto”. Ringhiò lo smilzo.
“È una ragazzina. Che cosa vogliono farle?” Si domandò Yuri. Vogliono violentarla e ucciderla, come facevate voi, durante la guerra. Ma tu puoi impedirlo, così forse gli incubi che ti tormentano alla notte saranno meno insistenti. Gli rispose una fastidiosa voce nella mente.
Nel cuore della notte, si vegliava spesso ricordando le foibe, sentendosi le mani lorde di sangue. Sapeva di aver combattuto una guerra sporca, dove tutti i contendenti non erano andati per il sottile. Ma ora che, con l’età, sentiva avvicinarsi la fine della sua esistenza, il disgusto era superiore ad ogni giustificazione.
In tasca, teneva il vecchio coltello, con cui aveva combattuto gli italiani durante la guerra. Lo estrasse e lo soppesò. Aveva una sola possibilità. Attese che il trio gli passasse proprio accanto, poi lo scagliò. Era sempre stato un buon lanciatore e, anche quella volta, centrò il bersaglio.
L’uomo grasso urlò e lasciò la preda, mentre cercava di capire da dove fosse venuto il pugnale che, adesso, pendeva dalla sua spalla sanguinante. Yuri si materializzò dalle ombre della boscaglia e artigliò lo smilzo trascinandolo a terra con il suo peso. Anche se l’altro era molto più giovane, Orso si rendeva conto di trovarsi di fronte ad uno smidollato, capace solo di fare la voce grossa con una ragazzina. Lui aveva combattuto la più devastante guerra della storia d’Europa ed era in ottima forma. Sapeva, però, di non avere molto tempo. Se la lotta si fosse prolungata troppo, la tempra dell’uomo più giovane avrebbe, infine, avuto la meglio sul suo fisico stanco. Così, raccolse la prima pietra che trovò, a tentoni, nel buio. La scagliò con forza sul volto dello smilzo che emise un grugnito, mentre un fiotto di sangue caldo schizzava sulle mani di Yuri. Per un istante, il vecchio sentì rinascere in lui l’antica ebbrezza della battaglia, quella sensazione di potere che si prova quando si hanno in mano le sorti di un altro essere umano.
Colpì altre due volte in volto lo smilzo. I fantasmi della guerra tornarono ad invadere la sua mente, quegli spettri grondanti sangue e rabbia, che aveva tentato di relegare nella zona più oscura della sua mente, ricordi che non avrebbe mai più voluto venissero a galla.
Fu la vista della ragazza a placarlo.
Era piombata come una furia sul più grasso dei due individui, approfittando dell’attimo di esitazione che questi aveva avuto, mentre tentava maldestramente di sfilare il coltello dalla ferita. Con la forza dell’odio, l’aveva atterrato e lo stava tempestando di calci e pugni sul viso e sui testicoli. Ora, brandiva il coltello grondante di sangue, dopo averlo estratto con ira dalla piaga, ridotta ad una poltiglia sanguinante.
Yuri si rese conto che la donna voleva piantargli la lama nella giugulare. Alla vista di quella creatura apparentemente innocente, che si era trasformata in una terrificante portatrice di morte, si rese conto che, anche lui, stava nuovamente permettendo al suo istinto bestiale di prendere il sopravvento sulla sua coscienza.
Abbandonò lo smilzo, che aveva il naso rotto, un labbro pesto e l’occhio sinistro semichiuso da un ematoma, e afferrò la ragazza alle spalle, bloccandole il polso e torcendoglielo sino a farle mollare il coltello.
“Vieni”. Sibilò. “Non c’è tempo per la vendetta, dobbiamo fuggire, prima che quelli ci prendano”.
La reazione della ragazza lo colse alla sprovvista. La giovane gli piantò una gomitata al ventre e si divincolò, ringhiando un insulto in un’altra lingua. Yuri impiegò alcuni istanti a comprendere che la ragazza stava esprimendosi in uno stentato italiano, frammisto di espressioni slave, che Yuri non comprendeva appieno. Probabilmente, era una lingua slava orientale, forse di qualche parte della defunta Unione Sovietica.
“Chi diavolo sei!?”. Sibilò lei, affrontandolo in preda a una crisi isterica. Era paonazza in volto e ansimava. Indossava un paio di jeans grigio chiari e un t-shirt attillata nera, che evidenziava con precisione le forme dei seni piccoli, ma appuntiti ed alti. Il viso era quello di una bambina spaurita, con profondi occhi celesti e un bel naso all’insù. Orso si rese conto che la giovane doveva essere spaventata a morte e tentò un approccio più morbido.
“Mi chiamo Yuri, ma la gente preferisce chiamarmi Orso, forse perché sono un po’ solitario. Stavo passeggiando nel bosco, quando ho visto le luci nella baia; poi, vi ho visto arrivare. Ho capito che eri in difficoltà e ho deciso di aiutarti”. Le disse mischiando il croato con quel poco di russo che conosceva.
“Grazie”. Rispose la ragazza. “Io mi chiamo Liliya e vengo dalla Bielorussia. Da due anni sono in Italia. Inutile nasconderti che faccio la prostituta a Trieste”. Gli spiegò, sostenendo con fierezza il suo sguardo incuriosito. “Ero davanti al solito ipermercato, poche ore fa, quando quello grasso mi ha caricata. Poi, ha fatto salire quello magro e mi hanno picchiata e minacciata, costringendomi a seguirli fin qui. Diceva anche che tutti se la sarebbero spassata con me; poi farneticava su strane cose, sui Primi Nati… accidenti a loro!”.
“Avevano un’auto?”.
“Sì, quel porco l’ha parcheggiata all’imboccatura del sentiero”.
“Ottimo. Andiamo, allora, prima che questi due siano di nuovo in grado di fare danni”. Lo smilzo rantolava a terra, il volto ridotto a una maschera sanguinolenta, mentre il grassone si rotolava a terra come una grossa larva flaccida.
“Ma chi era quel maiale e, poi, chi sono quelli?”. Piagnucolò la donna indicando le luci sugli scogli.
“Non so chi siano quei matti laggiù, ma di certo non voglio trovarmeli tra i piedi… Sembra stiano facendo una specie di rito satanico”.
Yuri e Liliya risalirono il sentiero, da dove la ragazza era scesa con i suoi aguzzini. Il Vecchio Orso impugnava il coltello, mentre la ragazza brandiva una grossa pietra. Presto, Yuri, cominciò ad essere in affanno. Aveva quasi settantacinque anni e cominciava a sentirseli tutti addosso, nonostante avesse una tempra di acciaio e facesse costantemente attività fisica. L’auto, una grossa berlina scura, apparve dietro una curva, ombra nerissima tra quelle che gli alberi proiettavano sulla radura. “Speriamo di riuscire a farla partire”. Disse alla ragazza. Un tempo, bastavano un cacciavite e qualche minuto per mettere in moto una macchina. Le nuove auto, però, traboccavano di dispositivi antifurto.
Yuri si arrestò di colpo. Colse un’ombra e il suo istinto represso, da partigiano, fece il resto.
“Resta giù!”. Sibilò. “Quelli sono proprio vicini all’auto!”.
Prese per mano la ragazza e la guidò per un altro sentiero, che si allontanava dalla radura, dalla parte opposta rispetto a quella dove avevano lottato con lo Smilzo e il Grassone. Sperava di sbucare sulla via che costeggiava la montagna sulla quale era adagiato il bosco. Uno dei suoi pochi amici abitava proprio lassù e aveva un telefono. I suoi riflessi e l’agilità, però, erano decisamente indeboliti. Incespicò su una radice sporgente al buio e, per poco, non ruzzolò per il sentiero. Fu Liliya ad abbrancarlo per un braccio; lo strattone fu terribile e frustate di dolore gli tormentarono la spalla ed i muscoli del collo. Con un grugnito recuperò l’equilibrio, ma il rumore che aveva provocato lo aveva tradito.
Sentì dei passi concitati e degli ordini ringhiati a mezza voce nell’oscurità. Lo sparo arrivò pochi istanti dopo, un sibilo sordo, che squarciò il silenzio della foresta. Dal tronco di una grossa quercia esplose una nuvola di schegge di legno e polvere.
“Attenta!”. Gridò a Liliya. “Sono armati!”. Un secondo colpo cadde ancora più vicino, sfrigolando scintille su un masso a pochi passi da loro. “Maledizione!”.
I passi dei loro inseguitori si facevano sempre più vicini. Yuri si rese conto che era lui a rallentare la ragazza. “Lasciami indietro!”. Le ordinò. “Alla fine della salita c’è una casa; è l’unica che c’è in zona, non puoi sbagliarti, ci abita un mio amico, si chiama Slatan. Corri da lui a chiedere aiuto. Ha un telefono, chiamerà la polizia”.
“E tu? Che cosa farai?”. Si informò la ragazza.
“Mi arrangerò”.
Liliya accelerò e si dileguò nella boscaglia. Yuri rallentò, ansimando per lo sforzo e l’adrenalina e deviò nuovamente verso il mare, facendo tutto il rumore di cui era capace. I suoi inseguitori non erano dei professionisti e abboccarono. Lo seguirono nel fitto del bosco. Yuri ricordava una grotta, in cui si era nascosto con i partigiani, sperò che l’ingresso fosse ancora agibile. Non era credente, aveva smesso di esserlo molti anni prima ma, ugualmente, si raccomandò all’Essere Superiore, di qualunque natura Egli fosse. La fortuna, oppure Iddio, furono dalla sua parte. L’accesso alla grotta era ancora lì, coperto da erbacce, che ne celavano l’ingresso a chi non lo conosceva. Yuri riuscì ad infilarvisi dentro con qualche difficoltà. Il buio lo avvolse.
Sotto di lui, il mare aveva cominciato a ruggire, portando con sé un vento gelido ed una fastidiosa pioggerella. Per un istante, un ghigno gli si dipinse sul volto al pensiero di quegli sciocchi turisti, stesi sui loro teli, nelle spiagge sparse intorno al paese a guardare le stelle cadere dal cielo. Godette per qualche istante, nel pensarli inzuppati di pioggia, costretti a fuggire sulle loro puzzolenti auto di grossa cilindrata o rifugiarsi sotto la coperta delle loro barche lussuose. Poi, si rese conto che molti di quei turisti potevano essere, ora, tra quei disgraziati che venivano offerti alle fiamme sul mare e rabbrividì.
In mezzo alla vegetazione, che copriva l’accesso alla grotta, Yuri intravide una fiammella bluastra accendersi nell’unica finestra della vecchia Torre del Mattatoio, come se un occhio ceruleo stesse osservandolo dall’alto, trafiggendogli il cuore di gelidi strali.
Il vento e il rumorio della risacca sugli scogli non riuscivano a coprire le urla: nella caletta stava succedendo qualcosa di orribile, una mattanza di esseri umani. Un flash back di partigiani che gettavano prigionieri, alcuni ancora vivi, in una foiba, gli strinse lo stomaco.
In quel momento, una stella cadente illuminò la notte: i Dèmoni cadono dal cielo.
Era avvolto da un bozzolo di irrealtà. Le urla, le luci, la pioggerella, che tamburellava sull’accesso della grotta. Il terrore di essere scoperto, la sensazione di impotenza per tutti quei morti. Gli sembrava di danzare con spettri scuri. La fiammella della Torre del Mattatoio arse per un istante illuminando la caletta a giorno. Yuri vide una distesa di esseri umani galleggiare sui flutti, macchie bianchicce nell’acqua nera. Dovette concentrarsi per non rigettare la cena. Poi, la luce si smorzò celando la scena ai suoi occhi stanchi.
“Speriamo che Liliya abbia raggiunto Slatan. Presto verranno con la polizia”. Disse al buio.
Nessuno, però, giunse nella caletta. La mattanza proseguì sin quasi all’alba, quando i profili delle montagne ad est vennero dipinti di viola dal sole nascente. La litania divenne sempre più lenta; poi, scomparve. Gli uomini tornarono sui loro passi, lasciando la caletta. La Torre del Mattatoio tornò ad essere un brutto rudere cadente.
Orso decise di andare a cercare la ragazza.
“Probabilmente, era molto spaventata ed è fuggita”. Pensò, cercando di strisciare sotto i rami, che celavano l’entrata della grotta.
Si arrestò, atterrito. Dei passi stavano venendo dalla sua parte.
Yuri impugnò nuovamente il coltello, preparandosi al peggio. Vide i due uomini emergere dalla boscaglia. Uno era lo Smilzo, con il volto tumefatto. L’altro era di corporatura media, con i capelli bianchi e lo sguardo duro.
“Mio Dio. È Slatan”. Mormorò Yuri incredulo, aveva mandato Liliya proprio a casa di quel cane! Siamo andati a caccia insieme. Mia moglie, pace all’anima sua, era tua amica di infanzia. Maledetto! La prudenza venne spazzata via dalla rabbia. Balzò fuori dal nascondiglio brandendo il coltello e scagliandosi contro l’uomo dai capelli bianchi. Né Slatan, né lo Smilzo si aspettavano un attacco; così, Yuri poté agevolmente affondare la lama nel ventre di colui che credeva un suo amico. Sentì le carni cedere e il coltello affondare sino all’impugnatura. Slatan grugnì e scalciò per divincolarsi ma, così facendo, lacerò la ferita, dalla quale cominciò a sgorgare sangue scuro.
“Perché!?”. Gridò con rabbia, preparandosi a piantare la lama nel fianco del vecchio. Come una droga, l’ira gli annebbiava la ragione e si dimenticò dello Smilzo che, riavutosi dalla sorpresa, gli fu sopra come una furia. Lo colpì alle reni e gli assestò due calci in rapida successione al capo e ad un fianco. Yuri cadde supino e lo Smilzo gli fu sopra, pronto a colpirlo nuovamente. Nella sua mano destra apparve, scintillando, una lama.
“Ero armato anch’io, ma mi hai preso alla sprovvista. Il mio compagno è morto urlando come un maiale, a causa della tua coltellata. Gli hai reciso un’arteria! Ora io ti renderò il favore, maledetto!”.
Yuri si preparò a morire. Sapeva di aver commesso, come tutti, dei crimini in guerra. Sperò che quelle sue azioni non lo tormentassero per l’eternità. Lo Smilzo alzò la lama e la calò di scatto, arrestandosi come pietrificato. Orso, per un istante, non capì che cosa stesse accadendo.
Poi, lo vide. Più precisamente, si rese conto che l’ambiente circostante sembrava ritirarsi. Il terriccio ubertoso del bosco, le querce, il sottobosco scuro, addirittura le rocce, che affioravano grigie nella foschia del mattino. Tutto pareva contorcersi come la fiammella di una candela morente, allontanandosi da un punto preciso del sentiero, posto tra loro ed il mare. Quel movimento impossibile formava un contorno innaturale. Ombre impossibili si inseguivano, fino a disegnare forme altrettanto improbabili.
Lo Smilzo si prostrò faccia a terra; Orso percepì in lui l’odore della paura. Comprese di trovarsi al cospetto di uno degli spettri della Torre del Mattatoio, una creatura che non poteva esistere e invece era lì, davanti a lui, come negazione del mondo che lui conosceva.
La creatura non parlò, né si mosse. Tuttavia, Yuri si accorse che lo Smilzo, e probabilmente anche Slatan, che continuava a gemere col ventre squarciato, comprendevano il suo comando. Lentamente, anche il vecchio pescatore udì il suono che proveniva dalla creatura. Era un’armonia essenziale composta di poche note, come quella che il vento produce muggendo tra le rocce. Riusciva, però, a trasmettere complesse sinfonie di sentimenti, che penetravano nelle più profonde radici della mente. Era la quintessenza del carisma, l’apoteosi di tutte le forme comunicative. Yuri ne comprese il potere enorme.
La creatura si esprimeva attraverso un suono ancestrale, che era all’origine di ogni lingua del mondo, scritta o parlata.
Gli mostrò un mondo molto diverso da quello in cui, ora, vivevano. Una Terra vergine, ancora in preda al caos primordiale. Un ambiente di vulcani che vomitavano fuoco, di tempeste terribili, di piogge acide, di enormi vortici di magma fuso, che si stava lentamente raffreddando. Presto, da quel mondo inospitale sarebbero sorti i mari e le montagne e tutto si sarebbe ricoperto di vita. Allora, tuttavia, un’unica forma di vita dominava il mondo. I Primi Nati. Erano sempre stati lì, da quando quel mondo aveva cominciato a formarsi. Erano forme di vita che appartenevano a un Quando ormai superato, un tempo in cui il mondo era giovane.
L’Essenza della creatura partecipava a quella degli elementi primari del mondo, che erano sorti dalla sua progenie. In quella verità, era racchiuso il suo potere, perché essa era in grado di parlare alla materia con il linguaggio che l’aveva creata. Anche in quel momento, Yuri comprendeva che l’essere stava comunicando direttamente con gli atomi del suo corpo, facendoli vibrare come milioni di diapason che suonavano la nota primordiale dell’esistenza. Per questo, era così difficile sottrarsi al carisma dei Primi Nati. Yuri comprese anche di trovarsi al cospetto del Custode della Torre.
Eppure, Yuri poteva percepire sentimenti che non credeva potessero albergare nell’animo di una creatura così potente. Tristezza. Invidia. Questi sentimenti aleggiavano in mezzo agli altri, come l’odore di un cibo avariato, che emerge tra la fragranza delle spezie.
“Perché?”. Si interrogò.
La risposta, in fondo, giunse con facilità; non fu difficile. Fu la stessa creatura a fornirgliela, investendolo col suo canto, crivellandolo di inflessioni acute, che ferirono la sua mente come tanti aghi. I Primi Nati erano esseri potenti, ma dimenticati: appartenevano ad un momento della creazione del mondo, che era stato superato dagli eventi. Erano scarti, fossili di un mondo morto, creature destinate ad essere temute per l’eternità, perché incapaci di essere comprese, sino in fondo, dagli abitanti della Terra. Erano, infatti, in grado di parlare ai fondamenti della materia, ma non a ciò che la materia si univa a formare. Comunicavano con le parti di un tutto, che non erano più capaci di comprendere.
C’erano state epoche in cui, alcuni di loro, avevano camminato a testa alta nel mondo, venerati dagli uomini, che ne comprendevano il potere e che avevano imparato molto da loro. Di quei giorni dimenticati, restavano ormai solo sbiaditi ricordi in miti sempre più confusi e obliati.
Sono Dèi senza seguaci, tramutati in Dèmoni urlanti, schiavi essi stessi dei loro pochi seguaci. Costoro sono uomini che non hanno compreso che il mondo è andato avanti e perpetrano tradizioni aberranti per timore di confrontarsi con le loro paure. Tutti sono prigionieri della loro rappresentazione, i primi per non restare solitarie ombre dimenticate, i secondo chiusi in una acrimoniosa Torre d’Avorio di false certezze.
“Lasciatelo andare”. Comandò il Custode, semplicemente facendo vibrare ogni parte dell’essere degli uomini al suo cospetto.
“Ma lui sa di noi”. Protestò lo Smilzo a voce troppo alta. “Ci tradirà”.
“A questo penseremo noi, voi avete già commesso troppi errori”.
“Come desideri, Mio Signore. Perdona la nostra stoltezza, ormai queste spiagge non sono più solitarie come una volta. Dovremo prendere maggiori precauzioni, in futuro”. Rispose lo Smilzo.
“Ora, vattene – intimò il Custode allo Smilzo – e lascia il tuo compagno alle mie cure”.
L’uomo sbiancò, ma dovette obbedire. Corse via, terrorizzato. Sul sentiero, Yuri restò solo con quell’essere impossibile e Slatan, ormai agonizzante.
“Hai ucciso due dei miei servitori”. Disse il Custode gelidamente, mentre Slatan emetteva un prolungato rantolo che si spense all’improvviso. “Dovrei eliminarti tra atroci sofferenze”.
“Sono assassini”. Yuri aveva deciso che mai avrebbe ceduto davanti a quella barbarie. L’ho già fatto una volta, durante la guerra e non commetterò più lo stesso errore, a costo della vita. Pensò.
“Sei pronto a morire per i tuoi ideali?”. Commentò il Custode. Orso si rese conto che la creatura poteva ascoltare i suoi pensieri. Rabbrividì. “Sei un uomo coraggioso. Noi proteggiamo queste valli da ben prima che vi giungesse Giove Capitolino, quando ancora Betlemme era uno sconosciuto villaggio della Giudea. Eppure, tu ci sfidi. Perché?”.
“Perché chiedete il sangue di decine di innocenti. Siete assassini!”. Ringhiò Yuri. “Uccidimi”.
“Non lo farò. Non subito, almeno. È, ormai, assai difficile trovare uomini dotati di ideali e disposti a morire per questi. Mi incuriosisce lottare con te”.
Senza attendere una risposta da Yuri, il Custode colpì, facendo vibrare ogni singola cellula di Orso di una cacofonia orrenda. Il vecchio pescatore sentì prima la nausea uncinargli lo stomaco, poi, gli sembrò di avere la testa pesantissima e di non riuscire a mantenere l’equilibrio. I suoi sensi ed il suo cervello smisero di comunicare tra loro, come se le sinapsi parlassero linguaggi differenti. Si trovò a rotolare per terra, anche se non poteva essere del tutto certo di ciò che i suoi occhi ed il suo senso del tatto gli trasmettevano. Ogni muscolo gli si contraeva in spasmi incontrollabili.
“Sei una delusione”. Si lamentò il Custode. “Perché nessuno degli Dèi moderni, che tanto adorate, ti sta aiutando?”. Lo canzonò. “Quando dirò al tuo cuore di smettere di battere, potrai andarlo a chiedere tu stesso al tuo Dio”. Ringhiò e il suo canto divenne un suono acuto che fece ondeggiare i rami carichi di foglie e chinare il capo al sottobosco.
Sto morendo. Chissà se veramente i Cristiani hanno ragione. Forse vedrò Yulia. Si domandò speranzoso, pensando alla moglie morta dieci anni prima. Yulia conosceva Slatan dall’infanzia. Forse era loro complice? Impossibile. Una creatura come lei non poteva essere un’assassina.
Le tue mani sono lorde di sangue. Lo redarguì con livore una vocina nella sua testa. Sei un assassino. Quanti prigionieri hai ammazzato come cani? Devi augurarti che, alla fine della vita, ci sia solo l’oblio, se i Cristiani hanno ragione, tu andrai dove è strazio e stridore di denti.
“Così, non sei un puro!”. Commentò il Custode. “Mi ero, dunque, ingannato sul tuo conto? E sei ateo. Ecco perché il Dio dei Cristiani non è venuto in tuo aiuto. Oppure, il motivo è che egli non esiste? Chissà. Lo scoprirai presto”. Yuri fu scosso da lancinanti dolori al petto. “Spiegami, perché, allora, non sei scappato? Ah … la ragazza! Ora capisco! L’istinto paterno verso una povera giovane maltrattata da alcuni disgraziati. Il vecchio soldato che salva le giovani donne e uccide i prigionieri come maiali!”. La voce, o meglio, la vibrazione del Custode, era venata di divertimento. Quella stessa gioia che i bambini più insensibili provano a maltrattare un animale.
“Che ne è stato di lei?”. Domandò, con l’ultimo filo di voce.
Il Custode non rispose, ma la mente di Yuri fu invasa da immagini terribili.
La Torre del Mattatoio si ergeva sulla radura illuminata da fiammelle cerulee e spettrali. La processione entrava nella porta senza battenti, appena una ferita nella pietra devastata dai licheni. Tra essi c’era Liliya, trascinata a forza da Slatan. L’avevano picchiata e aveva il naso gonfio ed un labbro tumefatto. Un canto terribile vibrava, serpeggiando, in mezzo al corteo. Era una litania primordiale ossessiva. All’interno della torre, celata dall’erba incolta, c’era una botola, che portava ad una scala a chiocciola, consumata dal tempo. La prospettiva mutò e Yuri si rese conto di vedere con gli occhi di Liliya. Percepiva la sua paura ed il dolore sordo, che le pulsava nelle membra. La tenebra era sempre più oscura a mano a mano che la processione si inabissava nei meandri rocciosi del Tridente Rosso, metri e metri sotto lo scoglio, dal quale emergeva la Torre del Mattatoio. La paura era una compagna crudele che, con la sua mano fredda e rugosa, le carezzava il collo, segnandone la giovane pelle. Era una vecchia invidiosa e ostile, che sussurrava parole di sconforto alle orecchie disperate della ragazza.
“Ora, diverrai linfa del potente Custode della Torre. Verrai gettata nel Mare degli Idoli Obliati e, laggiù, espierai la colpa di chi ha dimenticato i patti stretti con i vecchi Dèi, quando ancora il mondo era giovane e i primi uomini, pieni di terrore, interrogavano il fuoco e la notte in cerca di risposte. Laggiù, mia cara, non potrai morire, ma vivrai in eterna solitudine. Così, potrai provare la sofferenza che la tua infida specie ha inflitto ai Primi Nati”. Disse un uomo celato nella penombra.
L’ultima immagine che Yuri vide con gli occhi di Liliya, fu il vero volto del Custode, fauci spalancate sul buio più oscuro, una notte senza suoni, una tenebra assoluta. Poi, l’urlo di terrore di Liliya gli lacerò l’anima, massacrandogli le viscere ben più duramente delle torture, che gli erano state inflitte dal Signore dei Primi Nati.
“Sei soddisfatto della risposta?”. Domandò la creatura.
“Prendi me al suo posto”. Yuri rispose, quasi senza pensare. Sei un folle. Non fuggirai mai da laggiù. Mai rivedrai i tuoi cari. Lo redarguì la solita vocina. Tanto io sono perduto comunque. La zittì lui.
“Perché dovrei, quando posso ucciderti e tenervi entrambi?”.
“Perché stai mentendo”. Disse Yuri, con calma. “Se tu potessi imprigionarmi dentro di te lo avresti già fatto. Invece, hai bisogno che io venga sacrificato. Sei legato ad un mondo vecchio, questo è il tuo limite. Se io scelgo di sacrificarmi, mi avrai. Ma, per farlo, dovrai liberarla”. Yuri aveva percepito questa verità a margine della visione o, meglio, aveva creduto di percepirla. Il silenzio del Custode confermava questa verità.
“E sia. Accetto. Vai alla Torre. Laggiù, lei sarà libera e io aprirò la mia bocca per te”.
Il tempo e lo spazio, per Liliya, non avevano più significato. Da quando quel cane l’aveva gettata in quella specie di pozzo privo di luce, la ragazza era immersa in un’apoteosi di silenzio. Aveva sempre avuto il terrore di svegliarsi nella bara. Le era venuto da piccola, quando aveva visto un orrendo film dell’orrore sovietico, insieme a suo fratello più grande. La sensazione, che si era immaginata nei suoi incubi, era proprio la stessa, ma senza la consolazione della morte.
Era sepolta viva per l’eternità.
Maledì Slatan, che Orso credeva un suo amico. Aveva finto di accoglierla nella sua casa, facendole bere un the caldo e poi l’aveva tramortita e legata, trascinandola verso la Torre. Forse anche Yuri l’aveva ingannata? Impossibile. Perché liberarla, per poi darla in pasto comunque ai Primi Nati? No. Anche il vecchio era stato ingannato.
Il suo corpo era laggiù con lei, ma privo di ogni sensazione, un guscio vuoto, un orpello fastidioso. La sua mente, poi, era come imprigionata in ragnatele di tenebra. Gli stessi ricordi, unica consolazione durante i primi momenti di quella dannazione, stavano sbiadendo velocemente.
Presto, sarebbe stata completamente sola.
A quel punto, ne era consapevole, il Custode sarebbe venuto per nutrirsi delle sue paure, della sua rabbia e dei suoi pianti. Ogni tanto, senza essere in grado di quantificare esattamente il tempo, avvertiva dei fruscii. Non era sola, là sotto. Una parte della sua mente partecipava del dolore di milioni di creature, precipitate laggiù da tempo immemorabile. C’erano uomini e donne di ogni epoca e creature ancora più antiche, precedenti all’epoca, che lei aveva sempre udito chiamare Preistoria. Queste presenze non erano una consolazione per la sua solitudine, ma uncini roventi rigirati nel suo cuore spaventato. Le loro menti, ormai, erano solo ricettacoli del disperato dolore, di cui si nutriva il Custode.
Vista da vicino, la Torre del Mattatoio era decisamente un brutto rudere. Una costruzione sottile di pietra scura, fessurata da crepe e ricoperta di licheni. Di giorno, oltretutto, perdeva gran parte del suo aspetto lugubre, trasmettendo, piuttosto, una sensazione di triste abbandono. Eppure, Yuri non si faceva illusioni di ciò che lo aspettava, oltre le mura consunte dal tempo.
“Sei ancora in tempo a rinunciare e a trovare sollievo in una vera morte”. Gli propose il Custode, figura in negativo, stagliata sugli scogli.
“No. Ormai, ho deciso”. In realtà, Yuri era terrorizzato. Nemmeno la conosci. Pensa ai tuoi figli. Gli disse la fastidiosa vocina. “Ho deciso”. Urlò lui. “Tu, giura che la lascerai andare e non la cercherai più e io mi offrirò a te!”.
“Lo giuro”. Rispose il Custode, in tono canzonatorio.
“Che tu sia maledetto, se non terrai fede alla promessa”.
“Io sono già maledetto, ma rispetterò il patto. Siamo fatte così, noi creature del passato”.
“Lo faccio per i miei figli. Perché il loro padre non è l’uomo che ammazzava innocenti nelle foibe”. Disse Yuri per farsi coraggio. La voce gli tremava molto più di quanto avesse voluto ammettere a se stesso.
Abituata alla tenebra, senza compromessi del pozzo, Liliya rimase quasi abbacinata dall’esplosione di luce, che invase il suo mondo. Il calore quasi la bruciò ed il rumore del bosco le frustò i timpani.
Fu solo un istante.
Il suo essere fu invaso dalla gioia della liberazione. Il rumore divenne un canto carezzevole, la luce fu un sollievo per gli occhi, l’arsura il tepore che cura ogni ferita.
Si trovava, di nuovo, nella radura davanti alla Torre. Era mattina. Aveva i vestiti laceri ed era sporca. I suoi sensi, però, erano di nuovo attivi ed il mondo le si spiegava nuovamente davanti, in tutta la sua meraviglia. Assaporò la libertà. Percepì la presenza del Custode alla sua sinistra; poi, vide Yuri. Orso era terreo e si muoveva con fatica. Il volto era tirato in una maschera di fierezza, ma gli occhi mostravano terrore. Si mosse verso di lei.
Liliya capì.
Si è offerto al mio posto.
“Perché?”. Domandò, quando si incrociarono.
“Perché la mia anima è dannata e la mia vita è ormai alla fine. Tu sei giovane e puoi salvarti”.
Nessuno l’aveva mai aiutata come quel vecchio sconosciuto, che ora dava la sua vita per lei. “Grazie”. Disse, abbracciandolo.
“Dillo ai miei figli”. La supplicò lui. Fu l’ultimo attimo di sbandamento. Poi, Yuri si allontanò da lei e, impettito, si diresse alla Torre del Mattatoio, che lo attendeva, come un enorme patibolo di pietra.
Liliya restò a guardarlo per alcuni istanti. Poi, corse lontano da quel luogo maledetto.
Si fermò soltanto quando il profilo ostile della Torre fu completamente celato dagli alberi. Trovò la strada, quando il sole era già alto nel cielo. Corse senza fermarsi, nonostante i crampi alle gambe ed i morsi della fame, finché anche il paese di Yuri non fu lontano, dietro di lei.
Finalmente, quando si sentì sicura, fermò un’auto. La raccolse un’anziana signora comasca molto gentile. Non le fece domande e non pretese spiegazioni.
Vinta dalla stanchezza, Liliya sprofondò in un sonno profondo. Vide Yuri che lottava per mantenere la sanità mentale, nella buia gola del Custode.
“Andrò a raccontare ai tuoi figli che uomo sei. Poi, ti tirerò fuori di lì, dovessi smontare quel rudere, pietra per pietra. Te lo giuro!”.
Questo racconto è stato pubblicato, in versione ridotta, su web, col titolo “La Baia del Mattatoio” nell’Antologia “Sotto una luna ostile” edita da KULT Virtual Press, 2000. L’autore ne ha riscritte parecchie parti e ha utilizzato il finale che aveva pensato in origine e che, per esigenze di spazio, dovette allora modificare.
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