Nell’amicizia e nell’amore (Un “Senza-famiglia” a Medjugorje)

di

Gabriella Dell'Orto


Gabriella Dell'Orto - Nell’amicizia e nell’amore (Un “Senza-famiglia” a Medjugorje)
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
14x20,5 - pp. 260 - Euro 15,50
ISBN 978-88-6037-6961

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“Ogni relazione è l’incontro con un mondo diverso dal nostro, a volte strano, ma mai estraneo, e comunque ricco di tanta umanità.
Proprio questa umanità, oltre ogni differenza, è il territorio su cui è possibile costruire quella comunicazione che poi diventa condivisione, perché in essa si creano ponti di fratellanza tra singoli, comunità, popoli e nazioni.”
La consapevolezza di una comune identità umana nella originalità di ogni persona è ancora oggi il valore sacro che ci impedisce di chiudere il nostro io nel fragile guscio dell’egoismo, barca troppo piccola per navigare da soli l’oceano della Vita.


“…La poca terra del suo cuore stava inesorabilmente trasformandosi in sabbia.
Chi sarebbe stato capace di sollevarlo da quella depressione, che si estendeva al di sotto di una normale esistenza superficiale e stava mettendo radici profonde dentro di lui, fino a diventare compagna inscindibile della sua anima?
Nessuno! Lui non aveva nessuno.
E nessuno poteva più rendergli il suo paradiso perduto: quella fede ingenua, innocente, incrollabile, che è fiducia nella positività della vita e nella fondamentale bontà del cuore dell’uomo.
Le esperienze amare della sua esistenza gli avevano prosciugato la fonte della speranza, e quella fiamma, che pure ancora bruciava dentro di lui, non faceva altro che produrre nuova cenere.
Tutto in lui si consumava e si riduceva in polvere.”

“Luca dimmi, che cosa bisogna fare, quando la felicità bussa al tuo cuore e gli fa fare incredibili capriole di gioia, mentre tutto il tuo corpo si paralizza dalla paura di poter perdere un tesoro così grande?
Sei mai stato tu tanto in alto da sentirti al settimo cielo, con la vertigine che ti blocca la mente, preso dal timore di poter cadere da quella altezza incontrollabile?
Amico mio, non vedo l’ora di rivedere Lia!
Vorrei poterle parlare di ciò che in questo momento sta sconvolgendomi dentro…
Che cosa mi succederà, domani?
Vorrei avere un po’ della fede di quei pellegrini che oggi sono saliti a piedi nudi sulla montagna della croce bianca…
Vorrei avere la loro fede in quel Dio che li accompagna, come sostengono loro. Forse, così, sarei sicuro che qualcuno tiene tra le sue dita il filo della mia vita senza lasciarselo sfuggire, quando il vento delle illusioni fa salire l’aquilone troppo in alto…Una mano…, amico mio, mi basterebbe una mano che riavvolga quel filo, impedendo all’aquilone di schiantarsi a terra.
Una mano che lo raccolga prima che cada sul prato dei sogni perduti. Perché è difficile abitare da soli i nostri castelli di carte, così fragili e senza sostegno, in balia degli altri e degli eventi!”


“Nell’amicizia e nell’amore” di Gabriella Dell’Orto è un romanzo che racchiude una serie di nuove letture e riletture esperienziali, come se l’autrice avesse voluto lasciare aperta la nostra continua possibilità di scelta nei confronti della vita, dentro la concezione di un’esistenza che deve essere vissuta nella sua pienezza.
Nel romanzo si ritrovano il salutare e meraviglioso significato profondo dell’amore e l’inderogabile senso autentico dell’amicizia…
In esso la scrittrice riesce a scandagliare il complesso mondo interiore dei protagonisti, sempre alimentando ciò che merita di essere salvato e recuperando un intreccio memoriale che si sviluppa e s’incrementa pagina dopo pagina…, fino a mettere in luce l’incessante bisogno di amore che ogni essere umano porta con sé.
…Ecco allora che nel viaggio della vita, tra amore, fede e amicizia, si delineano nuovi orizzonti che offrono al protagonista, ai suoi amici, (e anche al lettore) la possibilità d’intraprendere una nuova via per realizzare se stessi.

Massimo Barile


Nell’amicizia e nell’amore (Un “Senza-famiglia” a Medjugorje)

A tutte le mie amiche
e ai miei amici
sparsi per il mondo.
A quelli che sono
più vicini al mio cuore
e che ricordo ogni giorno
nelle mie preghiere.

Ai miei gruppi d’ascolto,
a quelli di adorazione perpetua,
alle sorelle e ai fratelli dell’OFS.

A tutti i miei lettori che
condividono con me
il difficile ma gioioso cammino
verso la casa del Padre,
verso la Vita vera
che non avrà mai fine.


Capitolo primo


Nel cuore della notte

Tutto era iniziato così: uno stridio di gomme sull’asfalto e la sirena assordante dell’ambulanza che mi straziava i timpani, mentre una domanda mi martellava dentro il cervello, che rispondeva ritmicamente ai battiti accelerati del mio cuore:
“Perché, Luca, perché…?”
Guardavo il suo corpo inerte sul lettino mentre l’autoambulanza sfrecciava nella notte, in una città ancora assonnata e semideserta, abitata da ombre che chiudevano la loro vita notturna e altre che iniziavano presto il tran-tran lavorativo di ogni giorno. Ombre che vedevo sfrecciare ai lati della strada, sgombrata dal suono lacerante della sirena.
“Perché Luca, perché proprio te?”
Non c’era risposta a quella domanda, nemmeno ero in grado di cercarla, ma ogni attimo di vita dentro di me, non faceva altro che ripetere:
“Perché, perché, perché…?”
Era solo un suono, una parola che allargava il vuoto della mente che non riusciva più a pensare; l’eco di un’angoscia assurda, che accomunava antiche paure con questa presenza della morte che aleggiava intorno al tuo viso esangue, mentre un apparecchio costringeva i tuoi polmoni a riempirsi ancora d’aria.
Non ti avrebbero lasciato morire, non in questo modo: stupidamente, senza senso.
“Perché, amico mio, perché…?”

Il tempo passava lento su quella sedia fredda, in quel tratto di corsia c’era solo il silenzio; non avevo il coraggio di alzarmi e di sentire il rumore dei miei passi, avanti e indietro, di misurare quei pochi metri, avanti e indietro.
Il mio corpo irrigidito stava lì come una pietra e non riusciva a scaldare il freddo di quel sedile, mentre immagini di un passato non molto lontano si agitavamo senza posa sullo schermo vuoto della mia mente.
Rivedevo la tua allegria contagiosa, quella spontanea generosità che ti spingeva ad occuparti di uno come me, uno che gli altri tenevano alla larga come un cane rognoso.
Tu ti sei preso cura di me, gatto randagio senza casa e senza famiglia, e mi hai insegnato a vivere. Ed ora io sono qui impotente, non mi hai permesso nemmeno di pagare il mio debito, non hai aspettato neanche il mio ritorno e adesso…, adesso io non posso far più niente per te, se non star qui immobile ad aspettare.

“Bruno, dov’è Luca?”
Il silenzio era stato incredibilmente infranto e la bocca del giovane si era aperta ritrovando la parola.
“Dietro quella parete, in sala rianimazione… Io, signora Bellini… Il treno è arrivato in ritardo… Io non ho potuto fare altro… Mi dispiace!”

La signora Gilda Bellini, seguita dal marito e dalla figlia non aveva nemmeno ascoltato le sue scuse, incurante del divieto e del sonno che ancora indugiava sul dolore degli altri in quelle prime ore mattutine, ticchettando decisa sui tacchi, aveva varcato con la sua famiglia la porta davanti a cui Bruno stava seduto immobile da più di un’ora.
Nemmeno a lei, però, era stato concesso di entrare in sala rianimazione, le avevano fatto vedere suo figlio Luca da dietro un vetro, poi tutti erano stati invitati a uscire e ad aspettare fuori il parere del medico che si stava occupando del caso.
Non era stata fornita a loro alcuna altra spiegazione, e ora erano in quattro ad attendere, madre e figlia sedute accanto a lui, il padre in continuo movimento lungo il corridoio.
Fu Cinzia, la prima a rompere il ghiaccio:
“Ma insomma Bruno, si può sapere che cosa è successo?”
Il giovane fu costretto di nuovo a ripescare nella sua mente il senso delle parole:
“Io non lo so… Sono rientrato da Napoli verso le tre e mezza, forse erano le quattro meno dieci… Sono andato in bagno per lavarmi. Luca era raggomitolato a terra… e c’era una siringa poco distante da lui.
Sembrava morto. Io l’ho scosso, ma non dava segni di vita…
Ho chiamato col cellulare il pronto intervento…”
“Che significa? Luca non è malato, e non si droga!”
La voce della signora Gilda era stridula e, alzatasi, lo guardava con sdegno:
“Tu… Tu, che cosa gli hai fatto?”
Bruno non si difese, come se non avesse sentito.
A volte è meglio che le parole siano solo rumori senza senso, suoni che entrano da un orecchio ed escono dall’altro, vibrazioni che non lasciano il segno, che non fanno male.
Il signor Renzo Bellini prese per le spalle la moglie e la guidò verso la sala d’aspetto in fondo al corridoio.
La giovane Cinzia gli diede un’occhiata di sbieco e si alzò seguendo i genitori.
Loro lo consideravano ancora un cane rognoso, un maledetto estraneo che si era intrufolato per convenienza nella loro famiglia, uno che Luca avrebbe dovuto evitare come la peste, perché lui era quel tizio sfigato dalla nascita, che nella vita può combinare solo guai, a sé e agli altri.
Ma si sbagliavano: lui non era più lo stesso di due anni fa, ormai aveva la dignità di un uomo, anche se l’esistenza umana aveva per lui la consistenza di una radura tra le nebbie della sera in una giornata di pioggia, con alberi e cespugli indistinti sospesi nel bigio uniforme di un cielo senza sole.
Eppure quelle parole, dette con malanimo, avevano lasciato il segno, e da qualche secondo nella mente di Bruno la domanda che martellava dentro il cervello aveva cambiato forma e definizione:
“Perché a lui, perché a lui e non a me?”
Se si fosse trovato lui in quella stanza, in coma per overdose…
Se dentro lì ci fosse stato lui, forse le cose sarebbero parse più giuste, più in ordine. Lui era un nessuno, un senza famiglia: aveva da tempo cancellato dalla sua vita il padre, un essere violento quasi sempre ubriaco, dal cui sordido buco di appartamento era fuggito qualche anno fa, per non farsi incastrare.
E il giorno prima non era forse ritornato in Campania per veder seppellire sua madre, una povera prostituta come tante, che faceva il mestiere per campare, morta di una malattia contratta sul ‘lavoro’?
Al funerale di lei non avevano partecipato né Alfredo, suo fratello maggiore in galera per spaccio, né Mara, la sorella minore in affidamento chissà dove.
La sua esistenza da emarginato, marchiato dalla sorte, l’aveva letta sulla faccia dei Bellini, padre madre e figlia. Nel loro silenzio ostile.
Là, nella saletta in fondo al corridoio, essi si stavano facendo la stessa domanda:
“Perché dentro quella stanza c’è Luca, e non quello lì?”
Secondo loro, dunque, avrebbe dovuto esserci Bruno Esposito, nato tra la feccia di un quartiere fatiscente e cresciuto nei vicoli della Napoli vecchia, da cui non può venire nulla di buono e non Luca, rampollo emergente della Milano bene.
Perché non era toccato a lui trovarsi lì, sospeso tra la vita e la morte?
Bruno avrebbe voluto volentieri fare cambio con l’amico, che stava al di là di quella porta, ma ciò non era possibile.
Lui quella merda di droga non l’aveva mai presa, suo fratello a sberle e pedate gli aveva insegnato a starle lontano:
“È solo roba per i fessi. Più son ricchi e più son fessi!”
Luca era ricco, ma a Bruno non era mai parso un fesso.
Allora perché?
Forse era la prima volta, forse era incappato in una partita tagliata male, forse era stato qualcuno ad iniettargliela, come pensava la signora Bellini…
E i ‘forse’ avrebbero potuto inseguirsi in tante altre ipotesi, se lui non avesse di nuovo preferito lasciarsi scivolare nel vuoto nebbioso di uno schermo bianco su cui a tratti, involontariamente, comparivano immagini sfilacciate di ricordi.

“Hai una sigaretta?”
“Mi dispiace non fumo.”
Il giovane era ben vestito e a differenza degli altri si era fermato, senza che lui gli si ponesse davanti.
Così al ragazzo era morta in gola la domanda seguita dalla solita tiritera:
“Non hai niente da darmi? Solo qualche centesimo per mangiare… Mi puoi anche pagare un panino al bar qui all’angolo…!”
Bruno indossava un paio di jeans laceri e una maglietta sporca, era magro e aveva la barba lunga, puzzava di sudore e di solito la gente per toglierselo di torno gli allungava venti o cinquanta centesimi.
Era un buon sistema per campare a Milano.
Ma Luca si era fermato e lo stava osservando.
Anche lui lo guardava senza parlare.
“Mi vendi i tuoi jeans?” gli chiese.
E Bruno scoppiò a ridere.
Era una risata allegra, contagiosa, liberatoria e, come alla fine di una bella barzelletta, ridevano entrambi.
“Non scherzo,” gli disse poco dopo. “Voglio davvero comperare i tuoi calzoni. Te li pago bene!”
“Ma dai, non posso mica togliermeli qui, sotto non ho niente.
E poi tu che fai? Mi dai i tuoi?”
Bruno ora guardava l’altro con occhi di sfida e Luca, sorridendogli, gli allungò un biglietto da visita dicendo:
“Vieni a trovarmi nel pomeriggio. Ti pago questi jeans 50 euro e te ne do un paio di ricambio.”
“D’accordo!”

Allora, amico mio, me ne sono andato intascandomi quel tuo pezzo di carta, quasi fosse un biglietto della lotteria.
Era infatti la lotteria della vita che bussava alla porta del mio vivere da balordo, quell’occasione che ti capita quando meno te lo aspetti, e per me è stato davvero il biglietto vincente.

Davanti a quella porta chiusa ora Bruno seguiva il filo ingarbugliato di altre immagini: quella di un ascensore, dentro una gabbia di ferro battuto, che saliva lento fino all’ultimo piano di un antico palazzo del centro.
“Sono qui! Devi salire ancora una rampa di scale”.
La voce di Luca sembrava piovere dal lucernaio.
C’era tanta luce su quei gradini, una luminosità che gli ricordava quella del suo golfo.
La stanza aveva una terrazza che dominava sulle altre case.
I tendaggi e i vetri della portafinestra erano aperti e lo sguardo poteva spaziare su un mare di tetti fino alla guglia della Madonnina.
“Stupendo, vero? È l’attico che ogni futuro architetto dovrebbe avere.
Bevi qualcosa o preferisci cambiarti e farti un bagno?”
Come sempre, l’imbarazzo in Bruno veniva superato dalla strafottenza:
“Che cos’hai da offrirmi?”
“Limonata ghiacciata, o preferisci qualcosa di più forte?”
“Con questo caldo la limonata vabbene per togliere la sete.”
Il suo accento napoletano era ancora marcato, forse era stato quello a far sorridere Luca. Era bello quel sorriso su quel volto pulito.
A Bruno entrò nel cuore.
Si sedette su una sedia del terrazzo, perché non voleva sporcare e si sorbì in silenzio la limonata che l’altro gli porgeva.

__No, non ti ho invidiato, Luca, non ho mai desiderato la tua ricchezza.
Mi bastava star lì, perché vicino a te mi sentivo bene.__
Era un momento magico, senza pensieri, senza preoccupazioni o paure, un momento magico in cui poteva succedere di tutto, mentre la limonata scendeva fresca e il sole bruciava la pelle. E io guardavo come un presagio il volo di un piccione solitario, che aveva trovato il coraggio di arrivare fin lì.

Ma lì non era la sua casa, perché lui non aveva nessuna casa…
“Li vuoi ancora i miei calzoni?”
“Sì. Ti vuoi fare prima un bagno?”
“E vabbene, facciamoci una ricca doccia!”
“Questi pantaloni dovrebbero andarti. C’è anche una maglietta nuova, se la vuoi, e un paio di mutande…”
“Ah, grazie!”
Mentre l’acqua scrosciava, Luca aveva raccattato con le molle del camino maglietta e calzoni dell’ospite, le aveva buttate in un sacchetto per la biancheria e fatto partire il programma di lavaggio.
Bruno, rivestito a nuovo, gli aveva chiesto il permesso di sbarbarsi.
“Ma guardati, sembri un altro!”
“Già, ripulito così, adesso come li busco i soldi per campare?”
“Non hai mai pensato che per vivere si può anche lavorare?”
“Bravo, parli bene tu, che sei in una reggia, non ti manca niente e non hai nemmeno bisogno di far niente…”
“Ti sbagli! Ma come ti chiami?”
“Bruno.”
“Io Luca.”
“Lo so, c’è scritto sul biglietto che mi hai dato…”
“Ok, lasciamo stare le presentazioni. Quello che volevo dirti è che io, oltre a frequentare l’ultimo anno di università, lavoro nello studio di mio padre, e seguo in cantiere alcuni progetti…
Come vedi, Bruno, mi guadagno da vivere! E questi 50 euro che ti ho promesso sono frutto del mio lavoro.”
“Allora tienili pure, non li voglio!”
“Ma dai, prendili, sono tuoi, non era mia intenzione farti la predica!”
Bruno distolse lo sguardo da quei soldi e si sedette di nuovo sul terrazzo: avrebbe goduto ancora per un poco di quella pace e poi se ne sarebbe andato.
Il cambio d’indumenti era stato di suo gradimento, che ne facesse quello che voleva dei suoi stracci.
Luca si era rimesso in tasca i 50 euro e si era seduto in silenzio vicino a lui.
Il sole iniziava a declinare.
“Quanti anni hai?” Gli chiese Luca.
“Quasi venti. E tu?”
“Qualcuno più di te. E se ti offrissi un lavoro? Hai la patente?”
Bruno rimase un po’ a guardare il sole che si stava infilando tra un mucchio di cirro-cumuli. Poi disse:
“L’ho presa più di un anno fa, ma non tengo il documento. È rimasto a Napoli, in agenzia. Sono partito lasciando lì la patente come un fesso. Per prendere il treno non mi serviva…”
“Ma per guidare un furgoncino ti ci vuole. Non è un grosso problema, si può richiedere, se è vero che ce l’hai…”

Che cosa ci stavo a fare lì?
Chi ero io per rimanere seduto lì come se quella terrazza fosse casa mia?
Dovevo alzarmi e lo feci.

“Ti ho detto che ce l’ho… Comunque adesso devo andare. Grazie per i calzoni e per la limonata!”
“Aspetta, Bruno, parlavo sul serio. Mio zio cerca un autista di cui ci si possa fidare.”
“E io lo sono? Ma fammi il piacere, mi hai raccattato per strada!”
“Non hai nemmeno voluto i miei soldi. Sì, credo che tu sia la persona giusta!” Concluse Luca, mettendosi di fronte a lui, quasi ad impedirgli di uscire.
“Guarda che questo gioco con me non attacca. Io lo faccio tutti i giorni, meglio di te!”
E di nuovo scoppiò sulla bocca di Bruno quella risata contagiosa di chi è pronto a scorgere sempre il lato umoristico della vita.
Luca rise con lui.
“Dammi i tuoi dati. Mi informo su che fine ha fatto la tua patente e domani pomeriggio ti do una risposta per quel lavoro.”
“D’accordo. Verrò qui a sentire come finisce la storia. Fai una buona limonata!”
“Non la faccio io, ma Adele.”
“Adele, chi?”
“Se vieni, domani la vedi. Ciao Bruno.”
”Ciao, Luca.”

Mi avevi chiuso piano la porta alle spalle, quasi ti dispiacesse lasciarmi andar via. Così che io mi sentii in dovere di tornare.
Non capivo tutto quell’interesse e quella generosità da parte tua.
Mi sembrava una trappola.
In quale sporca faccenda stavi per incastrarmi?
La vita mi aveva insegnato che nessuno fa niente per niente, che se uno ti dà qualcosa è solo per fregarti…
Eppure il giorno dopo sono tornato a suonare alla tua porta: la curiosità aveva vinto la battaglia contro il mio orgoglio e la mia diffidenza.
Tu mi aspettavi con una copia via fax della mia patente e con un biglietto di presentazione per il nuovo lavoro.
Avevi già parlato con tuo zio e mi offrivi anche una stanzetta tutta per me dentro il tuo bellissimo attico, dicendomi:
“Pagherai la tua parte di affitto con il primo stipendio.”
Quel giorno conobbi anche Adele, la vecchia donna delle pulizie, che a poco a poco imparai a sostituire.
Così, senza più chiedermi niente, iniziai a vivere con te, tenendo pulita la tua casa, facendo l’autista per tuo zio e consegnando pacchi e pacchettini per quelle strade di Milano, che conoscevo a memoria, per averle percorse a piedi nei mesi precedenti il tuo incontro.

Seduto in quel corridoio d’ospedale all’improvviso Bruno guardò l’orologio, ormai erano le 7,30, alle otto avrebbe dovuto iniziare a lavorare.
Salutò mentalmente il suo amico e guardò di lontano la famiglia di lui che confabulava con una donna in camice bianco.
Non era proprio il caso di andarli a salutare.
Intanto sarebbe ritornato ancora lì al termine della giornata di lavoro, li avrebbe di certo rincontrati e ci sarebbe stato modo di chiarirsi con calma.
Sicuramente la loro incomprensibile reazione era dovuta allo shock subito.

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