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In copertina: «L’albero» quadro dipinto ad olio cm 75×53 di Paolo Paschetto (per gentile concessione di Carlo Pollone)
Prefazione
“Emozioni di gioventù”, trilogia di Giovanni Peyrot, racconta le avvincenti e mirabolanti avventure di alcuni ragazzi, protagonisti di vicende esistenziali, tra reale ed immaginario, che partono dal 1954 e conducono fino all’anno1962.
Si può ben dire che ci troviamo davanti a tre romanzi che, nel continuo gioco narrativo, non disdegnano riferimenti alla storia, dagli albori dell’Uomo all’epoca romana, e ripetute immersioni nel fantastico, alternando ricordi collegati alle esperienze vissute e vicende che prendono vita dalla capacità inventiva di Giovanni Peyrot, sempre desideroso di alimentare il piacere della narrazione, lasciandosi abbandonare al flusso memoriale come a rivivere affascinanti avventure, emozionanti storie romanzesche e fantasie letterarie che nascono dal recupero di dettagliati riferimenti storici.
Nel susseguirsi di questo mare magnum d’emozioni e strabilianti avvenimenti veniamo accompagnati in un mondo letterario che, tra realtà e finzione, fantasia e mito, si nutre della passione per la scrittura di Giovanni Peyrot, degno alchimista di questo gioco alterno tra mondo reale e dimensione immaginifica.
Cercando di scendere nello specifico delle storie raccontate nei tre libri, riporterò alcuni brevi cenni riguardo ciò che potrete scoprire, lasciando, logicamente, ampio spazio alla curiosità dei lettori.
Il primo romanzo, dal titolo “Il sepolcro di Bram”, prende spunto da una vacanza in montagna, nell’estate del 1954, da parte di sei ragazzi: Andrea, con le sorelle Lucia ed Elisa; Simone e la sorella Sara ed, infine, Giorgio.
Durante la vacanza, tra escursioni alla scoperta di sentieri segreti, raccolta di piante montane e campioni di minerali, incontrano il professore Edoardo Apfel e suo figlio Corrado: in breve tempo nascerà una solida amicizia anche perché il professore, appassionato di archeologia, li condurrà alla scoperta della tomba a tumulo di Bram, valoroso guerriero e capo tribù nel territorio piemontese, che si scontrò con le milizie romane comandate da Cozio. La storia raccontata è avvincente ed i ragazzi porteranno con loro un segreto da difendere: la scoperta di un mondo sotterraneo fantastico.
Nel secondo romanzo, “Le miniere di grafite”, le vicende si complicano ed assumono toni drammatici con il verificarsi di sequestri, ferimenti ed imprevedibile lotta contro alcuni malviventi da parte dei sei ragazzi, questa volta nell’ambientazione delle antiche miniere di grafite nelle montagne della Val Pellice e della Val Chisone. Nella vicenda si innestano alcuni incontri con nuovi amici e personaggi, tra i quali spicca la figura del vecchio Arturo, che ha deciso di vivere come un eremita dopo una triste e dolorosa delusione d’amore.
Infine, nel terzo romanzo, “Un manoscritto millenario”, che chiude la trilogia, si dipana la storia avvincente tra il fascino di vicende del passato con la scoperta di un antico manoscritto e drammatici eventi legati alla realtà con alcuni gesti inconsulti da parte di uno spasimante invasato della futura moglie di Giorgio. Le intricate vicissitudini vedono i sei protagonisti cercare di realizzare i loro progetti di vita, muovendosi con maturità tra forti sentimenti ed inevitabili pericoli che la vita comporta.
La narrazione si sposta, poi, sul piano storico, con la scoperta di un’antica pergamena nascosta in un’anfora, risalente al 371 d.C. e ritrovata, nel 1961, negli scavi archeologici vicino a Cavour. L’antico manoscritto si rivelerà una sorta di diario scritto da una nobile donna, di nome Delia Palemone, iniziata al culto della dea Vesta e tra le ultime sacerdotesse vestali, che racconterà la sua vita con parole impregnate d’amore e di profonda umanità.
Tutto ciò giusto per offrire alcuni cenni in riferimento alla trilogia che rappresenta, come già scritto, un giacimento di emozioni e sentimenti, forti legami d’amicizia ed esperienze esistenziali collegate ai protagonisti, nelle quali, Giovanni Peyrot, inserisce interessanti riferimenti storici che hanno un senso di magico e di simbolico: il segreto sepolcro di Bram e l’antico manoscritto di una vestale possono assumere diversi significati ed essere “segno” tangibile di una dimensione senza tempo, indefinita nel suo misterioso divenire ed ancora capace di affascinare.
Nella narrazione di Giovanni Peyrot, sempre coinvolgente, germinano i simboli che ogni lettore può intendere a suo piacimento, ma esiste una chiave di lettura che riconduce alla continua ricerca dell’Uomo di avvicinarsi al mistero, per cercare di scrutare nel “visibile” del mondo reale qualche traccia del mondo “invisibile”.
La trilogia di Giovanni Peyrot è un tuffo letterario in un mondo, tra reale e fantastico, che non risparmia il susseguirsi di eventi ed inaspettati colpi di scena, vicende velate dal mistero ed il dispiegarsi della vita quotidiana, sempre attingendo alla fonte dell’ispirazione, autentico nutrimento narrativo, come a lasciarsi invaghire dalla voglia di scrivere.
Massimo Barile
Emozioni di gioventù
Parte prima
1954
Il sepolcro di Bram
Introduzione
Nell’estate del 1954, alcuni ragazzi e ragazze trascorsero realmente tre settimane di vacanza in montagna sotto le tende. Le esperienze vissute e ricordate in questo libro si riferiscono a nostalgiche reminescenze di quella spensierata vivacità giovanile. I disagi e i lutti causati dal recente conflitto bellico, le prime simpatie, gli intensi studi, le depressioni, gli errori, gli esami, le bocciature, ma anche i sacrifici, le contestazioni, le ribellioni, le avversioni e i risentimenti. E poi l’aria pura dei monti, le sfaticate incoscienti e pericolose fra i dirupi; le scorpacciate con gli amici attorno al fuoco; i canti alpini, i motivi sguaiati, a volte goliardici e sboccati, a volte romantici e accorati. La raccolta di minerali da collezione, d’erbe alpine; la ricerca di nuovi sentieri misteriosi, segreti nascosti in caverne, con l’illusione di trovare chissà quali tesori. I primi sorrisi, corteggiamenti, carezze, vissuti con palpitazioni e sconvolgimenti amorosi. Spesso, a quell’età, era sufficiente uno sguardo; bastava tenere per mano una ragazza per far esplodere intense passioni, per incitare a corse estenuanti, ad urlare al vento il nome della bella appena baciata. E poi ancora: le associazioni culturali, i nascondigli, le monellerie, i sotterfugi per non andare a scuola o a catechismo. E inoltre i sogni, le fantasie, le promesse e le speranze. Gli ideali, la scienza, la storia, il buon senso e la follia. La salute e l’infermità, la mamma, il papà, gli insegnanti e i compagni di scuola. Anche il concetto della morte, con la sua oscura irrimediabilità, era accettato come dolorosa esperienza formativa.
Un mondo essenziale, costruttivo e in formazione, comune a tutti, vissuto nell’adolescenza in mille modi differenti e pur sempre simili, in ogni individuo, paese ed epoca.
Tutto questo in una cornice d’eventi storici reali e istruttivi, resi più gradevoli da fiabe e immaginazioni. Una confusione di sensazioni, sentimenti, lotte, desideri; visto da occhi di ragazzi ancora inesperti, ma affascinati dalla vita. Una vita offerta dalla maestosa e apparentemente disinteressata Natura, solo per un breve periodo, su una Terra resa vivibile dal Sole, dalle stelle, in un Universo immenso, pieno di fenomeni e corpi misteriosi che attendono ancora di essere scoperti. Una vita regolata da uno strumento sorprendente, forse il più raffinato del Cosmo: il nostro cervello. Un organo vitale e unico, che attende solo di essere arricchito di conoscenze per produrre vantaggi a chi lo possiede, attuazioni, e piacere a chi lo circonda, per un miglioramento concreto e spirituale di tutta l’Umanità.
Un progetto per le vacanze
“Non è proprio giusto! Perché loro sì e noi no? Noi siamo femmine e loro sono maschi! E con questo? Pensano d’essere più bravi, più forti e coraggiosi di noi, come se vivessimo ancora nel medioevo? Brutti prepotenti che non sono altro!”
Lucia era furibonda. Aveva appena litigato con il fratello maggiore e, sbattendo la porta alle sue spalle, era corsa a cercare la compagna di scuola e grande amica Sara che viveva nella casa accanto. La rincorreva, altrettanto corrucciata, Elisa, la sorellina minore.
La bionda Sara le accolse con un viso imbambolato, come se vivesse nelle nuvole, ma, appena fu informata della disputa, partecipò con calore all’indignazione delle amiche. Si nascosero in un angolo appartato del giardino e si raccontarono quanto era successo. Tutte e tre erano risentite e cominciarono a lanciare esclamazioni di sdegno, minacciando orribili rappresaglie nei confronti di Andrea, il fratello maggiore di Lucia, e i suoi compari.
Avanzava rapidamente l’estate del 1954; la scuola era finita da pochi giorni e Andrea, diciannove anni, aveva superato brillantemente l’esame di maturità. Senza consultare le sorelle, si era messo d’accordo con i suoi due amici e compagni per andare in vacanza sotto la tenda in montagna. I tre ragazzi, Andrea, Simone e Giorgio, avevano già avuto l’autorizzazione dei genitori, a patto che il progetto fosse ben accurato e dettagliato nei particolari. Lucia aveva assistito alla richiesta di Andrea e avrebbe voluto ch’egli la portasse con sé.
“Perché non vuoi portarmi? Ti prego! Farei la cucina; laverei i piatti e i vestiti…”
“Mia cara Lucia, sii ragionevole! Una ragazza sola con tre ragazzi… Inoltre, per sfaccendare le cose di cucina bastiamo noi. Senza contare che se vieni tu, vorrà venire anche tua sorella… E allora dove sarebbe la pace che vorremmo godere fra soli uomini senza ciance e smorfie femminili? No, niente da fare.”
“Allora proprio non vuoi portarmi con te e con i tuoi amici?”
“Proprio no! Viviamo già tutto l’anno fra quattro mura, vicini gli uni agli altri, in pochi metri quadrati, frequentandoci fin troppo, e spesso rimbeccandoci. Desidero proprio passare qualche giorno con i miei amici fra ampi orizzonti. Dovrai scovare un’altra soluzione per le tue vacanze, e penso che, con l’inventiva che ti caratterizza, troverai un modo piacevole di trascorrerle.”
“Ah, è così? Ebbene te ne pentirai!”
Le tre ragazze discussero a lungo, ma, smorzando poco per volta i toni e arrendendosi all’evidenza d’essere ancora troppo giovani per allontanarsi sole da casa e, soprattutto, senza risorse finanziarie, ricorsero all’unica decisione sensata che si offriva loro. Ne parlarono con i genitori: presto il parere delle famiglie fu favorevole, assecondando i desideri di tutti i ragazzi, maschi e femmine, e garantendo la loro indipendenza.
Il padre di Simone prese in mano la situazione. Era giusto che i giovani, dopo un anno di studio superato da tutti con buoni risultati, meritassero alcune settimane di riposo mentale oltre che di svago istruttivo e formativo. I suoi cari cugini, Anna e Claudio, infatti, gestivano un piccolo rifugio d’alta montagna nelle Alpi piemontesi e si prestarono a offrirgli sostegno e assistenza. Anche le altre famiglie furono d’accordo e collaborarono attivamente fornendo equipaggiamenti, abiti adatti, e vettovaglie. Fu previsto un periodo di tre settimane di vacanze; con la condizione che i giorni successivi sarebbero stati dedicati allo studio e alla preparazione per l’inizio del liceo per le ragazze e per l’università per i ragazzi. I patti furono chiari e i finanziamenti accordati. Si trattava di prendere il treno fino a Torre Pellice, poi l’autocorriera fino all’ultimo paese servito da strada asfaltata, lungo la bella valle parallela a quella del Po. Dopo si doveva continuare a piedi col sacco sulle spalle fino al rifugio alpino, quasi al confine francese. Il papà di Simone si sarebbe incaricato di portare a destinazione, con l’automobile, il materiale più ingombrante: la tenda dei ragazzi, gli zaini, coperte, sacchi a pelo e tutte le provviste. Nel bel pianoro montano a oltre 1750 metri d’altitudine sul livello del mare, circondato da alte cime, propaggini dell’ampio e complesso Mon Viso (3841 m s.l.m.), vi erano diverse casupole costruite dai pastori per riparare i greggi o produrre alcuni dei rinomati formaggi alpini. Una di queste “baite” era stata attrezzata per ospiti estivi in soprannumero e non era distante dal rifugio. Si trattava di una bassa, piccola e poderosa struttura in pietra a vista, spruzzata con calce all’esterno, costruita per resistere al peso di molti metri di neve invernale. All’interno, grossi travi in legno sostenevano il tetto e due minuscole finestrelle, con sbarre in ferro e senza vetri, la rischiaravano. Quattro letti a castello, un tavolo, delle panche, una grossa stufa di ghisa dove cucinare, offrivano un ambiente austero, ma oltremodo ospitale e piacevole. Le ragazze furono entusiaste del nuovo reame, quasi fossero in un castello fatato, e non pensarono più alle presunte impertinenze dei ragazzi nei loro confronti. Questi ultimi poi, non appena arrivati, avevano esplorato a piedi l’intero pianoro per rizzare la tenda in un luogo adatto alle loro esigenze. Proprio in fondo alla valle pianeggiante, a ridosso dei primi contrafforti rocciosi, sistemarono l’accampamento: era una collinetta circondata da pini e larici, leggermente sopraelevata, che permetteva un’ottima osservazione sull’intera spianata e sulle cime dei monti circostanti. Un vicino ruscello sorgivo avrebbe fornito acqua pura e freschissima per dissetarsi, per preparare i pasti e per abluzioni, anche se gelide, rapide e superficiali. Abbondante legna secca poteva essere raccolta nel sottobosco per preparare e accendere un fuoco. Oltre a ciò, a circa mezz’ora di marcia, e proprio di fronte, scendeva un’altissima cascata, non tanto ricca d’acqua, quanto spettacolare per gli splendidi spruzzi, prodotti dai ripetuti salti, mescolati a una fine nebbiolina che, se investita dal sole, generava molteplici arcobaleni.
I due gruppi, maschile e femminile, si erano mantenuti separati durante tutto il viaggio, conservando fra loro, solo nei casi d’inevitabili incontri, un contegno distaccato e sdegnoso. Viaggiarono in vagoni separati in treno; in corriera sedettero nei posti anteriori gli uni e in fondo gli altri, per finire ben divisi e distanti lungo il percorso a piedi. Allorché giunsero alle rispettive destinazioni, non ebbero più il tempo e la voglia di pensare agli avversari, tanto furono presi dalle nuove occupazioni d’insediamento e sistemazione.
Era la domenica 8 Agosto del 1954: il padre di Simone scaricò dall’automobile tutta la mercanzia e prese accordi con i cugini, Anna e Claudio, gestori del rifugio. Raccomandò loro i ragazzi, controllò che questi fossero sufficientemente organizzati e si dispose a riprendere il viaggio di ritorno in città. Come si aspettava, da avveduto e premuroso genitore, fu subito ringraziato e velocemente salutato senza tanti complimenti dai giovani ormai affaccendati e distratti. Un atteggiamento forse un po’ egoista e ingrato, anche se usuale nella disinvoltura filiale moderna: riconoscente, sì, per il sostegno logistico appena ricevuto, ma impacciato e schivo, sia per la presenza dei compagni, che per l’eccitazione e per l’entusiasmante avventura appena iniziata.
E ora, prima di proseguire il racconto, è utile aggiungere poche parole per caratterizzare i nostri personaggi di cui ancora poco sappiamo. Tutti quanti avevano vissuto un’infanzia tormentata a causa dell’ultimo conflitto ’40-’45. Ai sogni di grandezza in abiti da balilla, erano seguite ristrettezze economiche sempre più pesanti, gravi lutti in ogni famiglia, trasferimenti dalla casa cittadina verso paesi vicini meno martoriati dai bombardamenti, ma ugualmente umiliati da distruzioni, persecuzioni, e lotte fratricide. Tutte queste esperienze traumatiche avevano influito in modo diverso sul carattere e sul pensiero in un’età particolarmente recettiva, lasciando tracce indelebili che solo il passare degli anni, e il lento ritorno alla normalità avrebbero mitigato. Gli studi stessi, alle elementari e alle medie, per alcuni erano stati frammentari e incompleti, ma ognuno, secondo il carattere, ne trasse incitamento e volontà per riuscire a superare le difficoltà e la confusione dell’immediato dopoguerra.
Favorendo il gentil sesso, descriveremo prima le tre ragazze che, in maggior misura e inconsapevolmente, avevano subito i disagi degli eventi bellici, in alcune inducendo ansie depressive, e in altre superficialità e sfrontatezza. Come abbiamo già potuto comprendere, Lucia ed Elisa erano le sorelle di Andrea; erano orfani di madre, deceduta dieci anni prima. Il padre si era risposato e la nuova compagna aveva sostituito, solo in parte, la mancanza d’affetto materna. Entrambe le ragazze, con grandi occhi scuri, lunghi capelli bruni e lisci, erano longilinee e sportive, intelligenti, volitive e decise, ma d’età e d’indole assai diversa. Lucia di 17 anni, aveva appena finito la prima liceo, si impegnava a fondo nello studio; riflessiva, giudiziosa, seria, riservata e dolce, facilmente si irritava con gli altri ritenendo di subire dei torti, e sovente tendeva a deprimersi. Spesso si scopriva melanconica, insicura e incerta. Ammirava le decise qualità d’autocontrollo del fratello maggiore e la disinvolta spigliatezza della sorella minore, dispiacendosi di un’immaginaria inferiorità. Amava la solitudine, la musica classica e la letteratura romantica; isolandosi, quanto più poteva, in un mondo ideale e rarefatto nel tentativo di emergere da un’acerba e ansiosa timidezza.
Elisa, 14 anni, aveva ultimato con difficoltà la terza media; non perché fosse meno intelligente dei fratelli, ma per una vivacità istintiva, epidermica e superficiale che le impediva di riflettere o di impegnarsi su ogni mansione o compito che le era affidato. Inutilmente le si consigliava di seguire un certo ragionamento perché la si vedeva, subito dopo, agire esattamente al contrario. Anche se capiva al volo le situazioni, rispondeva con frasi infantili e senza senso che inducevano all’ilarità o all’esasperazione. Adolescente da poco sbocciata alla vita, amava la compagnia, la musica moderna e i fumetti. Allegra, civettuola, disinibita, anticonformista, a volte anche sfrontata, si avvaleva delle sue naturali doti femminili, fatte di graziose moine, movenze sensuali e seduttrici, per ottenere ciò che voleva. Passionale e volubile, i suoi capricci sfociavano spesso in pianti sfrenati e strilli, fortunatamente di breve durata.
Sara, sorella di Simone, aveva 17 anni e aveva superato bene la prima liceo come la compagna di classe Lucia, di cui era confidente e grande amica. Bionda, con gli occhi verdi smeraldo, come il fratello maggiore Simone, era caratterizzata da un aspetto sognatore, quasi indifferente, freddo e impassibile. Parlandole, Lucia si spazientiva, pensando di essere trascurata e di non vedersi considerare come avrebbe voluto, per poi rendersi conto dell’atteggiamento difensivo che la sua amica cercava di imporsi per coprire intime fobie e ossessioni. Una specie d’armatura interna eretta a difendere pensieri e segreti di donna ancora insicura. Talvolta immaginava sé stessa come una città, piena di stanze buie e numerosi corridoi nascosti, capaci di condurla in nuovi mondi. Intelligente, bella, slanciata, appariscente, destava ammirazione fra i ragazzi della sua età che non le risparmiavano occhiate e commenti spesso importuni, ai quali non voleva dar peso o non gradiva, tutelandosi con un’apparenza compassata ed altera.
Passiamo ora a descrivere sommariamente i maschi cominciando dal maggiore: Simone, vent’anni, biondo, con gli occhi verdi come la sorella Sara. Durante la prima liceo si era fratturato un braccio cadendo dalla bicicletta. Nel corso della convalescenza dovette trasferirsi in un diverso istituto scolastico, per un cambiamento di residenza famigliare che lo turbò e scoraggiò al tal punto da farlo cadere in una crisi depressiva. Per questo motivo perse un anno di scuola, anche se, sembra, non fosse estranea un’infatuazione travolgente, improvvisa, durata diversi mesi e rapidamente interrotta. La reazione volitiva a quell’infelice sbandata, anche con l’aiuto affettuoso della sorella, riportò Simone sulla giusta strada, spingendolo a trovare nello studio uno scopo e un attento programma per la futura professione. Infatti, si sarebbe iscritto a Medicina. Da circa due anni, grazie alla sua prestanza, era spesso invitato ai compleanni dagli amici, in compagnia della sorella, ed entrambi erano apprezzati per l’allegria festaiola e la conversazione brillante e spiritosa.
Andrea, 19 anni, fratello maggiore di Lucia ed Elisa, aveva tutte le caratteristiche del bravo ragazzo. Molto intelligente e riflessivo, era primo della classe, e aveva conseguito brillantemente la maturità. Alto un metro e ottanta, atletico e sportivo, eccelleva nella squadra di pallacanestro ed era appassionato di storia. Forse si sarebbe iscritto a Lettere e Filosofia, anche se non gli dispiacevano le materie scientifiche. D’indole scherzosa e a volte anche provocante, era interessato ai grandi quesiti esistenziali, quali l’origine dell’universo, lo scopo della vita e dell’uomo sulla terra. Insomma, nonostante tutte le doti e qualità, dimostrava alcune indecisioni nella scelta di una futura professione.
Infine Giorgio: figlio unico di madre vedova, 19 anni, aspetto raffinato, bruno con gli occhi scuri, era un timido, taciturno e introverso che si stava poco per volta svegliando dal suo isolamento. Aveva superato per il rotto della cuffia l’esame di maturità con la media del sei, ma era sicuro che si sarebbe iscritto alla facoltà d’Ingegneria. Viziato e poco socievole, impacciato con le ragazze, aveva maturato nella solitudine capacità manuali e tecniche prodigiose. Non c’era un congegno meccanico, elettrico o elettronico in cui non sapesse mettere mano. Appassionato di scienze, leggeva su ogni giornale le più recenti scoperte. S’intendeva anche di chimica e d’astronomia. Le sue serate preferite le passava sul tetto, in raccoglimento, o nell’osservazione di stelle, pianeti e costellazioni con un piccolo telescopio. Di tutti i ragazzi della compagnia era quello meno cittadino, essendo dedito a gite solitarie in montagna. La madre apprensiva si tormentava regolarmente ogni qual volta il figlio si allontanava di casa da solo, e fu assai favorevole a lasciarlo andare con un gruppo d’amici che sembrava affiatato, educato e ben organizzato.
[continua]
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