Alcuni luoghi trasmettono più di altri l’impressione di “vertigine”, così succede a chi si spinge nell’estremo Nord del paese al confine con l’Etiopia sulle rive del Lago Turkana, ai margini della zona desertica del Chalbi dove vivono gli ultimi nomadi della tribù degli “El Molo”.
LAGO TURKANA
Vento e sole, sole e vento,
croste di sale su rive sassose,
pietre dal ventre della terra
disseminate su declivi aridi
e nessuna speranza nell’aria.
Predano sulla riva i cormorani
a gara con i pescatori,
unico cibo a seccare sui graticci,
tra nugoli di mosche,
il bianco tipilapia*.
Pigro sul bagnasciuga un coccodrillo
sonnecchia, verdastro,
scaglie dure confuse tra le rocce,
predatore e preda
in un assurdo carosello
dove solo contano fame e sete.
Uomini come cortecce
di alberi antichi,
donne impastate di fatica,
asciugate dal sole
e da ripetute maternità:
generare, faticare, morire,
un tempo senza pause,
senza parentesi, senza respiro,
vita breve e asciutta,
senza tracce né epigrafi.
Tutto accoglie il ventre della terra
che genera e distrugge,
interminabile ciclo…
cielo, acqua, pietre
e l’antico vulcano
che dorme un sonno infinito
nel suo cratere di polvere e sassi
color di morte.
- pesce caratteristico del lago Turkana.
Some places, more than others, pass the sensation of “vertigo”, so it arrives to anybody who reach the extreme nord land, near the border zone of Ethiopia, on the shores of Turkana lake, not far from the desert land of Chalby, where live the last nomad people named El Molo.
LAKE TURKANA
Wind and sun, sun and wind
crusts of salt on stony shores,
rocks from the bowels of the earth
strewn on barren slopes:
no hope in the air.
On the shore cormorant predators
competing with the fishermen,
sole food the white tipilapia*
drying on the trestles.
On the water’s edge a crocodile
dozes lazily, greenish steel-like scales
shadowy amongst the rocks,
predator and prey
in an absurd carousel
where only
hunger and thirst count.
Men with skin
like the bark of age-old trees,
women heavy with weariness,
dried out by the sun
and by repeated child birth:
breed, toil, die…
time without a pause,
without parenthesis, without respite,
life short and dry,
without trace and epigraph.
Everything accept the bowels of the earth
which give birth and destroy,
an endless cycle:
sky, water and stones
and the old volcano
immersed in an endless sleep
in its crater of dust and stones
colour of death.
Perché “Vertigine africana”?
Perché è questa la sensazione che prende chi viaggia in questo incredibile continente lontano dai luoghi abitualmente frequentati dai turisti dove si ha la possibilità di vivere la realtà della gente locale, di rendersi conto delle loro necessità, del divario che separa la nostra civiltà occidentale dalle difficoltà che le popolazioni incontrano a progredire, ad acquisire strumenti e competenze che li avvicinino a quella che noi chiamiamo “civiltà” con tutto quello di positivo e di negativo che essa comporta.
Non possiamo in ogni caso negare che il cammino dell’umanità deve sempre essere in avanti e in salita e che la gioia di vivere è la conseguenza della conquista di qualcosa di nuovo nella scala del progresso e della conoscenza.
Siamo soprattutto turbati nel vedere gente che manca del minimo indispensabile per la sopravvivenza e per vivere dignitosamente quando invece nei nostri paesi dilagano gli sprechi, siamo circondati dal superfluo e in particolare dall’indifferenza e dall’egoismo.
Ecco quindi la sensazione di smarrimento che ci prende mentre ci troviamo in un paese africano ma soprattutto al ritorno nella nostra civiltà che non ci appare più così scintillante ma che vediamo offuscata da una nube di tristezza e di impotenza davanti alla vastità del problema.
Vertigine però sono anche gli splendidi paesaggi, l’infinita distesa delle savane dove lo sguardo corre in lontananza dietro le sagome alte e leggere delle giraffe, fruga tra cespugli spinosi alla scoperta di felini sonnacchiosi, si turba alla vista dei possenti pachidermi, s’inerpica lungo i tronchi di secolari baobab tra giochi di babbuini,scivola dietro lo scorrere di fiumi sinuosi dove affiorano fauci di coccodrilli, s’incanta guardando tramonti infuocati per poi spaziare in un cielo incredibilmente palpitante di migliaia di stelle e da costellazioni a noi sconosciute.
Ed ora volete seguirmi in questo viaggio poetico e provare con me la “Vertigine africana”?
Why African Vertigo?
Because this is the sensation that strikes the traveller in this incredible continent so far from the places usually known by tourists and where there is the possibility to take part in the reality of the local people, to become aware of their necessities, of the difference that separates our western civilization from the difficulties that these populations have in trying to make progress, to acquire means and abilities to bring them closer to what we call “civilization” with all its advantages and disadvantages.
However we cannot deny that the progress of humanity must always be forward and upward and that the joy of living is the consequence of the conquest of something new on the ladder of progress and knowledge.
Above all we are troubled seeing people that do not have even the bare essentials to survive and have a decent life, when on the other hand in our countries, waste is rife, we are surrounded by the superfluous and in particular by indifference and egoism.
Thus it is the sensation of disorientation that overwhelms us while we find ourselves in an African country, but even more so on returning to our civilization which no longer appears so brilliant, but which we see tarnished by a cloud of indifference, of not being able to do anything in front of the vastness of the problem.
Vertigo however, is also the splendid panoramas, the infinite extension of the savannahs where your gaze runs far behind the high, light outlines of the giraffes, searches amongst the thorny bushes to discover sleepy felines, is troubled at the sight of the powerful pachyderms, climbs up the trunks of the centuries-old baobabs watching the play of baboons, slides behind the flow of meandering rivers where crocodile jaws emerge, is enchanted in watching fiery sunsets become part of a sky pulsating incredibly with thousands of stars and constellations unknown to us.
Why don’t you follow me on this poetic trip and share the sensation of: “African vertigo”?
“RAFIKI YANGU” – Amico mio
L’Africa mi è entrata nel cuore ancor prima di conoscerla quando, bambina, ascoltavo i racconti di mio padre che era stato volontario in Abissinia, lui mi parlava di terre lontane, di colline sabbiose, di guadi, di tramonti ma anche della gente dagli occhi ardenti, dalla pelle scura, dai corpi agili, dagli sguardi curiosi e sorridenti, ne parlava con simpatia suscitando in me il desiderio di conoscerla.
Se penso ai racconti di mio padre non ho certo l’impressione di un’Italia colonizzatrice come si sente abitualmente dire.
Papà morì che io avevo solo 9 anni ed è dovuto trascorrere molto tempo prima che conoscessi l’Africa.
Dapprima ho conosciuto l’Africa storica, quella dell’Egitto, del Marocco, della Tunisia… poi quella folcloristica delle isole di Capo Verde, di Mauritius, isola dalle molte etnie che convivono senza grandi problemi (creoli, indiani, cinesi, africani…)
Ma il vero cuore dell’Africa l’ho conosciuto in Kenya, prima l’Africa dei Parchi naturali, dei Lodge, dei Safari, degli animali selvaggi e dei laghi fiabeschi, come i laghi Nakuru e Naywasha, ed infine quella reale a WAMBA, con la sue tribù fuori dal tempo, i nomadi sempre in lotta con la natura per la propria sopravvivenza, gente sorridente, cordiale, aperta all’incontro, i piccoli imbrogli con cui cerca di sfuggire all’atavica povertà, i venditori ambulanti con la loro paziente insistenza, i vecchi con la sofferenza sopportata che si intravede negli sguardi rassegnati ma fieri e infine i bambini da cui non ti puoi più liberare perché ti conquistano con gli eterni sorrisi, la curiosità, l’entusiasmo, la fiducia che tu possa fare qualcosa per loro mentre tu ti senti impotente di fronte alle innumerevoli necessità perché capisci che l’aiuto che puoi dare ad uno di loro è solo una goccia nel mare e ti domandi se sia meglio fare o non fare, capisci che non puoi cambiare una realtà di così vaste proporzioni perché ci vogliono mezzi infiniti e molto, molto tempo.
Ti domandi allora perché i figli di una terra così bella debbano faticare tanto per vivere, te la prendi perfino con il Signore e gli chiedi la ragione di tanta differenza tra il nostro mondo e il loro.
Infine, dopo lo sconvolgimento del primo impatto e la constatazione della tua impotenza di fronte a realtà troppo grandi, capisci che l’unico modo di dialogare, di interagire col mondo africano è l’AMORE, amare questa gente per quello che è, cercare di mettersi al loro livello, condividere un sorriso, essere presenza, dare la tua disponibilità ai piccoli miglioramenti della vita senza pretendere di cambiare nulla ma facendo loro comprendere che ci sei e che loro contano qualcosa per te:
“RAFIKI YANGU” – Amico mio
così si allacciano amicizie, si stabiliscono contatti, si trasmette la gioia di vivere pur nella diversità dei mondi in cui ciascuno di noi è nato e di cui porta il segno per sempre.
L’importante è riconoscere in ciascuno l’Uomo, creatura di Dio con la sua dignità e il suo diritto alla vita comunque e dovunque.
“RAFIKI YANGU” – My Friend
Africa came into my heart even before I actually knew it.
As a little girl, I listened to the tales of my father who had been a soldier in Abyssinia. He spoke to me of these far lands, of their sandy hills, of wading places in rivers, of the sunsets, but also about the people with their ardent eyes, their dark skin, their agile bodies, their faces, full of curiosity and smiles. He spoke with such fondness that I just couldn’t wait to get to know these places.
If I think about the tales my father told me, what my father told me about Italy as a colonist is completely different to what is generally believed.
My father died when I was only nine and many years passed before I was able to know Africa.
First of all, I got to know Africa through its history, that of Egypt, Morocco, Tunisia… then I learnt about the folklore of the Islands of Capo Verde, Mauritius, an island with so many ethnic communities (Creoles, Indians, Chinese, Africans) but all living together without any great problems.
However, the true heart of Africa I got to know in Kenya. First of all I encountered the Africa of the natural Parks, of the lodges, of the safaris, of the wild animals and the fairy-tale lakes like lake Nakuru and Lake Naywasha. After this I penetrated into the reality of the country itself at WAMBA, with its ageless people, the nomads continually struggling against nature for their survival, people smiling, open hearted, with their little ruses to try to evade atavistic poverty, peddlers with their persistent patience, the elderly with their submissive suffering sensed/seen in their resigned but proud looks. And then the children, you cannot ever forget them, they catch you with their ever lasting smiles curiosity enthusiasm, the trust that you can do something for them whilst you yourself feel helpless in front of their countless necessities. You understand that the help you can give one of them is just a drop in the ocean and you can’t decide if it is better to do it or not to do it. You understand that you cannot change such an enormous reality of life, it would take infinite means and so much, so much time.
You ask yourself why then the people of such a beautiful land must find it so difficult to survive. You even get angry with God and you ask Him the reason for so much difference between our world and theirs. And then, after the shock of the first impact and the awareness of your not being able to do anything about such a big problem, you understand that the only way to dialogue, to interact with the African world is through LOVE. You must love these people for what they are, try to put yourself at their level, share a smile, be present, offer your help to make small improvements in their lives without expecting to change much, but letting them understand that you are there and that they mean something for you.
In this way, friendship is born, contacts are made, the joy of living is spread even in the diversity of the worlds in which each of us is born and of which we carry the mark for ever.
The important thing is to recognise in each and everyone the Man, a creature of God, with his dignity and his right to live all the same everywhere.
AFRICA NEL MIO CUORE
Questa terra ha marchiato il mio cuore
con un ferro incandescente
come la sua sabbia sottile,
una polvere invisibile
che penetra dappertutto:
le narici, la bocca, i capelli…
Cento volte sciacquerà i miei vestiti
l’acqua pura della fontana
prima di togliere queste macchie rosse,
ma quelle che segnano il mio cuore
nessun’acqua le potrà cancellare.
AFRICA IN MY HEART
This land has branded my heart
with a burning iron
like its fine sand,
an invisible dust
that penetrates everywhere:
nostrils, mouth, hair…
The pure water of the fountain
will rinse my clothes a hundred times
before eliminating these red stains
but those that mark my heart
no water could take away.
L’OSPEDALE DI WAMBA
L’Ospedale di Wamba sorge nell’omonimo villaggio situato nel Nord/Est del Kenya, a circa 600 Km. da Nairobi, in una regione semi arida in mezzo alla savana spesso preda della siccità ma che magicamente rifiorisce non appena arrivano le piogge a rinverdire distese polverose e rossastre, a far rifiorire i rami degli arbusti spinosi e far sbocciare corolle dai colori accesi, fiori dai petali carnosi, profumati e sensuali come il frangipane, festosi come le bouganvilles.
L’Ospedale è sorto negli anni ’60 per l’iniziativa di un coraggioso medico, il dott. Silvio Prandoni, su un terreno della locale Missione dei Padri della Consolata di Torino, con l’audace progetto di venire in aiuto delle locali popolazioni nomadi (Samburu, Turkana, Pokot) che si muovono al di fuori delle normali vie di comunicazione e vivono ancora in villaggi di basse capanne di sterpi e fango, spostandosi da un luogo all’altro alla ricerca di pascoli per le greggi di capre e mandrie di vacche
Spesso debilitata dalla fame e dalla sete questa gente diventa preda di malattie endemiche come la malaria, la tubercolosi e, negli ultimi anni, dell’AIDS che è ormai divenuto la maggior causa di morte per la popolazione africana.
L’Ospedale serve una popolazione di più di 200.000 abitanti, ha 200 posti letto, è dotato di attrezzature modernissime donate dai numerosi amici italiani ed è reso sempre efficiente dalla presenza di medici e tecnici provenienti da tutt’Italia.
Da qualche anno ho l’opportunità di recarmi qui con mio marito che, legato da lunga amicizia con il Dott. Prandoni, si occupa di ristrutturazioni edilizie.
Sicuramente devo dire che ogni volta ricevo di più di quello che riesco a dare.
In particolare mi piace occuparmi dei bambini che con il loro entusiasmo, la loro curiosità e i loro immancabili sorrisi ti riempiono di gioia e trasmettono la voglia di vivere.
A loro e a tutti i bambini africani vorrei dedicare questa mia piccola raccolta di riflessioni e pensieri.
WAMBA HOSPITAL
Wamba Hospital is in the village of the same name in the North-East of Kenya, about 700 km. north of Nairobi, in a semi arid region in the middle of the savannah often hit by drought but which like magic flourishes again as soon as the rains arrive to make the dusty and red expanses green again, to bring back to life the branches of the thorny bushes, and then the corolla bursting into bloom with their strong colours, their flowers opening up with fleshy petals, scented and sensual like that of the frangipani, joyful like that of the bougainvillea.
The Hospital was founded in the 60’s through the initiative of a courageous medical doctor, Silvio Prandoni, on ground belonging to the local Mission of the Fathers of the Consolata-Turin, with the daring project to come to the aid of the local nomad populations (Samburu, Turkana, Pokot) who live and move outside the normal routes of communication and still live in villages of little huts made of dry grass and mud, moving from one place to another to search for grazing for their herds of goats and cows.
Often weakened by hunger and by thirst, this people easily succumb to endemic sicknesses like malaria, tuberculosis and, in recent years, to AIDS which nowadays has become the main cause of death for the African population.
The Hospital serves a population of more than 200.000 people, has 200 beds, is equipped with very modern equipment donated by numerous italian friends and gives an efficient service thanks to the presence of doctors and technicians from all over Italy.
For a number of years now I have had the opportunity to visit this Hospital with my husband, who sees to the building work and is also a great friend of Doctor Prandoni. In particular, I like taking care of the children, who, with their enthusiasm, their curiosity and their unfailing smiles, fill you with their joy and transmit the their will to live.
How little I give them but how much I receive!
To them and all African children. I would like to dedicate this little collection of meditations and thoughts of mine.
LA STRADA PER WAMBA
La strada per Wamba:
polvere rossa sotto i sandali,
mulinelli tra caldi aliti di vento
solcati da voli variopinti.
Ombrelli di acacie spinose
aprono oasi d’ombra
nel tunnel della calura,
schiocca al margine di un sentiero
il sibilo di un cobra rosso.
Orme su orme s’intrecciano
sull’unica strada
in un mosaico di tracce
chiazzato di sterco.
Nuvole polverose
di fuoristrada temerari
velano insegne sgangherate
davanti a grigi bazar.
All’ingresso del villaggio
un funereo cartello
ammonisce i turisti sprovveduti
“Attenti: qui AIDS.”
Si agitano
fantasmi di morte
in questo itinerario senza tempo
scandito dal sole.
All’orizzonte
una lancia e un mantello rosso:
“Sono un pastore di capre,
non sono nessuno”.
THE ROAD TO WAMBA
The road to Wamba:
red dust under your sandals,
eddies of hot breaths of wind
broken by multi-coloured flights.
Umbrella-like thorny acacia
offer oases of shade
in the tunnel of the heat,
at the side of a path clicks
the hiss of a red cobra.
Footprints after footprints merge
along this one and only road
in a mosaic of tracks
blotched by droppings.
Clouds of dust
from fearless range rovers
veil ramshackle signs
in front of grey bazaars.
At the entrance to the village
a funereal notice
warns ingenuous tourists
“Warning: AIDS here.”
Phantasms of death
move about
in this timeless itinerary
regulated by the sun.
On the horizon
a lance and a red cloak:
“I’m a shepherd,
I’am nobody.”