Giuseppe Cancelliere - Pinsier, emozziuoi e rrigard (Pensieri, emozioni e ricordi): poesie nel dialetto galloitalico di San Fratello (ME)
Collana "Apollonia" - I libri dedicati alle minoranze linguistiche: lingua, storia e letteratura 14x20,5 - pp. 164 - Euro 13,00 ISBN 978-88-6587-7562 Clicca qui per acquistare questo libro LA CATARSI NELLA POESIA ONESTA Questa raccolta di poesie vuole essere un segno che anche nei momenti meno fortunati della vita di una persona la poesia può essere salvifica, oltre ad essere espressione dei propri sentimenti. Se Giuseppe Cancelliere, autore di questo libro, non avesse incontrato ad un certo punto della sua vita la casualità di perdere la vista, con ogni probabilità avremmo avuto tra le mani più di un suo libro di poesie basate sulle sue esperienze personali avendo egli viaggiato molto. Ma forse in queste ipotetiche poesie non avremmo trovato il movente principale della pulsione poetica: la necessità di esternare il proprio dolore aggrappandosi ai suoi versi che qui assumono anche valore informativo e liberatorio dei movimenti ostili del pensiero. Benedetto Di Pietro 1 Alcune di queste poesie sono già apparse nell’antologia “Parole sanfratellane nel Web” a cura di B. Di Pietro (Montedit, Melegnano 2016). 6 Giuseppe Cancelliere. 2 Per semplicità di lettura qui riporto la traduzione dei versi. Pinsier, emozziuoi e rrigard (Pensieri, emozioni e ricordi): poesie nel dialetto galloitalico di San Fratello (ME)Pinsier, emozziuoi, rrigard
LE VIE DELL’ADOLESCENZA
U miea paies s’acciema San Frareu.
Il mio paese si chiama San Fratello. / È un paese di montagna, antico e bello, / con la Rocca che si vede da lontano / ch’è l’onore di ogni Sanfratellano. // Il mio paese ha bellezze e storia / e ai paesi vicini facciamo invidia; / abbiamo tradizioni vecchie di centinaia d’anni / che ci arricchiscono di gioia ogni giorno il cuore. // Il mio paese è conosciuto per i suoi cavalli, / per il suo bosco, la sua Festa dei Giudei, / per le sue usanze, la sua aria salubre / che a respirarla vengono pure quelli della riviera. // Il mio paese ha la sua parlata, / la lingua che ha ereditato, una bellezza. / C’è sempre un profumo appena esci fuori: / profumo di pietanze buone, di buona gente. // Il mio paese sembrerebbe che è quasi abbandonato, / pure così è uno smeraldo dei monti Nebrodi, un vero tesoro. / Chi se ne andò lontano come me lo sa / che non se lo scorda mai il suo tesoro, / se lo porta notte e giorno nel suo cuore. / Compaesani ce ne siamo molti sparsi nel mondo / e sono certo che siamo tutti degni, / fieri di chiamarci Sanfratellani.
Quänn Mearz sgreuna u rrusäri dî suoi giuorn, Quänn Mearz sgreuna u rrusäri dî suoi giuorn, Millegn ni ghj’abestu pi scaver
Quando marzo sgrana il rosario dei suoi giorni, / capriccioso com’è lo sappiamo tutti, / condisce il tempo con le spezie come fosse pietanza; / abbondanza di pazzia ne regala a mani piene / e noi, anche se arrabbiati, ne paghiamo il conto. / Oggi appena sveglio guardando dalla finestra, / che bellezza, che meraviglia c’era: / le montagne coperte di neve cristallina, / ieri sembravano smeraldi oscuri, / oggi allo spuntar del sole / splendono come fossero diamanti, / così lucenti e belli che di simile non v’è nulla. // Preziosa bellezza solitaria San Fratello, / smeraldo che l’occhio incanta / a vederlo alto com’è solletica i piedi al cielo con le dita, / la Rocca come una stella giallo-rosa, / puntigliose le mani del tempo che l’hanno cesellata; / a guardia delle porte nebroidee / governa come un re seduto sul trono / il mare, le valli, i boschi, fiumare, contrade di pascoli, / suini neri, pecore, capre e vacche, / cavalli di razza e purosangue / che corrono e vagano in tutta libertà. // Quando marzo sgrana il rosario dei suoi giorni, / non si capisce più nulla, / soffia scirocco, piove col sole e nevica. / Che disdetta quest’anno / la primavera è già dietro la porta, / nella campagna ancora completamente nuda / la natura intirizzisce la terra già ubriaca, / vorrebbe smaltire la sbornia d’acqua, / desiderosa più che mai / sogna la veste bella di fiori e d’erba. / Lo zio Antonio scoraggiato osserva: / c’è poca erba, gli agnelli muoiono di fame; / pecore capretti e capre, / se cresce l’erba ci sarà caciocavallo formaggio e ricotta / e un pochino cresce anche la tasca. / C’è allegria nell’aria intorno / la sera nelle viuzze e strade / il suono di trombe3 apre le ali, / vola in cielo e nelle orecchie del paese, / come una tempesta di scirocco / trascina un fuoco che divampa, / la passione morde anima e corpo, / dentro e fuori dalle vecchie porte sanfratellane. // Mille anni non bastano per scavare / fino a trovare le radici dell’antica tradizione, / che arricchisce d’onore tutti i sanfratellani: / amore che si tramanda da nonno-padre in figlio, / manine sante tagliano fantasiose, / infilano per-line, cuciono lustrini, / ricamano fiori, la vita, bellezza che riempie gli oc-chi, / anche i forestieri si beano come i paesani; / la divisa del giudeo è arte storia cultura, roba di valore, / per chi la indossa è gioia preziosa impagabile. // Nessuno dimentica salsiccia, maccheroni, / il fiasco di vino, frittelle di cardi, / la tavola imbandita, la festa è cominciata: / buon appetito a chi si riempie la pancia, / mentre i capretti e gli agnelli, poveretti / sentono arrivare la Pasqua e piangono dalla paura. 3 Si riferisce alla Festa dei Giudei nell’ambito della Pasqua sanfratellana.
Nta na vanedda strotta strotta, Nieucc carusgì la buffuniemu, Rodda era meagra e socca cam na chiena, Avaia i cavai gieun cam la stuopa Pi dì giuorn nudd la vitt e tucc i visgì
In una viuzza stretta stretta / dove a malapena il sole s’infilava, / sta-va sola in una stanzetta / una vecchia che tutti chiamavano / …«la zzi Pina». // Noi bambini la prendavamo in giro, / ogni volta che l’incontravamo. / La facevamo inversare un pochino, / dicendole: «Ahi, Ahi! zzi Pina» / e la poveretta: «Cos’hai, figlioletto» / «Zzi Pina, ho un chiodino4 nella scarpa». / Allora lei infastidita rispondeva: / «Figli di buona madre che siete, / vi possano cadere tutti i peccati!», / …la poveretta. // Era magra e secca come una canna, / quando c’era lo scirocco / s’aggrappava ai muri e pareti, / per paura che il vento la facesse volare. / Era beghina, tutti i giorni andava in chiesa, / quando tuonava c’era tutto il Paradiso che sfilava: / «Santa Tecla e San Girolamo, quanto è bello il vostro nome!» / …la zzi Pina // Aveva i capelli gialli come la stoppa / e quando si pettinava, davanti erano le onde / con le forcine, dietro le trecce a tupè. / Poi s’infarinava la faccia con la cipria / e usciva fuori nella via, / tutti i giorni da mattina a sera,/ …la zzi Pina. // Per due giorni nessuno l’ha vista e tutti i vicini / era-no preoccupati, fatto strano; / si chiedevano: «È successo qualcosa», / hanno sfondata la porta e la povera zzi Pina / …era morta. 4 I chiodini delle scarpe in dialetto si chiamano zzippi (sing. zzippa), qui l’autore gioca sull’omofonia del diminutivo zzippina con il nome della persona Zz Pina.
Mies cam suogn ara ni ghji vuloss meanch pinser,
Messo come sono ora non vorrei neanche pensarci, / certi momenti sento come se il peso del mondo m’è crollato addosso, / troppe cose mi addolorano l’animo, / ma come si fa a rimanere insensibile e non aver più orecchie, / non ascoltare le notizie, cosa succede pure da noi, / solo l’egoista che ha una pietra al posto del cuore / riesce a stare muto chiuso nel suo nulla / e magari dice che ognuno si deve piangere solo i propri guai, / mentre miseria e fame aumentano, / omicidi e guerre come l’erba crescono; / non mancano mai tempeste, terremoti e frane, / quando piove una settimana intera, / abbiamo tutti paura e il cuore trema come foglia. / I giorni di disgrazia del passato che credevamo morti / nuovamente son tornati, / piano piano le radici del mio paese scivolano / nelle fauci del vallone muoiono frantumati / con tutti i sogni, le gioie, le bellezze / guadagnate con sudore e sofferenza. / In men che si dica abbiamo la tristezza nello sguardo, / migliaia di occhi son diventati fiumi di lacrime / che scorrono nell’anima del mondo. // Sanfratellani, figli di mamma Roccaforte, / siamo in tanti nel paese e fuori sparpagliati, / che diciamo di volere bene a San Fratello, / dolore che abbiamo tutti per essere lontani. / Quando il destino comanda partiamo tutti / come una mandria di mucche in cerca di erba, / pur sapendo che al paese lasciamo padri e madri, / le persone care e gli amici del cuore / e Roccaforte che piange noi. / Una rosa sempre piena di sfumature che tutti incanta, / tale è la lingua sanfratellana / quando s’innaffia e si coltiva tutti i giorni, / non c’è paura che appassisce e per sempre bella rimane, / anche se noi la innaffiamo con le lacrime amare. // Ora che la sorte ha voluto offuscarmi gli occhi / mi sono rimaste le lacrime del cuore / che irrigano la parlata del mio paese. / Le dita anchilosate scrivono parole, / che mi suggerisce l’animo, sentimenti che mi legano / al paese e agli amici dell’adolescenza. / I bei ricordi del mio San Fratello / e l’armonia del canto del dialetto valgono più di un tesoro, / incorniciati con cornici preziose, / adornano le pareti della mente, / sono gioie come miele che addolciscono l’amarezza del tempo. / ma le radici del mio San Fratello, / solo la morte le può estirpare / piantate come le ho in fondo al cuore.
Stasgimu nta la stissa strära, carausi e carausg dû paies, Adiegra, spinsirära, avaia la tinirozza di na sciaur, Cam li dumaroti â tarbunira sbiläva sau cun seuma, N giuorn spuntea cam n faunz n beu frustier, Quänn nta la strära la bumba scuppiea,
Abitavamo nella stessa via, ragazze e ragazzi del paese, / quando ancora giovinotti giusto appena svezzati, / sognavamo successi e conquiste di bellezze, emozioni / che fanno vedere le stelle con tutto il paradiso. // Fontana generosa di tanti sogni, Rosina grande bellezza della natura, / un angelo caduto sulla terra, / le altre creature del paese dovevano invidiarla, / anche quelle che incoronano e chiamano “Miss”. // Allegra, spensierata, aveva la delicatezza di un fiore, / che lentamente sboccia e tutto incanta. / Se c’era un po’ di malizia lei la nascondeva con tante virtù, / era un piacere vederla seduta sul balcone, / cerchietto, ago, fili colo-rati sulle ginocchia, / le piccole mani fantasiose senza fermarsi, / tovaglie e lenzuola, ricevevano la sua bravura, / la bellezza dei suoi ricami. // Come le lucciole all’imbrunire usciva con sua madre, / alcune volte con sua sorella più piccola, / «Attenti – dicevamo – c’è Angelina, / la guardia carceraria!» / poi senza paura un coro di voci / per salutarla rimbomba-va nella via. / Lei rispondeva con la mano e mandava un bacetto, / la faccia d’angelo tutta rossa forse si vergognava / se passando il suo sguardo celeste ci accarezzava; / era tanta la felicità che i nostri cuori / come cavalli imbizzarriti se ne andavano con lei. // Un giorno spuntò come un fungo un bel forestiero, / vendeva aghi merletti e nastrini per le vie. / Lei lo vide e fu come un colpo di fulmine / come succede nelle favole a lieto fine, / del bel principe azzurro s’innamorò, / quando nessuno di noi se l’aspettava. / Non passarono neppure tre giorni che vi fu la fuitina / con il bel rubacuori la bella Rosina se ne fuggì. // Quando nella via la bomba scoppiò, / noi ragazzi e giovanotti restammo davvero molto tristi, / specialmente per il fatto che il primo forestiero arrivato / la nostra Rosina, l’amore di tanti sogni, ci aveva rubato. / Si sposarono in chiesa alle sei di mattina, / c’era il prete e due testimoni, / poi se ne sono andati non ricordo dove / e della bella Rosina non abbiamo saputo più nulla. Contatore visite dal 15-02-2017: 2906. |
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