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	Immagini a cura di Isabel Salinas 
In copertina Sonia Carotenuto 
Prefazione di Valentina Fonte 
	 
	PREFAZIONE 
(petali bianchi da sfogliare) 
	Non so da dove cominciare la prefazione a un libro così bello. 
Rinuncio, anzi, a fare seriamente critica per esprimere semplicemente quello che mi viene in mente dopo aver assaporato, o meglio bevuto d’un fiato “Magnolia”. 
C’è qualcosa in questo Giuseppe Celestino che mi esalta. 
Il suo modo di scrivere, il suo fare poesia così originalmente e profondamente, quasi i suoi versi nascessero per istinto da una qualche diramazione (appassionata e ispirata) del suo essere, ebbene, mi affascina e mi conquista quanto un cielo blu trapuntato di stelle. 
Certo viene fuori tutto il suo sentire, in queste liriche e parole così seducenti, tutta la sua straordinaria ricchezza interiore, unitamente ad un pizzico – sì – di saggezza leggera. 
Un puzzle di emozioni, riflessioni, pensieri che attraversano l’animo di chi legge e certamente, se non lo convincono, lo avvolgono con l’incanto irresistibile e la purezza della vera Poesia; che, se non si può capire fino in fondo, si può percepire, adattare alle proprie emozioni, quasi le si regalasse di volta in volta una nuova, personale pelle. 
“Magnolia” andrebbe letto e poi riletto. Giacché ad ogni passaggio si colgono sfumature diverse, si affonda un pezzetto in quel mare di verità e coscienza che l’autore (sagittario demiurgo) ha inteso comunicare. La parola che si fa verso è sottoposta a due spinte, a due esigenze divergenti: l’abbandono docile di un poeta alle proprie intuizioni e la necessità di conquistare una consapevolezza alta dell’esistere. 
Quest’ultima, chiaramente, mediata dalla sensibilità che gli è propria. Nel caso di Giuseppe, una sensibilità che disarma, che tutto percepisce – nel bene e nel male – con intensità violenta, senza filtri di sorta. 
Sarebbe forse da ringraziarla, allorché da lei nascono simili frutti. È una forza misteriosa che ispira, trascina, e anela a farsi linguaggio; in esso (una volta compiuto il “prodigio”) si fissa l’irripetibile dei batticuori, delle rivelazioni, delle fantasie. 
Alla poesia Giuseppe chiede di allargare i confini del dicibile, di catturare il passo della vita nel suo farsi. 
Su una scia morbida di sentimenti e meditazioni si sgrana allora un percorso, che in “Magnolia” appare chiaro eppure inafferrabile. Si parte da un incontro, anzi da un sogno: entra in scena una fanciulla, immediatamente, e sarà lei il leitmotiv, l’interlocutore, il protagonista (che legge un 
Diario generoso di poesie e dediche come briciole di vita), la trama di tutto. Per Lei, ammaliante e profumata Magnolia, ha senso ogni singola parola impressa sulla carta. 
In controluce, quasi melanconica filigrana, c’è un cuore spezzato. C’è un Amore perduto, lontano nel tempo eppure mai sbiadito nel ricordo. C’è un abbandono che consuma dentro, e con esso il dolore (che è anche urgenza di sublimarlo, di urlarlo al mondo), che brucia ancora – dannatamente – come “sale su sangue”. 
La memoria è dolce, ma anche amara e feroce. Riporta in vita istanti dorati, sprazzi felici di vita condivisi con chi, magari, è ormai uscito (per sempre?) dal proprio orizzonte. 
Ecco allora che ricordare è un tiepido rifugio che consola e insieme affligge, penosamente. Ecco che, con il cuore gonfio di lividi, ci si chiede se il sentimento dell’amore (e con esso molti altri) non sia mera, meschina illusione che solleva e poi sbatte a terra: è ingannevole? È più forte e vero solo quando si specchia nel dolore? (Disperata credenza, questa, dell’“attore in elegante abito scuro” che ci ammonisce nel finale). È un “sognincubo”, miele che cattura e rende ciechi, per poi lasciarci solo con una manciata di illusioni? 
Si sa, la colpa è anche un po’ nostra, o della nostra imperfetta natura, giacché guardiamo con più desiderio le stelle che non ci vogliono… 
Eppure, forse, vale sempre la pena. Vivere quegli attimi preziosi, degni di un sogno, sentire il Desiderio accendersi e pulsare forte nelle vene, renderci creature inquiete e vitali e appassionate come sotto l’ebbrezza d’audace “vino rosso”…Anche se tutto finisce “senza un giustificato addio”. O, peggio, “muore in petali secchi di rabbia”. 
“L’amore è un fiore sbocciato tra i ghiacci”, dice Giuseppe. 
Colora la vita e tutto è possibile, in esso. Eppure, a volte, fa davvero male. Graffia. Tormenta. 
Del resto – penso banalmente – molti fiori stupendi hanno le spine… 
Di grande intensità in “Magnolia” sono proprio i versi che sondano la profondità di quest’amore e del desiderio che lo nutre fino allo spasimo, sono le pagine che raccontano di illusioni perdute, di emozioni sotterranee e sogni silenziosi. 
Attraverso poesie che, talora, somigliano a canzoni (ritmo e musicalità si imprimono indelebilmente nella mente), Giuseppe racconta, sviscera se stesso; accoglie in sé con coraggio l’altalena delle contraddizioni umane e la giostra della mutabilità, senza timore di svelarsi (e non è facile fare i poeti senza essere, talvolta, voci scomode). I sentimenti brillano cantando la loro radicale schiettezza e purezza a sfida di un mondo di maschere e misere ambiguità. 
Anche la natura accompagna questo percorso: in “Magnolia” il paesaggio non è solo scenografica ambientazione, ma diviene magma vivo che varca la soglia dell’anima e si fonde con essa. Gli alberi coi grandi fiori bianchi, il mare bruciante, l’abisso del dirupo, il deserto, la spiaggia… Sono luoghi dell’anima, prima di essere reali. 
Ci sono anche luoghi simbolici che sono nomi, ricordi di donne. Sagome che scivolano via, fugaci comparse che forse hanno scandito e impreziosito attimi di vita di chi, a loro, dedica ora versi sinceri. 
Rendendole eterne. 
Mezzo mago, mezzo genio, Artista a tutto tondo, Giuseppe. 
Poeta fragile e forte, come le sue poesie. (“L’Amore si nasconde dietro la poesia,/ come fa l’anima mia/ che scorre insieme a sangue umano/ e si esprime con parole divine”. 
Verrebbe da credergli…) Quando mi parlò di quest’opera, mi disse: “l’intento di Magnolia è rappresentare un filtro tra interno ed esterno essere vivente, ma soprattutto è il manifesto dell’inganno dei sentimenti e di come sia dolce naufragar nel mare del raggiro”. 
Eppure, l’epilogo di questo sublime, amaro e tribolato canto qual è? È forse un risveglio, ostinato e in fondo fiducioso, della speranza in un nuovo Sogno? In quel sentimento che, daccapo, può ancora fiorire e donare colore? Nel ritorno di una Magnolia che, come “nuova neve”, lascia l’impronta di un cuore? 
La tensione che sostiene tutto il cammino verso la meta difficile del “monologo” finale, pare sciogliersi d’incanto, sì, di fronte a questa prospettiva. Apre un varco soffice. Lieve. 
Rimando alle parole dell’ultima pagina del libro. In esse sta – forse – quella chiave che all’amore restituisce valore… 
La chiudo qui. La prefazione ha preso forma quasi da sé. 
Ben inteso, quanto detto fin qui è un’interpretazione personale, figlia delle mie personali suggestioni. 
Vi invito a leggere “Magnolia”. Con un accorgimento: abbandonatevi al suo seno incantato, senza tenere per mano fili di ragione. Lasciatevi prendere dal fiume ininterrotto di emozioni che scorre sotto i vostri piedi, non tentate di stare a galla e nuotare. Fate come me, precipitate dolcemente. 
La poesia si coglie meglio quando l’anima è nuda. 
	Valentina Fonte   
 
Magnolia
	 
	A mia madre, Giuseppina Malatacca 
G.C. 
	 
	Il Sogno del Sagittario 
	 
	
		Non è mai ciò che vedi 
	 
	All’ombra dell’albero coi grandi fiori bianchi, il giovane arciere 
sedeva pensieroso; nessun bersaglio oltre le nebbie della 
collina, ed il corpo, rimasto in parte animale, era ormai stanco 
dei tanti galoppi per le steppe. 
Lei si avvicinò piano, quasi volesse rincuorare lo sventurato. 
L’arciere però, infastidito, mosse altrove i suoi passi, senza 
proferir parola. 
Rimasta sola sotto l’albero, ne accarezzò le foglie così ovali e 
lucide, poi ne odorò i fiori. 
Ma lo scoccare improvviso di una freccia la svegliò dal candido 
benessere nel quale si stava rifugiando; senza apparente 
motivo, l’arciere tornò a sedere. La prese per mano e 
le scostò i lunghi capelli dall’orecchio. 
	Fu allora che cominciò a sussurrare… 
	
		 “Ti parlerò dei sogni… 
Dei sogni che silenziosi rapiscono l’iride. 
Non c’è realtà pura, solo puro riflesso… 
Ed il filtro sta tra Amore e Psiche, 
Tra i sentimenti ingannevoli e ciò che resta dell’anima. 
	 
	
		I sogni, come desiderio, 
Nascono da ciò che non abbiamo; 
Pertanto sogniamo troppo. 
Gli incubi, come quotidiano, 
Nascono da ciò che pensiamo; 
Per questo ci spaventano. 
	 
	
		L’incubo è scettro di re in mano a bambino, 
Non v’é distinzione tra bene e male. 
Il sogno è che ci sia qualcuno che veglia, 
Sulle cose e su di noi… 
Noi che resteremo bambini, 
Che non sapremo mai del bene o del male. 
	 
	
		E se il mio incubo 
Fosse un fiore raccolto, 
Che fuori è magico e dentro piano muore, 
Forse imparerei a sognare 
Senza regalare alle mie amanti 
Solo mazzi di rose. 
	 
	
		L’incubo è vertigine, 
Spirale d’ogni respiro, 
Mentre sale alla gola 
L’acqua azzurra di nuova sposa 
Che ti siede accanto, ti prende per mano 
E poi… salto nel vuoto. 
	 
	
		In volo, 
Nel sogno come nell’incubo, 
C’è vertigine apparente… 
Fino a concepir d’un tratto 
Che il risveglio 
È la sola via. 
	 
	
		Svegliati, svegliati adesso! 
O vivi sempre così, 
In un sognincubo! 
Vivi in un sogno a sperare 
O vivi in un sogno a farti del male. 
Ma cosa ne sai tu del male? 
	 
	
		E io che ti parlo di sogni… 
Solo se ti farai male 
Avrai tempo per pensare, 
E se continuerai a sognare 
Il pensiero resterà occupato 
Ad illudersi.”  
	 
	 
	
		La nave e l’aereo 
	 
	Quando si svegliò, corse allo specchio… non fu ciò che vide, 
ma ciò che le parve ancora di sentire; la voce dell’arciere, la 
freccia scoccata ed il profumo del fiore di magnolia… 
Scese le scale e corse in riva all’oceano. Si chinò per bagnar 
la sua mano secca; acqua e sale, Amore e Psiche, sentimento 
ed anima… poi sorrise. 
Il tempo fuggente attorno a sé, le radici dell’anima nel suo 
corpo acerbo… e nel mezzo? Nel mezzo solo ciò che gli occhi 
potevano vedere… 
Avrebbe potuto abbracciare anche tutto l’oceano se davvero 
avesse voluto, poiché sentì che il suo spirito timido già lo 
stava facendo e che il mondo era da tempo padrone d’ogni 
flutto. Non è mai ciò che vedi. 
Come lampo nel cielo, voci gioiose spezzarono il ponte dei 
pensieri; vide due bambini correre a piedi nudi sulla spiaggia. 
Incuriosita e affascinata da tanta innocenza, li seguì 
sino in città. Sicché entrambi i ragazzini presero chissà come 
le sembianze di ogni abitante del luogo… 
In mano avevano semplici fogli bianchi; dal nulla, il primo 
bambino costruì una graziosa nave di carta, mentre il secondo 
bambino creò un elegante aeroplano bianco. 
	Muta, osservò e lasciò parlare i pensieri… 
	
		 “Guardo un bambino 
Costruire una nave di carta, 
Guardo un altro bambino 
Costruire un aereo di carta. 
	 
	
		Al primo rivolo, 
La nave di carta salperà, 
Affiancando i marciapiedi, 
Solcando l’acqua. 
	 
	
		Al primo soffio di vento, 
L’aereo di carta decollerà, 
Volteggiando leggiadro 
Insieme al polline di primavera. 
	 
	
		La nave di carta continuerà la sua corsa 
Finché ci sarà dell’acqua. 
L’aereo di carta cadrà all’istante 
Anche se il vento non avrà smesso di alitare. 
	 
	
		Affidate dunque i vostri sogni al mare, 
Perché, se li affiderete al vento, 
Li vedrete fare due piroette 
Per poi cadere a terra.”  
	 
	 
  
 
 
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