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In copertina: “Maschere” illustrazione di Enea Seregni
All’interno illustrazioni di Sergio Lo Faro
INTRODUZIONE
Questa nuova raccolta poetica, già nel titolo, sintetizza la mia concezione della “vita come teatro” e del teatro come luogo per antonomasia delle maschere; e quindi, di riflesso, della vita come teatro di maschere. D’altronde, non solo in senso metaforico ma anche letterale del termine, nella seconda e nella terza sezione dell’opera si parla di “teatro”, in relazione non solo ai temi della Memoria, ma anche come mio omaggio ad alcuni immortali personaggi teatrali (Shylock, Falstaff, Cyrano).
Queste poesie sono composizioni sia d’impegno civile – estrapolate da alcuni miei testi teatrali – sia di natura più personale e intimistica. Com’è multipla e sfaccettata in genere l’anima del poeta, così lo è pure la sua produzione in versi. Ed anche lo stile ne è un riflesso. La poesia, a mio avviso, non può rimanere succube degli orpelli stilistici della tradizione (già altri, in passato, hanno fatto pulizia in casa propria e hanno affidato ai rigattieri tutto ciò che odorava di vecchio e di paludato, esplorando terre sconosciute e regalandoci perle liriche non solo di respiro italiano ma anche europeo: qualche poeta da Nobel, in fondo, l’abbiamo avuto anche noi!). La poesia è un sofferto canto che ossigena le ore dei danzanti perditempo, appunto i poeti; e anche gli aforismi di vita quotidiana – che ho chiamato “Vuoti a perdere, frammenti corsari” – hanno la medesima funzione. Nei carmi un poeta parla sempre di sé, anche in quelli in cui presenta personaggi reali o di fantasia; in fondo, il poeta lirico scrive sempre un solo libro, il proprio “canzoniere”, il proprio racconto interiore in versi; spesso apertis verbis, a volte per interposta persona, con un gioco di maschere che, velando, svelano. La poesia è un brindisi di libertà che, in ogni occasione, fa gustare l’attimo fuggente e irripetibile nella sua unicità; essa è parola alata, non convenzionale e non retorica, antiprosaica e orfica – mistica a volte, metafisica in altre; impressionistica o espressionistica a seconda delle circostanze, realistica o arcana alla bisogna ; essa è gioco diventato canto, musicalità e policromia, unico antidoto a quello che gli scrittori e i filosofi chiamano “male di vivere”, “ennui”, “spleen”. La poesia, per me, è insieme turris eburnea e barricata, immersione totale nel flusso della vita e claustrale solitudine, denuncia delle storture della Storia e del Quotidiano e lirico intimismo. Essa, lo confesso, per me è stato un serotino fiore dell’anima, qualcosa che è arrivato tardi e quasi per caso, dopo altre stagioni di faticose odissee intellettuali. Il poeta non è il sapiente, non è l’erudito che tiene una lectio magistralis a folle plaudenti o il guitto che rincorre audience e mercato. No, è qualcosa di diverso: è un’ape regina che si nutre di mille nettari; è un cercatore di pepite che, a fatica, con un crivello separa l’oro dalla sabbia; è un distillatore di pregiato liquore. Egli scrive fondamentalmente per sé e per pochi, e lo sa; e non cerca prebende ed encomi (ben sappiamo quanti di loro sono vissuti tra stenti e miseria ed emarginati). Per questo il poeta ama la vita nascosta di classica memoria, fonte di saggezza e di felicità. Contro le luci del palcoscenico egli predilige la penombra ed il colloquio con i cantori dell’Eterno e dell’Essenziale. Egli sa che la poesia è una delle poche forze vitali che rendono appetibile la vita. E solamente ad essa egli perciò brucia grani d’incenso. Tutto il resto lo sente come qualcosa di superfluo e di contingente, che spesso diventa un intralcio alla sua creatività.
Il volume è diviso in alcune piccole sezioni, precedute da una poesia proemiale eponima (“Maschere”) e chiuse da una poesia di commiato (“Frammenti di luce”).
La prima sezione (“Epicedi: il grande enigma”) tratta della morte, il contraltare della vita; l’unico vero dilemma irresolubile e, sulla cui natura, risposta esaustiva e convincente non c’è, sia che si creda in un aldilà sia che si ritenga che tutto si concluda con l’ultimo respiro – tema della morte su cui rifletto tramite la scomparsa di persone a me care, che la Triste Signora, benché in modalità differenti, ha rapito precocemente –.
La seconda sezione (“Olocausti e eccidi: il teatro dell’orrore”) è un omaggio al teatro – e un’epitome del mio teatro etico e d’impegno civile –. In essa si parla di genocidi ed eccidi verificatisi nel corso del XX secolo e di cui stigmatizzo la barbarie; nello specifico si fa riferimento alla Shoah, al Porrajmos, al Metz Yeghern, alle stragi nazifasciste di Marzabotto e delle Fosse Ardeatine, alle vittime delle foibe e dello stalinismo. Quelle che presento sono figure “archetipiche” – personaggi teatrali, maschere appunto – di cui mi servo per urlare tutto il mio orrore nei confronti dell’insania dell’uomo, al quale la Storia, anziché essere magister vitae, sembra non aver insegnato nulla, col rischio di fargli ripetere gli stessi errori e rivivere gli stessi orrori del passato.
La terza sezione (“Maschere: pinacoteca dell’anima”) è una sorta di galleria di poeti, filosofi, pittori e personaggi letterari, la cui effigie non è esposta e conservata in alcun museo, neanche in quelli più rinomati del mondo. Vi sono ritratti di uomini “malati” – spiritualmente malati – nei confronti dei quali la vita non è stata prodiga. Impietose, molto spesso, le loro biografie (quelle di van Gogh, di Nietzsche, di Campana). Solo nell’arte, in senso lato, essi hanno trovato un’ancora di salvezza e il balsamo contro le ferite della quotidianità. Reclusi nel foro interiore e vittime della loro stessa insania, tra emarginazione e follia, tra sogni e visioni, tramite l’arte, hanno saputo trovare le risorse spirituali per andare avanti, indossando maschere tragiche o comiche e urlando alla luna il loro mal di vivere. La maschera, quintessenza del teatro, è così la rivolta contro il malessere esistenziale, come risposta all’assurdità del vivere. Essa scaturisce dal gusto ubriacante del camuffamento, forse perché certi uomini, sentendosi multipli dentro, temono di esporre la loro fragilità agli occhi degli altri. Pseudonimi, eteronimi, noms de plume sono, così, sempre dietro l’angolo a proteggerli, più che dagli altri, da sé stessi. L’Essere ama celarsi, diceva un tempo il buon Eraclito, e l’artista non è da meno. In fondo, per chi ritiene che la vita altro non sia che un gioco di ruoli, la maschera è lo strumento più efficace per partecipare a tale gioco, nella convinzione che così si possa o sfuggire del tutto al Destino o accettarlo gioiosamente fino in fondo, bevendone senza tema il calice amaro. Il palcoscenico così diventa la più suggestiva metafora della vita. Ma chi siamo veramente noi? Siamo, parafrasando Pirandello, uno, nessuno e centomila? Qual è il nostro vero volto? A volte, guardandoci allo specchio, a fatica ci riconosciamo. Siamo bifronti, dicotomici o multipli, ciascuno “col” e “sul” proprio palco. E tutti – senza eccezione alcuna – a comando ci muoviamo. Dietro – o sopra – di noi scopriamo sempre un Mascheraio, un Burattinaio, un Mangiafuoco, che io identifico col Destino.
La quarta sezione (“Luoghi, ma non solo”) parla appunto di “luoghi” che, più di altri sento miei, perché li ho intimamente vissuti. Come con le persone che incontro – che mi suscitano sentimenti ed emozioni a volte contrastanti –, anche i luoghi agiscono su di me alla stessa maniera – e ciascuno di essi ha una sua specificità che resta indelebile nella mia anima –. Alcuni di questi ho lasciato cantare nei miei versi.
La quinta sezione (“Sicilia amara”) è il mio tributo di Siciliano ad alcune vittime della mafia. Ho intitolato questa sezione così perché, in essa, si parla degli aspetti più ferini e ancestrali, criminali e giudiziari, della mia “alma terra” e, quando vi penso, sono pervaso da profondissima amarezza. Questo mio sentimento è comune a tantissimi Siciliani perbene, i quali vorrebbero sentir parlare della Sicilia per ben altri motivi – per la sua storia e i suoi fasti antichi, per le sue tradizioni, per i suoi tesori d’arte e le sue bellezze naturalistiche –; per tutt’altro, insomma, che per la sua storia “criminale”. Ma la cattiva fama, come la cattiva moneta, scaccia quella buona e così di Sicilia si continua a parlare non tanto per i suoi scrittori, poeti ed artisti o per la Valle dei Templi, per gli anfiteatri di Selinunte e Segesta, per i mosaici di Monreale e di Piazza Armerina o per il Barocco di Noto; ma, in primis et ante omnia, per la malapianta della mafia e dei suoi “malacarne” che, cresciuti come gramigna, ne hanno infestato e ne infestano tuttora le contrade, asfissiando la vita di un’intera regione e dei galantuomini che vi abitano.
Nella sesta sezione (“Autobiografia: di me a me stesso”) si esaltano le emozioni, effimere sì, ma appetibili – per il poeta – più di qualsiasi arzigogolatura concettuale. In essa si celebra la mestizia come condizione vitale e non artificiosa del poetare. Si canta, inoltre, della diserzione ed delle apostasie interiori che hanno scandito la mia esistenza spirituale e che, senza dubbio, continueranno a ritmarla. E via dicendo. In fondo, più che raccontare di me agli altri, la sezione è un soliloquio lirico con me stesso.
L’ultima sezione “Vuoti a perdere: frammenti corsari” è un puzzle di frammenti, un mosaico di piccole “illuminazioni liriche” e d’improvvisi lampi nella notte che – come impercettibili sfioramenti di razze – “elettrica” rendono l’anima. Essi nascono, più che da riflessioni sistematiche, da intuizioni saettanti che tramezzano tra la dimensione poetica e quella prosastica e che, risalendo a certi illustri esempi del passato prossimo e remoto, io apparento alla prosa lirica o al lirismo prosastico di certa tradizione frammentistica ed aforismatica, perché racchiudono in loro la discorsività razionale della prosa e l’intuizione bruciante e tagliente della poesia. Essi, come i versi, nascono da stati d’animo ispirati, veri e propri “flussi del cuore”, che guidano la mano, la quale – come automa – traccia ricami sul foglio, come se fossero preziosi arazzi parietali che abbelliscono una sala. Su tutti veglia la spasmodica ricerca della parola numinosa, raffinata, insostituibile e non barattabile con quella a buon mercato della quotidianità; e della ricerca di una scrittura sontuosa e faconda che sappia rendere significante – e fortemente prediletta – la parola alata, liberandola da ogni valenza di casualità ed accidentalità.
Ringrazio, per l’amicale collaborazione fornitami nella realizzazione di questo volume, Enea e Gigi Seregni, Sergio Lo Faro e Rosario Medaglia.
L’Autore
Maschere
PROEMIO
MASCHERE
Un teatro, di certo, la vita
– e d’essa, noi, maschere –.
Un palco, nient’altro, la vita
che, con ridanciana o tragica
posa, a fatica calchiamo.
Ma siam noi – mi chiedo –
a vivere o, per noi, le maschere
vivono? Di nostra plurima natura,
chi incolpare? Il mare? Il vento?
Il cielo o un Mascheraio?
Se con me concordi, non so,
lettor sodale; ma una cortesia
ti chiedo: attributo alcuno ai miei
versi non abbinare – qualunque esso sia,
d’amaro gusto sapora –. Gli –ismi, ti prego,
evita; cotta di maglia sono che, a fatica,
deambulare mi fanno. Solo ai cavalieri
del ridicolo – donchisciotti e vanesi rodomonti –
certi pennacchi s’addicono, non al poeta;
che di sola Parola sognante, l’unica
che sue ali non impastoia, si pasce.
EPICEDI: IL GRANDE ENIGMA
NON SEPPI DIRTI
a mia madre
In quell’alba di luglio, di sfibrante luce,
di dirti un’ultima parola amorosa,
madre, tempo dato non mi fu. Tutto
– rapido e imprevisto – come estiva bufera.
Tra impotenti lamenti, il tuo spegnerti;
paralisi del cuore – d’entrambi –. Ancora
m’insonna il dolente sollecito a seguirti
con disperata solerzia; ma né tu né io
capimmo, che, nell’estrema ora, nudi
e soli il sentiero dei morituri ci attende
– pudore e legami di sangue, purtroppo,
nel regno d’Atropo non albergano –.
Sognare un mondo oltre il mondo,
narcotico ricetto, a me concesso non è.
Sento che, dove ora sei, le passioni più non cantano
e nuova alba non si dà. Mi sovviene ognora
che, dalla mia fredda e lucida scepsi,
diverse, molto diverse, erano le tue preci
nel serale orare e nelle notti illuni.
Alla residua vita chiedo solo che, un giorno,
stringerti ancora io possa e confidarti
quel che, in me, a lungo ho penato.
SAN LUIGI
a mio padre
Nell’inerte respiro della canicola
l’orizzonte traslucido mordono
le acque; su cui fantasmi di poggi
e grumi d’afa, a nido d’aquila,
s’addensano. Un veemente silenzio
ieratico l’anima accarezza. Oggi
il tuo genetliaco, padre – san Luigi –.
Tu nella nuda terra; io, in questo
speco di sacre icone sopravvissute
all’oblio. D’improvviso, in me,
l’ultimo tuo flebile rantolo rivive;
lo stesso con cui, alla custode
di mie fragilità, di me chiedevi.
Fellone – giocoforza! – io allora;
sotto quella giuliva maschera
le mie piaghe celavo. Ora,
in questo romitorio di gregoriani melismi,
dove del greve chiacchiericcio ogni eco
si perde, tutto, persino la tua agonia,
in neumi si traduce; mentre la solitudine,
nel cielo sonnolento, i miei tossici ricordi
depura.
Eremo di S.Caterina del Sasso, 21 giugno 2014
SIT TIBI TERRA LEVIS
a R.
Per fitta nebbia, amico,
col risultato in bilico,
ha interrotto l’arbitro
anzitempo la partita.
A fatica, ormai, nell’area
di rigore arrivavi
e incontrollabile per te
era il pallone diventato.
Vaghe ombre i compagni
di squadra e invisibile
l’avversa porta.
La Notte – col freddo
e pallido profumo
dell’eterno silenzio –
i tuoi dribbling e tunnel
ha così inghiottito.
La terra, che lieve ti sia,
perenne il tuo sorriso
custodisca.
SUBDOLA E SUADENTE
a P.
Subdola e suadente
a te la macabra danza
s’è appressata, anima fragile.
Antica tara o novella – l’oscuro
male – eco di Grande
Incompiuta? Attonito rovello.
Non lacrima, non prece, non
querula parola sul muto
sentiero; pietà silente,
nient’altro, per il tuo precoce
prescritto vagare tra le cieche
ombre. Indulga la terra al tuo
cenere e le aspre dissonanze
dell’interrotto spartito maternamente
armonizzi e custodisca. Riposa!
Welsberg, 16 luglio 2011
ULTIME PAROLE D’AMORE
a G.
Il volto cereo dalla morte è irriso,
nelle egre occhiaie e nelle spente
palpebre annidata – e nel moto
incontrollato delle mani, nell’ansimare
delle ore e nel fraseggio degli attimi
che su di sé s’aggrovigliano –.
Noi, statue di cera, parole d’amore,
le ultime ormai – nella stanza centosei –
sussurriamo: mai più, nell’aria
impotente, risuoneranno. Si tende
nella penombra, intanto, il sudario.
ULTIMO VIAGGIO
a C.
Questo rumore d’acqua dirocciante
il ricordo di te, diletta amica,
centuplica. A fatica procedo
– una pena per me, oggi, l’alata
parola –: secca la lingua,
spinosa la favella nell’inferno
di quest’attimo. Dopo impavida
odissea, le armi hai ceduto
– così, matrigna, Natura ha statuito –.
Una via crucis l’ultimo tratto, lo so;
senza veroniche né pie donne a tergerti
l’affanno. Dietro ogni trasfigurante Tabor
– destino di noi perituri – un Golgota
sempre si dà, dove la morte, del nostro
gioire adondandosi, con fedifraga arte,
allo scacco ci condanna. Un quaderno
di refusi – per noi non devoti – appare
sempre il dolore: ciascuno, a suo modo,
qualche pagina – l’una all’altra mai uguale –
ne scrive. Leggero, sul tuo muto tumulo,
questo funebre lamento si levi e compagno
nell’ultimo viaggio ti sia. Dono mi resti,
a perenne memoria, il tuo amore per il bello.
Val di Mezzo, Racines, 27 luglio 2014
PREMONIZIONE
a mia madre
Sapevi – in cuor tuo –,
o mio albatro, che imminente
era la procella. Tutto calmo,
nella riposante aria, sembrava;
ma, col tuo premonitore sguardo,
all’orizzonte già i segni ne coglievi.
Lontano sentivi, lontano vedevi,
di là del tempo e degli spazi;
e non per il volo, ma per il destino
del nidiace a lungo quel giorno piangesti;
e forse, dove ora sei, per l’ignaro aligero
d’allora a lacrimare continui.
Credimi – e tu lo sai – anch’io ho tanto
penato per preservare – pur con imperita
mano – integro il mosaico di quel che fummo:
quel “divisi ma sempre uniti”, che tu invano
auspicasti.
ANCORA UNA VOLTA
a G.
Come vessillo a mezz’asta,
d’acchito, s’abbruna il meriggio.
Lenta, luttuosa, smarrita
nell’aria vibra la squilla
agonizzante. Ancora una volta,
un ultimo rintocco. Nessun tremore
di terra, però; – o squarcio di velo
nel Tempio o urlo d’abbandono
sul Golgota –. Obliquo il sole – livido,
stagnante, esangue – che il cuore
morde. Bella non è la morte, né
trapasso, ma eterna fine – persino
dei miei ultimi scampoli d’infanzia
che, quale rigattiere, essa svende –.
NOSTRA È LA MORTE
a R.
Cerchi, tra le dita, gli ultimi
scampoli di vita della donna amata;
che, come refoli, purtroppo volano via.
Disperata imperizia di stregone, la tua,
che gli spiriti domare crede.
Veloce intanto, nella penombra,
degli ultimi granelli si svuota la clessidra.
Oltre la macabra danza, nessun nume,
saggio o crudele, alberga – lo sai –.
Responso non c’è al mistero della vita;
men che mai a quello della morte,
che nostra – e solo nostra – è.
POSTFAZIONE
Giuseppe Terranova
Maschere
La poesia ritorna
ad essere ricordo, amore per chi ci ha generato
analisi del proprio io comparato con il mondo
tra realtà da accettare e godere
e visioni allettanti proiettate da specchi ingannevoli.
Viaggi nella storia
in quelle righe dove una parte dell’umanità
decise di voler superare in nefandezza e crudeltà
persino gli “antiDio”
poesia “indicante”
dove spesso cade l’umanità nelle sue debolezze
per poi vincere sempre nelle intenzioni del poeta e uomo
“intenso”
come i sapori e il sole della sua originaria terra
attraversando indenne con la sua arte
anche finzioni
e
maschere
Rosario Medaglia
[continua]
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