Grazia Fassio Surace - Desiderata
Collana "Le Schegge d'Oro" - I libri dei Premi - Narrativa 15x21 - pp. 220 - Euro 14,70 ISBN ISBN 88-8356-692-0 eBook: pp. 208 - Euro 7,99 - ISBN 979-1259510587 Clicca qui per acquistare questo libro Prefazione Desiderata è bella, sensibile, intelligente, corteggiatissima. Nota dell’autrice Contrariamente a quanto può sembrare, la vicenda narrata non è autobiografica: solo alcuni episodi d’infanzia e adolescenza s’avvicinano a mie reminiscenze. Difatti la mia storia non assomiglia affatto a quella di Desiderata: ho un amore da sempre, due figli meravigliosi, due sorelle rompiscatole come me, e i miei genitori non mi hanno mai deluso. A tutti loro – la mia vita – dedico questo libro. DesiderataMi manca nulla, senz’altro sarei felice se ogni notte non la sognassi, quella manina che si tende, che m’invoca, dalla buca profonda, e tutto intorno è fango, e io vorrei aiutare chi la protende, ma sono paralizzata, vorrei muovermi, ma non mi muovo, non posso muovermi: ed ecco che vedo solo più le ditina, e poi niente, è sparita, precipitata nel baratro, e anche a me allora pare di precipitare da un’altezza infinita, e mi manca il fiato come per un tonfo, come se precipitassi davvero, e mi desto sudata, angosciata, e urlo, e mio marito, come sempre, mi deve consolare, ma rassegnato, non domanda più nulla, mi stringe solamente a sé, e ripete le parole ormai logore: “Non piangere, stella mia, è solo un sogno … ci sono io, vicino a te, e ti amo…” Confortata dalla sua voce, mi sveglio alla realtà e a poco a poco mi calmo, ma l’angoscia è sempre in me, ed è così quasi ogni notte, non vorrei venisse mai, la notte. E allora penso: “Dio mio, perché devo soffrire, che cosa ho fatto, perché mi castighi così...” Ma purtroppo lo so il perché, lo so … Nacqui di primavera, non sotto il solito cavolo ma, come una regina, in un’aiuola di rose, e non mi punsi nemmeno. Quando mi raccolsero i miei genitori impazzirono di gioia. Raccontano che fossi talmente bella da apparire irreale. Sulla testolina la lanuggine dorata era chiara da sembrare argento, e gli occhi splendevano come stelle azzurre. Mio padre che mi aveva attesa tanto (ero la prima figlia ed aveva quarant’anni) volle chiamarmi Desiderata. Appena nata, già si diceva ch’ero stata baciata dalla fortuna. Mio padre attendeva tutto il giorno il momento di rientrare a casa. Adoravo mio padre, tanto quanto lui adorava me. Questo è quanto mi narrava la mamma quando, ancora bambina, seduta sul suo grembo, le domandavo: “Mamma, ti prego, raccontami di quand’ero piccina piccina…” Avevo forse quattro anni, ed ecco i primi ricordi reali, sfocati e confusi, perché sorretti soltanto dalla labile memoria infantile, rispetto ai precedenti, perfettamente generati dalla fantasia. Nella bella stagione il babbo, quand’era libero, mi portava spesso in giro in bicicletta. Mi sedeva su di un seggiolino imbottito che fissava di fronte al manubrio. Quelle gite erano una festa. Si girovagava per i sentieri di campagna, io raccoglievo un mazzolino di fiori da portare alla mamma, poi andavamo a mangiare il gelato in una baracca allegra con le imposte rosse e verniciata di verde smeraldo. Ma un giorno, non mi sovviene per quale motivo, cademmo dalla bici, e rimasi con una gambina impigliata tra i raggi. Papà impiegò parecchio per liberarla, ed era tutta insanguinata. Eravamo in aperta campagna e non c’era nessuno a soccorrerci. Poi mi prese in braccio e camminò a lungo. Rammento il viso spaventato della mamma quando ci vide e finalmente mi distesero nel lettone (il letto dei miei genitori: immenso, caldo, dolce, profumato di loro) e arrivò il dottore a tranquillizzarli: non c’era nulla di rotto. Fu l’ultima gita in bicicletta. Un’altra reminiscenza di quel periodo: un’enorme luna arancio in un cielo d’inchiostro. Un episodio che s’inserisce a forza, senza che voglia rimembrarlo. Scendevo le scale buie di uno scantinato dietro di lui che ora mi teneva per mano. Tornai a casa con la bambola. Non avrei rammentato le fattezze di quell’uomo, né se era giovane o vecchio, ma lo avevo visto? Era come se fosse stato invisibile. Scivolarono via alcuni anni sereni, senza avvenimenti particolari. Ho circa dieci anni. “Ed ebbe inizio la stagione dell’amore…” Allora credevo di odiarlo, ma ora penso che fu lui, quel ragazzino dai capelli nerissimi e ricciuti e il viso da scugnizzo, il primo maschio ad interessarmi. Ho undici anni e sono al mare per le vacanze estive. È nello stesso periodo che la sensualità latente mi guida la mano. Il mio terzo amore platonico è il “Lungo”, un ragazzo alto quasi due metri. A dodici anni ero accanita lettrice di quei libri per adolescenti, rilegati in tela rossa (con un quadrifoglio d’oro impresso nell’angolo in basso a destra della prima di copertina, se ben ricordo) ove le vicende, narrate in modo divertente, si svolgevano spesso in collegio. Così, un giorno soleggiato sul finire di settembre, approdo in collegio. Stralcio da pagina 157-158 ... Finché, una sera, accompagnai a cena per la prima volta un cliente tedesco. Era quasi Natale, aveva iniziato a nevischiare da poco, ed un turbinìo soffice e molle s’intravedeva nell’alone chiaro delle luci e dei lampioni. In terra restava però soltanto una poltiglia acquosa. Il tedesco era arrivato con la sua auto, una grossa Mercedes, e, tra le nostre proposte, aveva scelto di cenare in un ristorante della collina, dove c’era anche un po’ di musica. Era un tipo grasso, volgare, di circa cinquant’anni, il viso rubizzo, naturalmente chiazzato di rosa acceso, quando terminammo di cenare era diventato paonazzo per la birra il vino e gli alcolici che aveva trangugiato senza ritegno. Già fin dall’inizio si era comportato in modo troppo spiritoso per i miei gusti, con complimenti spinti, avances per niente velate, che non ero riuscita ad arginare. Ora aveva perso ogni inibizione (se mai ne aveva avute) e dovevo scacciargli le mani che, sotto il tavolo, tentavano di frugarmi, e cercavo di farlo con il sorriso sulle labbra, per non offendere la sensibilità di una persona che doveva trasmetterci un ordine di alcune centinaia di milioni (!) Prevedendo che la serata sarebbe finita male, mi ero anche alzata con una scusa e avevo telefonato al mio capo per chiedere soccorso, ma non lo avevo trovato in casa. Ora dovevo affrontare il viaggio di ritorno, tra i tornanti deserti della collina, sull’auto di quell’energumeno depravato. Mi veniva da piangere perché sapevo ciò che mi aspettava. Appena in macchina, aveva allungo una mano ad afferrarmi un seno, e per una volta ancora mi ero fatta forza per non urlare, e lo avevo respinto senza proferire verbo. Ma mi ero anche preparata ad affrontare il peggio. Avevo un ombrello pieghevole che ora tenevo saldamente ancorato alla mano destra. Non mi avrebbe oltraggiata, giurai a me stessa. Al diavolo il contratto, i milioni (che tanto io non avrei visto), non sarebbe passato sul mio corpo. Vidi che svoltava in un sentiero scuro, ma non mi stupii, era una scena che mi ero aspettata, che nella mente avevo già vissuta. Anche le mie urla, di tornare indietro, facevano parte di quella scena. E lui che non mi ascoltava, andava ancora avanti, e poi fermata l’auto, mi saltava addosso. Ed io che lo colpivo con l’ombrello fino a farlo sanguinare, fino a farlo desistere. E pi scappavo verso la strada, e stavolta ero fortunata, qualcuno subito mi soccorreva. Mentre nevicava sempre più fitto.Contatore visite dal 31-05-2021: 5416. |
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