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Racconti della stalla e ricordi di un agricoltore
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Ildo Testoni - Racconti della stalla e ricordi di un agricoltore
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
14x20,5 - pp. 170 - Euro 11,00
ISBN 978-88-6587-0921
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In copertina fotografia di Germano Sprocatti (Castelmassa)
Presentazione di Laura Negri
Assessore alla Cultura Provincia di Rovigo
Memorie di un tempo, racconti frutto del ricordo tramandato oralmente, storie quotidiane del passato, questo il contenuto del nuovo libro di Ildo Testoni, sapiente e appassionato scrittore melarese.
Vale veramente la pena tuffarsi con l’immaginazione nelle storie raccontate da questo libro che parla di una realtà e di un tempo solo apparentemente lontani, ma tanto diversi da quelli in cui viviamo attualmente.
È evidente la contrapposizione tra quel mondo povero ma solidale, basato sui valori inossidabili della famiglia e sulla priorità delle relazioni umane, e la realtà attuale affannata nella quotidianità, basata sostanzialmente sul valore del denaro.
Ricordare quel tempo, in cui erano le stagioni, ed il sorgere e il calar del sole a dettare i ritmi del lavoro, significa un po’ tornare alle origini, all’essenzialità, avere la possibilità di abbandonare gli orpelli del superfluo riportando la persona al centro della nostra attenzione.
Ildo Testoni ha il grande merito di dare spessore e concretezza, attraverso la narrazione di fatti realmente accaduti, a quei valori umani, a quella solidarietà, con uno sguardo nostalgico, ma in ogni caso benefico e sicuramente educativo.
Per fortuna, nelle piccole comunità vi sono persone come Ildo Testoni che trovano grande soddisfazione e quasi motivo di vita nello scrivere del nostro passato. Attraverso la loro appassionata ricerca, le attuali generazioni e quelle future si assicurano il giusto tramandare di tradizioni, modi di vivere, storie che, altrimenti, sarebbero lasciate all’inesorabile scure dell’oblio.
In un anno in cui si festeggia l’Unità d’Italia, questo libro è un giusto compendio alla Storia, anche quella minore, dando il significato che l’Unità della nostra Nazione trova senso e valore nella varietà e nella diversità culturale di cui questa nostra patria è ricca.
Presentazione di Francesco Losi
Sindaco di Melara
Prosegue instancabile l’attività letteraria del nostro Testoni, cantore delle tradizioni e di un modo di vivere ormai scomparso, ma proprio per questo importante da ricordare e, soprattutto, utile e necessario per essere confrontato con lo stile di vita che caratterizza i nostri tempi.
La commozione che si prova nel leggere le pagine di questo libro fa ben presto strada anche a una nuova consapevolezza, che si può riassumere nel concetto di solitudine, quella esistenziale dell’Autore che va di pari passo con quella di tutta una categoria o, sarebbe meglio dire, una classe sociale, quella dei coltivatori diretti.
La riflessione a cui ci chiama Ildo, e ce lo ricorda spesso anche nei colloqui che intratteniamo con lui, è quella della solitudine del contadino: è questo il vero titolo di questa ultima produzione, è questo lo struggimento che attraversa tutta l’opera. Dove sono le amate stalle, le tiepide stalle dei filò o le vecchie paludi con le mille risorse di vegetali e animali?
Ma, soprattutto, ci chiede sommessamente tra le righe l’autore, dove è finito il forte senso della famiglia, che ne è della fede profonda, della sincera solidarietà, virtù così diffuse fra quelle nostre genti?
È solo, ora, il contadino, con i suoi ricordi, con i suoi rimpianti, con la nostalgia di tempi lontani, durissimi e amari da un punto di vista materiale, ma fecondissimi per i valori che portavano in sé.
Oggi le nostre campagne, grazie alle moderne tecniche, sono sicuramente più fertili d’un tempo, ma è la nostra vita interiore che rischia di essere molto più arida; è questo l’ammonimento del libro, è questo, in verità, il motivo dominante di tutte le opere di Ildo.
Se ne leggeremo le pagine traendone qualche utile insegnamento, sono sicuro che anche l’autore si sentirà un po’ meno solo, consapevole d’aver scaldato i nostri cuori col tepore di quelle antiche stalle, coll’odore di quelle vecchie terre, con l’amore dal quale è nata la nostra società, siamo nati noi stessi.
Prefazione
L’esperienza e la saggezza accumulate negli anni, se non vengono trasmesse alle giovani generazioni, muoiono in loro stesse e sono vane. Con questo scritto ho inteso valorizzare il grande patrimonio di cultura rurale, di tradizioni religiose che sono state il perno del vivere dell’eroiche generazioni che ci hanno preceduto. Ho descritto il travaglio di tante vicende di cui sono stato, direttamente e indirettamente, testimone.
I Latini dicevano Verba volant scripta manent (le parole volano, ma gli scritti rimangono). Ho sempre ritenuto doveroso rendere omaggio alle eroiche generazioni che vissero gli anni migliori della loro vita lottando per la sopravvivenza propria e della propria famiglia, dando così grande prova d’ingegno, sacrificio e dedizione, virtù che oggi si vanno perdendo.
Il filo conduttore di questo lavoro si stempera nelle straordinarie testimonianze della nostra grande civiltà contadina e in queste pagine metto in evidenza miseria, ignoranza e l’improba fatica che caratterizzavano la vita dei campi.
Il grande ruolo della famiglia, minata anche in quei tempi nella sua identità e gli sforzi per tenerla unita, che venivano sempre premiati.
Sono stato testimone di un’epoca che non c’è più, un salto nella storia della grande tradizione contadina dei nostri paesi.
Ildo Testoni
Racconti della stalla e ricordi di un agricoltore
Dedico questo libro
ai nostri giovani
perché i valori
delle passate generazioni
siano loro d’esempio.
Ildo
Melara nel tempo
Lo scrivere del tempo in questa nostra società industriale, caratterizzata da benessere e da tanti comfort a disposizione e dalla tecnica moderna, porta a rivedere nella memoria quanto fosse diverso e difficile il vivere anche a Melara negli anni Trenta del secolo scorso, quando il paese era governato dalla dittatura fascista, che, come tutte le dittature, dietro una facciata di apparente grandezza nascondeva fame e miseria alla popolazione.
Melara era un comune totalmente agricolo, ma a sentire le conseguenze della fame e della miseria erano maggiormente le famiglie bracciantili e numerose.
Erano gli anni in cui frequentavo la scuola elementare e proprio dalla scuola emergevano le situazioni della grande miseria che regnava.
Era consuetudine, dopo le vacanze natalizie, festeggiare la Befana Fascista, consistente nel donare ai bambini più bisognosi indumenti e olio di fegato di merluzzo, tanto era diffusa la debilitazione a causa della malnutrizione. Il mio compagno di banco, Giuseppe, era il quarto di cinque fratelli, viveva in tre stanzette in un casamento con tante famiglie ma, nonostante tanta povertà, in quella casa vi erano ordine e igiene. Il padre di Giuseppe, d’inverno raccoglieva le canne palustri nelle restare del fiume Tartaro e d’estate, quando scarseggiava il lavoro nei campi, s’ingegnava a raccogliere le erbe palustri che crescevano spontanee nei fossi.
Frequentando questa casa, ove spesse volte facevamo i compiti insieme, ho imparato anche altre cose, tra cui, soprattutto, l’educazione e il rispetto per le cose degli altri. La madre era una donna austera e orgogliosa, che insegnava ai suoi figli soprattutto l’onestà, pur vivendo tanto miseramente. “Mai approfittarsi della roba degli altri” era solita ripetere loro. “Se desiderate un frutto o un grappolo d’uva dovete sempre chiederlo educatamente al padrone e ringraziarlo, mai approfittarsene, perché ciò significa rubare”. Nonostante nel casamento avesse poco spazio, possedeva un orto e, oltre ad avere le verdure, in un angolo suo marito aveva costruito un recinto e allevava galline e anitre. Quel piccolo pollaio significava ricchezza e perderlo, quando i furti di pollame erano all’ordine del giorno, significava miseria. Quindi, per entrambi i genitori la famiglia era il loro pensiero dominante, era la loro forza in quell’Italia povera e contadina del tempo! Però, nonostante la povertà fosse grande, la voglia di vivere riusciva a superarla. Quando nelle lunghe serate invernali ci si radunava nel tepore della stalla a fare filò, se per caso Giuseppe e i suoi fratellini non si comportavano bene, il padre era pronto a richiamarli all’ordine e anche a sgridarli, se era necessario. Mi ricordo che quando un suo amico, che era andato quell’anno a lavorare in Germania, come tanti braccianti, gli chiese perché non vi andasse anche lui, che avrebbe guadagnato di più che a restare a Melara, lui gli rispose: “non mi sento di lasciare i miei bambini per quasi un anno senza la guida del proprio padre e sarebbe un fardello troppo pesante che lascerei sulle spalle di mia moglie. Se avrò la fortuna di non ammalarmi, riuscirò in un modo o nell’altro a non far mancare loro il necessario!”. Parole intelligenti ed equilibrate, da far riflettere. Lo splendore delle azioni degli uomini intrepidi non dipende alla cultura: questo padre ci ha insegnato che la famiglia e l’educazione dei figli vengono prima di tutto e che la grandezza della vita sta nel lavoro e negli esempi e che il benessere non è tutto, per vivere dignitosamente basta avere il necessario. La sua intelligenza la dimostrò in un’altra circostanza, quando riuscì a zittire un avido proprietario terriero che aveva cercato di umiliarlo. Durante le vacanze estive, insieme a Giuseppe, andai ad aiutare suo padre a raccogliere le erbe palustri nei fossi. Era un lavoro massacrante per il pover’uomo. Aveva due stivaloni di gomma lunghi fino alle anche, immerso nell’acqua, raccoglieva le erbe con la falce messoria, curvo sotto il solleone. Ne raccoglieva di tre-quattro specie. Per fortuna quelle fatiche erano ricompensate, perché attorno ad esse ruotava un fiorente artigianato. Il padre di Giuseppe, una volta raccolte le erbe, le porgeva a me e a suo figlio che, diligentemente, sotto il suo sguardo, le stendevamo, distinte e separate, ad essiccarsi al sole, sollevandolo così un po’ dal duro lavoro. L’uomo raccoglieva queste erbe in un fosso che attraversava le proprietà di un ricco possidente terriero di Ostiglia. Ad una certa ora della giornata, comparve proprio il padrone, seduto su un carro trainato da due monumentali buoi pugliesi. Era vestito bene, con la catena d’argento dell’orologio che usciva dal taschino del panciotto, un fazzolettone di seta al collo, un bel cappello in testa, due baffoni bianchi ed un sigaro in bocca e ogni tanto faceva schioccare la frusta. Apparteneva a quella tipica borghesia terriera già trionfante di vanità e lusso. “È venuto a mandarmi via? Non Le ho chiesto il permesso, perché so che queste erbe sono senza valore nutritivo, quindi non adatte all’alimentazione del bestiame!” gli disse il bracciante. “No, no, per carità, raccogli pure”, rispose il vecchio agricoltore, dandogli del tu, “faccio il mio solito giro con i più bei buoi della mia stalla, che sono il mio orgoglio, per osservare i miei raccolti e sorvegliare i miei figli ed operai, se fanno bene il loro lavoro! Quest’anno ho fatto un’eccellente produzione di grano e poi, essendo venuta un’abbondante pioggia ai primi di luglio, si prevede un buon raccolto anche di mais e barbabietole. Tutte le vacche hanno concepito e quindi sarà un’annata d’oro!”. Mentre il signore pronunciava quelle parole, s’intuiva dal suo sorriso la contentezza, ma non pensava che quei discorsi, seppur pronunciati in buona fede, erano da esibizionista e che umiliava lo sventurato che lottava con sangue e sudore per mandare avanti la famiglia e, in quel momento, parlando così, dimostrava che era in preda a un eccesso di vanità, di egocentrismo narcisistico che lo portava all’esaltazione. Infatti, il padre di Giuseppe ascoltava tutto teso, senza rispondere e intuivo dal suo viso che quei discorsi dell’agricoltore lo portavano ad una lacerazione interiore che faceva fatica a sopportare. Ma non se ne accorse l’agricoltore che continuava a decantare i suoi bei raccolti e le sue proprietà. Ad un certo punto, il raccoglitore di erbe ebbe una reazione. Salì sulla riva e senza rabbia, per paura di essere cacciato via, disse al proprietario: “Lei ha tanti capitali e tanti soldi, ma non li ha tutti Lei, sa! Ne ho un po’ anch’io!”. Così dicendo estrasse da una tasca un misero taccuino e, aprendolo, mostrò alcune lirette. Poi, continuando a parlare, disse ancora: “Per me queste sono sufficienti, perché a volte faccio fatica a mettere insieme il pranzo con la cena, ma per alcuni giorni riesco a comprare il pane e a sfamare i miei bambini. Ringrazi il fascismo che difende i Suoi capitali e tanti miserabili come me che vi aiutano, magari nello sfruttamento, ad arricchirvi sempre di più”. Queste parole, non dette con rancore, ebbero il loro effetto e toccarono il cuore del vecchio agricoltore, che non osò rispondere. Prese la cavezza e incitò i buoi a partire, allontanandosi mogio mogio, senza nemmeno salutare: era stato ferito nel suo orgoglio.
Ancora una volta emergevano contraddizioni sociali tra chi aveva troppo e chi era privo di tutto. Quei rancori e quelle controversie non sono mai usciti dalla mia memoria. È come se li avessi vissuti da protagonista. Doveva passare ancora quasi un decennio perché quel proletariato potesse far valere i propri diritti. Tutto ciò avvenne con la fine della seconda guerra mondiale, con l’avvento della libertà e della democrazia.
La fine di un periodo storico è anche la fine di un modo di vita legato alle circostanze e alle risorse del tempo. Quelle erbe palustri, che ora sono solo un bel ricordo e nulla più, hanno segnato un grande periodo fiorente in cui tante famiglie ebbero un tenore di vita discreto in tempi grami. È risaputo che fino dai tempi della dominazione austriaca, con le canne ed altre erbe palustri si era sviluppata a Ostiglia una florida attività artigianale, tanto che il paese si fece un grande nome e onore anche all’estero. Con le canne si fabbricavano graticci (arelle) che s’impiegavano nella costruzione di solai e soffitti per abitazioni e stalle, per l’allevamento dei bachi da seta, per fare capannoni e recinzioni. Esse venivano raccolte nei mesi invernali quando erano ben mature e senza foglie. S’iniziava ai primi di dicembre e si finiva nella prima decade di marzo. Il taglio si faceva a mano, mediante un’apposita falce con un manico di un metro (in dialetto si chiamava roncheta). Si legavano i mazzi con una circonferenza di 70-80 centimetri e si erigevano cumuli in appositi spiazzi, dov’era facile caricarli su carri e carretti; il difficile era, invece, trasportarli fuori dal fango. I canaroli (così venivano chiamati i raccoglitori) venivano pagati a cottimo; tutte le sere il padrone contava scrupolosamente i mazzi raccolti da ciascuno e settimanalmente avveniva il pagamento.
In zona si era sviluppato un grande commercio. Era un lavoro massacrante. I canaroli lavoravano su una barca chiamata sandola, piccola e piatta, molto adatta perché poteva inserirsi con estrema facilità nei canneti e nei fossi stretti. Erano sempre bagnati e protesi verso l’acqua, con due stivaloni di gomma lunghi fino alle anche. Una volta caricate in barca, portavano le canne sulla riva, per fare i fasci. L’unica cosa positiva era che si lavorava solo con la bella stagione, mai con la nebbia, poiché le canne dovevano essere asciutte.
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