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In copertina «Kelsterbach» acquerello di Katuscia Pontilunghi
Opera pubblicata a quattro mani da Katuscia Fiorenza Pontilunghi e Gianluca Giuseppe Pontilunghi
Prefazione
Questa raccolta poetica è una sorpresa. Per gli Autori stessi, prima di tutto. Perché Katuscia e Gianluca non hanno scritto nell’orizzonte di una pubblicazione possibile, desiderata, sperata.
Lo testimonia anche la distanza di tanti anni – quasi venti – fra il tempo di composizione delle poesie e quello della loro consegna ai lettori. Anche la successione dei testi, posti semplicemente secondo l’ordine alfabetico dei titoli – per natura sua incapace di mostrare una qualche logica intrinseca nell’accostamento delle cose – dice che ormai è irrimediabilmente smarrita, se mai ci sia stata, una finalità del far poesia degli Autori che superasse anche di poco la volontà di fissare, quasi scolpire in versi su carta, l’attimo presente carico di intensità, per natura sua tanto improvviso, quanto breve e sfuggente.
I fratelli Pontilunghi hanno composto fondamentalmente per se stessi soli, non nel senso della chiusura agli altri, ma del pudore che sottrae ciò che è più intimo allo sguardo invasivo altrui e della vera modestia, che non ritiene l’opera poetica propria meritevole di un pubblico più ampio dell’animo e dello spirito di colui che sta all’origine di quei versi. Sono stati alcuni amici di Katuscia, a cui in tempi recenti ella ha regalato – quasi passato di nascosto – alcune delle sue più belle poesie qui non ancora pubblicate perché appartenenti al secondo tempo della sua produzione, a insistere… e insistere!, perché le raccogliesse dall’inizio e cercasse un Editore attento a promuovere beni per l’anima, piuttosto che al solo ritorno economico, per pubblicarle. Katuscia poi ha coinvolto il fratello, anch’egli poeta (deve essere una virtù di famiglia!).
I due Autori, nelle loro più vere intenzioni, hanno scritto solo spinti dall’intima necessità di dare parola ai momenti eccedenti della loro esistenza, man mano che essi si presentavano, inattesi, nello scorrere seriale dei loro giorni.
Momenti eccedenti della vita sono quelli in cui l’ordinaria tessitura del tempo dell’uomo, feriale e talora monotona, quantunque sempre benedetta, viene come squarciata dall’irrompere del mistero.
Il mistero sempre ci circonda e ci avvolge, non solo e prevalentemente nella forma dell’oscurità ignota e minacciosa, ma della promessa di vita bella e buona nella quale ha avuto origine la nostra esistenza: esso da sempre la sostiene, eventualmente anche senza che ne abbiamo coscienza esplicita. Il mistero propriamente non ci avvolge, ma ci abbraccia.
Quando decide di presentarsi a noi, porta con sé domande circa il senso della vita. Esse si annunciano a noi a volte nella forma della meraviglia grata o dello stupore incredulo e amaro, altre già nell’intuizione di possibili risposte. Sono momenti di epifania del mistero gli eventi umani maggiori: nascere, gioire, legarsi, interrogarsi, cercare, promettersi, amare, perseverare, soffrire, morire… Si rispecchiano spesso nella lingua ispirata dalle stagioni della natura e dal loro incessante mutare l’una nell’altra nel succedersi del tempo.
La meraviglia felice, come pure lo stupore spiacevole, portano con sé annunci buoni, per chi ha cuore di ascoltarli. Restano solo flatus vocis, per chi ha già deciso di non stare a sentire. Ascoltare il mistero o chiudere le orecchie ad esso: designano l’alternativa tra vita reale e apparenza di vita, fra esistenza vissuta o semplicemente messa in scena.
Quando il mistero viene a noi, non assume subito il profilo dell’interrogazione filosofica – in quanto capaci di domande di senso siamo tutti filosofi – esplicitamente tematizzata in termini chiari e distinti, formali. Si disvela invece a noi nella forma dell’evento potente di sentimento e per questo anche gravido di questioni immediatamente percepite come coinvolgenti, ovvero riferite al nucleo più vero di noi stessi; a volte sono offerti anche germi di possibili risposte.
Lontano dalle nostre intenzioni il separare o, peggio, l’opporre nell’io umano passioni e ragionamenti, come pure incoraggia – tratta in errore – la nostra tradizione culturale occidentale. Perché l’emozione e il sentimento hanno un loro Logos. Certamente non nella forma della ragione tecnica che, dell’infinito mistero della realtà che ci cinge, coglie solo i collegamenti matematici, ovvero assolutamente necessari, di causa ed effetto.
Emozione e sentimento sono portatori di una verità eccedente la figura (post)-moderna della ratio. Tale verità si annuncia nella forma dell’intuizione improvvisa carica di affetto, che rompe le maglie troppo strette della ragione calcolatrice. Una verità che può essere detta immediatamente – pena il perderla forse per sempre – solo scrivendo in versi, perché la poesia è la forma letteraria di ciò che eccede il corso normale tanto del vivere, quanto del pensare e del decidere. Eccede non soltanto nel senso del superare, ma in quello ben più importante dell’essere a fondamento. In breve: del trascendente.
Certo, ciò che è colto in forma poetica, dovrà poi anche essere espresso nella prosa del discorso capace di definire correttamente le domande, di esprimere le condizioni delle possibili risposte, di argomentare come vero quanto trovato come soluzione. Noi crediamo ancora nella forza del Logos umano, soprattutto se nutrito anche alle profondità svelate dalla poesia. E, parimenti, riteniamo la poesia fatta segno del mistero come invito a pensare una forma della ragione più ampia di quella che solo misura, calcola, teorizza, deduce, verifica, applica, prende possesso. Una ratio capace di infinito, secondo il linguaggio della filosofia; ovvero di Dio, secondo quello della teologia.
La verità di cui è testimone la poesia chiede di essere liberamente riconosciuta: in quanto si tratta di ciò che trascende, non si impone da sé all’uomo, nella forma dell’evidenza matematica a cui nessuno sano di mente può trasgredire; si offre ed è riconoscibile come verità universalmente valida per una vita bella e per la costruzione di legami giusti, ovvero fedeli e tenaci, solo a chi è disposto umilmente a sottomettervi il cuore e ad obbedirvi.
Accade per la verità come per Dio. Per questo la poesia è anche il linguaggio di Dio, nel duplice senso di forma letteraria in cui si esprime spesso la sua Parola e del modo più pertinente con cui si può dire di Lui.
Chi non è disposto all’obbedienza, non può riconoscere liberamente la verità della poesia per una vita veramente umana; semplicemente resterà attaccato alle comuni cosiddette certezze, illudendosi che possano essere il fondamento solido di chi vuole costruire sulla roccia, ma edifica di fatto sulla sabbia.
Il nostro mondo ha bisogno di poesia, oggi più di ieri, soprattutto in Occidente, dove ormai è chiaro a tutti che i legami giusti – di famiglia, di società, di stato, di continente, di genere umano – non possono essere fondati a partire dalle evidenze della ragione strumentale e tantomeno dall’arresa al pensiero definito “debole”.
Non, però, una poesia semplicemente estetizzante, capace di esprimere solo la soggettiva sensazione del momento. Infatti le relazioni umane hanno bisogno di un fondamento trascendente, di cui la poesia più sofferta, vissuta quasi come doloroso parto dell’anima, è ricerca tenace, accoglienza obbediente, testimone verace e perciò credibile.
Tale vuol essere anche la poesia di Katuscia e Gianluca, senza che essi abbiano mai avanzato di queste pretese. I due fratelli hanno voluto solo scrivere versi per sé ma, così facendo, si sono immersi, umile goccia, nel grande fiume della poesia più intensa.
Per questo i loro versi sono qui raccolti e offerti, e anche vivamente raccomandati, alla lettura di chi – per legame familiare o di amicizia – conosce bene il loro cuore.
Come pure a tutti quanti amano ascoltare il mistero attraverso la poesia.
Roberto Beretta
amico di Katuscia e della sua famiglia
Insieme
14 MAGGIO 1994
È immobile
non vuole
vivere.
Ho tra le mani
la sua immagine…
Non puoi ordinare
al cielo
di sollevare
la terra.
7 DICEMBRE 1995
La luna nuova
colma di sorriso
il mare e il flutto
trasmigra nascosto
sotto il cielo.
È buio. È notte.
L’argenteo scintillio
al vento s’infrange.
23 MARZO 1996
Sto così…
sospesa
tra i sì e i no
della vita
come uccello
senz’ali.
Come isola
sommersa dalla marea…
ogni tanto l’onda ritrae
e abbozzo
un cerchio di respiro.
Mi è rimasto
solamente
lo sguardo del cielo
a riempirmi
d’indefinito.
31 MAGGIO 1996
Il poeta ascolta
il battito del vento
che sfiora la vita
e coglie l’invisibile filo
che ci tiene legati alla morte.
22 SETTEMBRE 1996
Ascolto il passo solitario
del cacciatore scivolare
sulle foglie umide
d’autunno.
Tutto intorno è bagnato
di nebbia,
odore di legna
di castagne…
e alberi spogli
a frantumare
il mio silenzio.
[continua]
Postfazione
Accostando le poesie dei fratelli Pontilunghi ci si stupisce come davanti ad un parto gemellare di cui qualsiasi madre sarebbe fiera. I profili dei versi – come visi – rimandano a una genesi comune eppure diversamente individuata, la forma degli occhi – ovvero dello sguardo – rimanda a geni condivisi, impastati eppure differenti, l’uno ricorda un nonno, l’altro magari il papà. Nelle due opere vivono respiri diversi, elaborazioni e suggestioni di un grembo spartito e vissuto insieme ma diversamente percepito, introiettato e poi espresso in modo del tutto personale. Già tale atto è poiesis: la stessa luna guardata dalla stessa finestra diventa per uno motivo di conforto, per l’altro motivo di sconforto.
In entrambi dirompe – proprio come un parto – il desiderio di espressione, un desiderio che ha la forza dell’impulso e la profondità dell’anelito, la mano di Dioniso, che – solo dopo – richiama Apollo. Più che lo spirito, direi il sangue poetico sembra muovere l’animo dei due fratelli verso un terreno prima da individuare poi da guadagnare e poi ancora da lavorare per poi finalmente viverlo e sentirsi vivi nella scoperta di questo. Sembra che il terreno della poesia sia stata l’occasione maieutica per la sensibilità di Gianluca e di Katuscia. Si tratta tuttavia di un parto poetico gemellare non omozigote.
Leggendo le poesie di Katuscia si ha l’impressione di sedersi accanto a lei e starle vicino mentre apre un cofanetto/scatola in cui per anni ha raccolto l’incontro con cose e persone perché non andassero via, perché non restassero anonime perché fossero chiave per aprire il suo sé più intimo. E sembra di sentire la voce di Katuscia mentre pian piano riprende tra le mani foto, cartine geografiche, stralci di giornale e li rilegge. Ecco le foto di Francoforte – città dove ha provato la sensazione di sentirsi straniera, scrive – e che le ha senz’altro restituito una misura di sé più larga e dilatata alla comprensione degli altri. Ecco i ricordi dell’autunno, stagione molto intima alla sensibilità peraltro di entrambi i fratelli. Un autunno declinato più e più volte nei suoi colori, nei suoi profumi, nelle sue forme, che forse bene si presta a dire di sé. Si sente in Katuscia il desiderio di vestire ciò che di più profondo ha nel cuore con ciò che riesce a trovare a portata di mano, con ciò che la circonda. Il verbo “vestire” ricorre infatti più volte, forse la sua poesia è il suo modo di vestire il mondo. Forse è la via che sceglie per leggere ed interpretare la realtà che vive e che non vuole sfuggire. Bello questo. La sua ricerca poetica credo sia il suo modo per dire sì alla vita, a volte con una forte ombra di sconcerto, di disincanto, talvolta anche di disperazione nel senso che la speranza sembra esserle lontana. Ma l’atto stesso di scrivere è un recupero della speranza, perché afferma il desiderio di prendere parte alle cose e non lasciarle scorrere via come se non fossero, come voltando loro le spalle. Katuscia riprende tra le mani probabilmente articoli di giornale, in cui ha letto della morte di ragazzi giovani e reitera l’eterna domanda della vita e della morte con l’umiltà di chi non vuole sentenziare, ma solo di chi vuole lasciare aperte le domande. La sua voce ammette dubbi e maschere senza ricorrere a vie di fuga e facili maniglie anti panico, è ammirevole il coraggio di guardare alle paure e alle sconfitte, a sogni infranti e debolezze. Resta aperta la domanda ad un’ulteriorità: che sia Dio con la sua Provvidenza piuttosto che un amore avvolgente, la questione resta aperta ed è bello anche questo. Affiora un telaio di sensibilità e profondità che, con semplicità e senza virtuosismi lascia intravedere un animo che cerca e che dona senso anche alle briciole ai piedi di un tavolo. Questo è bello e grande.
Le poesie di Gianluca Pontilunghi ricordano il volo di un’ape tra i fiori. Con leggiadria vola tra i fiori, guardandone i colori, annusandone i profumi con la destrezza di chi sa cercare. Da ogni fiore coglie il nettare e poi lo lavora. Lavoro semplice e capitale. Gianluca si muove tra sorrisi di luna e infissi di casa impregnata di salsedine, restituisce acquerelli di volti incontrati e ritratti di paesaggi. Bambini e gente comune, foglie e radici animano la sua sensibilità e risvegliano la sua idea poetica. Questo è bello. Probabilmente l’attenzione dello sguardo che si posa sulle stagioni, sui volti, sulle città, rientra già tra le vie privilegiate della poesia. Tale sguardo che accarezza la materialità delle cose è capace anche di toccare ciò che materiale non è: ecco che Gianluca non schiva le domande cruciali, su Dio, la vita e la morte, l’amore. Domande importanti che Gianluca smonta in pezzi semplici per poterli assimilare e digerire. Le sue parole divengono didascalie di emozioni, di momenti passati a contemplare e lasciare risuonare la percezione della bellezza e dello stupore. Nella sua opera sembra di vedere anche il lavoro della formica che cerca e mette da parte per l’autunno e l’inverno della vita. Egli custodisce l’innocenza e anela alla purezza il cui richiamo si libra più volte nei versi. La sua poesia è ritagliata dalla vita quotidiana, sembra esserne un’eco e una parentesi guadagnata dall’autore tutta per sé e da sé, in cui è data la libertà di concepirsi oltre la banalità, oltre la drammaticità, oltre l’incomprensibile, come persone che vivono la poesia come un fiume carsico: a nessuno o pochi è noto, ma rende noti a se stessi. Questo è bello e grande.
Flavia D’Avola
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