Articolo di Massimo Barile Rivista Club degli autori n° 161-162 – Giugno 2006
Luciano Erba: Il cavaliere del garbo nella terra di mezzo
Nella poesia di Luciano Erba c‘è sempre uno strano stato d’animo che ritorna e si ha la sensazione di essere dispersi nel tempo, “manovratori d’un tram senza rotaie”, lo sguardo ben attento a “schivare” ciò che si incontra e “al risveglio rispunta il dubbio antico/se questa vita non sia un evento del caso/e il nostro solo un povero monologo/di domande e di risposte fatte in casa”: possiamo “credere” o “non credere” e l’unica certezza che abbiamo sono le nostre “cicatrici”.
Emerge dalle parole, quasi in modo automatico, la concezione della vita come spettacolo da osservare con quella “strana” sensazione di restare l’ultimo segreto “inviolato”: la netta predisposizione ad abbandonarsi ad una dolce sensazione simile a quella che si ha nei giorni d’estate, quando ci si lascia trasportare in un abbandono ai sensi, e si dimenticano le preoccupazioni, i problemi del vivere quotidiano, le delusioni dei sogni infranti, i dubbi e le amarezze. Ecco allora che tutto pare diventare “silente” come in una natura morta dechirichiana e lo stupefacente stato d’animo dissolve il dramma del mondo: la vita e la morte, la gioia e il dolore, il ricordo e l’annullamento rimangono sospesi in quello stato di “intensità d’animo”.
Il segno poetico è quello dell’infinito, “si corre lievi sui giorni/senza toccarli nemmeno”, o “si tenta la sorte”, oppure, si pensa al “miglioramento della morte”.
Lenta ed incessante diventa la veglia, fin dentro le notti più oscure, annusando il profumo di vaniglia, gustando i sapori di questa esistenza, guardando “fiori gialli” e le periferie della terra lombarda: una miscela di pensieri, costanti e coerenti, che sembrano cercarsi tra loro, e il poeta sta lì, senza parlare né giudicare, senza prendere parte alla lotta e, infine, dopo vari tentativi e rivisitazioni, eccolo riemergere senza fiato, nella periferia di Milano magari tra “fuochi di stoppie” oltre la barriera dove arrivano i treni merci e capita che, camminando in un cortile, si abbia il “sentore di terra e di radici”.
Una sequenza infinita di frammenti e di schegge, tra ironia, grazia e una velata malinconia, legate tra loro in modo inscindibile, che compongono e materializzano il percorso di Luciano Erba nelle cose di tutti i giorni, nell’atto di osservare il più piccolo dettaglio e capace di coglierne, inesorabimente, l’incanto che dura un istante, il lato nascosto ed imprevedibile della realtà.
E, nella poesia di Luciano Erba, non v‘è frammento che non sia esaltazione di una sorta di inconoscibilità, di una memoria sospesa tra il Tutto e il Nulla, e quella forte creaturalità è sempre pervasa dal sorriso “ironico” ed ogni recupero memoriale vuole dimostrare come l’unico intento sia quel desiderio di “aprire le cerniere” a quei sogni chiusi.
Le poche tracce che si lasciano, nell’umano mestiere di vivere, diventano lampi, fulminazioni, accensioni di parole che nascono e vivono nelle “terre di mezzo”, nelle zone intermedie, in prossimità di un bivio posto in un paesaggio “marginale”.
Come un camminatore che affronta a testa alta ogni percorso, incontra fugaci apparizioni, paesaggi evanescenti, innocenti personaggi e lo stesso poeta, con “quell’ironia che salva dal cinismo” come ha scritto David Maria Turoldo a metà degli anni Ottanta, ha sempre sottolineato quale fosse il suo intendimento e la personale visione del mondo circostante e, d’altronde, è sufficiente rileggere alcuni passaggi delle sue poesie “forse la galleria che si apre…/forse il varco tra gli alberi e liane…/forse questo e qualsiasi tracciato… o un canale di Marte, altro non sono/che eventi privi d’ombra e di riflesso/soltanto un segno che segna se stesso”.
Il semplice segno di una poesia che è intrisa di una sorta di “accettazione”, predisposta ad una tendenza a giocar con il codice linguistico, permanentemente cosparsa d’una sottile ironia che può essere un valido aiuto per navigare in un mondo che è un labirinto, prima esistenziale e poi poetico, dove è necessario rammentare che “un poeta deve essere sospettoso e rifiutare qualsiasi adesione al potere”, un poeta deve sempre evitare di “fare la morale”: ecco l’immagine d’un “cavaliere del garbo” che si aggira nelle terre di mezzo.
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Dalla prima raccolta Linea K del 1951 Luciano Erba ha sempre conservato una invidiabile coerenza ad una “identità culturale e poetica” come ha osservato Maurizio Cucchi e, il riferimento a quella capacità di una “lettura del reale aderente alle cose”, non può essere disgiunta dalla constatazione della costante presenza d’una grazia, d’un gusto sottile e raffinato d’un poeta che ha incarnato la matrice della discrezione con stile.
Dopo quella prima esperienza, lunghi anni di silenzio e poi Il prato più verde del 1977 dove tutto viene spostato su un piano più meditativo ed emerge la tendenza a rendere evidente il “non detto” che, in fin dei conti, rappresenta la sua poesia precedente. E continuamente “svalutando le tracce/interrogando le tracce” Luciano Erba impernia la sua poesia su quella sorta di “affermazione e negazione”, di ricerca del Tutto e visione del Nulla. Ci si trova davanti ad una costante richiesta d’un senso, e le folgorazioni momentanee, i bagliori delle immagini rivelate, gli stupori davanti alle manifestazioni, i sussulti della vita presenti nelle precedenti poesie diventano ora “inquietudine poetica”, tensione a decifrare/decodificare la miscela di “segni astratti”.
Solo la morte può tagliare il nastro di Moebius, solo l’idea della morte può far percepire la concezione della “durata” e la parola porta con sé le problematiche esistenziali: eppure Luciano Erba è poeta che ha dimostrato una “invulnerabilità” rispetto al crudele passare del tempo e alle sue cicatrici, alle difficoltà e ai dolorosi segni che rimangono.
Inevitabilmente entra in scena l’idea dell’assenza, della visione ultima.
Le stagioni che trascorrono rapidamente ora fanno pensare che durante la vita non si fa altro che preparare la “piroga” su cui “imbarcarsi” quando si percepisce che è giunto il momento della partenza, che in verità rappresenta la “fine del viaggio”, tra malinconia e conoscenza salvifica: in ultima analisi ci si trova davanti alla testimonianza d’una poesia d’un “viandante alpestre/giunto infine poco sotto la vetta”: “questa o quella forma… questo o quel colore… soltanto un segno… creato dai miei occhi/ per secondare i miei esaltati spiriti”.
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Luciano Erba è un poeta “classico, moderno e antico nello stesso tempo”, e la sua poesia, attenta e severa, non concede interpretazioni fantasiose o finte istanze d’avanguardia: l’ispirazione, l’acume e la parsimonia nell’offrire la sua poesia sono meriti che vanno all’uomo.
Nei “dintorni del nulla”, negli “spazi intermedi”, nelle “particelle del nulla” de L’ipotesi circense, nella poesia che non pone basi, nella visione d’un “pover’uomo” sono forse da ricercare quel disincanto esistenziale, quel malinconico senso del vivere, quella propensione ai luoghi marginali, all’insignificante.
Il lato opaco della vita, le immagini che nascondono apparenze, la capacità di guardare al “senso nascosto”, sono “sensazioni” che vengono rese nelle varie raccolte poetiche sempre con una magica alchimia delle parole come fosse una virtus lirica.
La poesia di Luciano Erba cerca un luogo che diventi un “rifugio” dall’assurdo della società consumista e tenta di scavare nella terra del presente, per recuperare, come archeologo dell’anima, memorie e tracce d’un mondo del tempo perduto. La realtà inesistente, la terra di Lombardia ormai perduta, con impareggiabili paesaggi e riferimenti che sono frammenti dell’anima del poeta, e i recuperi memoriali spesso illuminanti, costituiscono una imprescindibile e fondamentale necessità interiore di far poesia e, al contempo, raccontare se stesso.
L’aristocratica ironia d’un “decifratore di segni”, d’un osservatore del proprio “tempo interiore”, d’un poeta rimasto legato alla tradizione con quell’idea che si può “rinnovare la lingua senza infrangerla con clamore…” perché “...bastano piccole modulazioni sintattiche per recuperare e rivitalizzare il linguaggio”.
Un viaggiatore con poche cose al seguito, intenditore di buon vino, amante del mangiar bene, poeta capace di commuoversi come un bambino durante la lettura di una sua poesia: è per questi motivi che è errore imperdonabile scrivere d’un poeta simile volendo analizzare come chirurgo la sua poesia, si rischia di perdere di vista il “senso” profondo d’un uomo che ha amato la vita stessa, e di risultare anonimi elencatori di cronachistiche fesserie.
E’ più affascinante rivolgere l’attenzione a quell’auspicio di Luciano Erba che desidera “trovare ancora qualcosa da dire nelle smagliature e contraddizioni del quotidiano, soprattutto nei deserti della disattenzione” e comunque tenta di far capire che si deve “rimaner sempre fedeli a se stessi” perché è “la forza di un’artista”.
E, ancor più, pare inutile far cenno a quella “linea lombarda” (in una intervista disse: «Personalmente ho subìto questa etichetta, non ci ho mai creduto troppo… Siamo tutti vittime delle banalità») che deve a tutti i costi etichettare un poeta e poi, credo sia fondamentale rifuggire dalle catalogazioni, dalle definizioni obbligatorie che spesso sono inutili perché l’unicità d’un poeta non è catalogabile e, sovente, serve solo per radunare alcuni poeti, simili tra loro, in qualche antologia lautamente pagata ai vari critici letterari. Non è un caso che Luciano Erba ha affermato in una intervista: «Ho sempre rifiutato il manifesto, i movimenti… Per me il sistema è solo la maschera della storia, non è il problema». Un poeta è un poeta, punto e basta, pare stupido volerlo “soffocare” in una corrente letteraria.
Lo stesso poeta, a proposito dei vari premi di poesia conseguiti, ha detto: «I premi vengono incontro alla personalità del poeta che, per sua natura, è spesso ammalato di vanità e bisognoso di riconoscimenti. Il poeta è uno che ha sempre l’impressione di essere isolato, oscuro, mal compensato. I premi lo remunerano e inoltre rappresentano una conferma di cui possono tener conto gli antologisti».
Proprio questo atteggiamento di distacco si delinea con una poesia di reperti, di ricordi, di momenti che sembrano provenire da un uomo impegnato a vivere “altra vita”. E poi le riflessioni sul senso dell’esistenza, sugli anni che passano, quel gusto nell’evocare oggetti, situazioni, minime evidenze che vengono usati dal poeta per contrapporsi ad una società codificata e superficiale: la sua proposta è fornire un “senso” alle immagini, ai frammenti della vita come a ricercare un valore primitivo nell’arte. L’intento è affidarsi all’immaginario e non al simbolico, tentando di porsi in modo “libero” davanti al mondo, avvicinandosi alla condizione d’un poeta che si immerge nel “Nulla” senza teorie precostituite, senza limitazioni, senza strutture da osservare e seguire ma disperdendosi e miscelandosi fino a raggiungere una dimensione che faccia riferimento ad un’altra realtà, al lato nascosto.
Non restano che i segni d’un mondo interiore, variazioni e occasioni per riempire un vuoto, il nulla e la totalità, il rigore e l’ironia, il distacco emotivo e lo stile limpido: le cose senza prestigio, gli oggetti senza design, cose decifrate dallo sguardo attento, in una divinazione che va “dal cielo alla terra… dai tetti alle nuvole”.
Un “personale modo di abitare nel mondo del presente” nel quale le scale non portano da nessuna parte ed ecco allora che “è difficile orientarsi nei dintorni del nulla”. L’unica linea da seguire è che “l’uomo deve vivere nelle cose e le cose in lui”, “stare vicino al quotidiano” fino a far dire: “Deve essere l’oggetto a dirmi cosa c‘è dietro, dipende tutto dallo stato in cui mi trovo. Non si tratta di una lettura volontaria dell’oggetto, piuttosto parlerei di un’attesa passiva. L’osservazione non è fine a se stessa, ma tende a vedere oltre l’oggetto, alla sua poesia interna”.
E infatti Stefano Agosti ha parlato di “stato di passività, o quasi passività” e di una “energia minima di veglia” e in alcuni rilevi critici si è giunti a parlaredi una “energia minima di veglia” e anche Stefano Prandi ha messo in risalto un’immobilità di sguardo conseguita grazie a una sostanziale condizione di passività e quasi di sospensione, sottolineando che Luciano Erba è «davvero poeta della virtualità come condizione di perenne intercambiabilità di reale e immaginario».
La necessità delle virtuali occasioni vede lo spettatore davanti al mondo, non in una condizione di tormento come in Montale, ma in uno stato di “disincantata estasi” in uno spazio indistinto.
E Luciano Erba afferma «Il poeta coglie lo stato di grazia che è nell’oggetto, nel quotidiano e anche uno spillo può diventare portatore di qualcosa di clamoroso; i grandi spettacoli della natura sono ineffabili, lo scrittore carpisce il particolare e lo eleva. Scrivere è una scommessa, valutare il particolare è bravura, non è imitare la realtà, che offre molti modi di esprimersi; sta al poeta coglierne uno e svilupparlo».
Le equivalenze e gli enigmi, gli incroci e le intersezioni, lo spettacolo d’un rosso tramonto sui tetti d’una città o l’incontro “lungo laghi lombardi,/ liberi, liete locande, libri, letture” e la continua esplorazione in regioni terrene dove si fanno i conti con visioni di freddi inverni e si tenta di interpretar l’informe tra le nebbie nordiche, luoghi dove ci si abitua “a non vedere le stelle/a trascurare la luna/a non accorgersi dei segni del cielo” e magari qualcuno “aspetta con un po’ di ansia” quando si cambia “tra Lambrate e Garibaldi”.
La città labirinto, la sera che cala in periferia, nei dintorni di Milano tra campi e casali, le case d’epoca lungo i bastioni, un vagone abbandonato sulle rotaie e il poeta che scrive “per svegliarmi ripasso il latino/campester silvester paluster/ esco, cravatta, scarp luster”. Proprio come un borghese di tarda mattina. Un superstite del primo Novecento. Quando ancora si amavano e usavano le pettineuses e i controbuffé dei rinomati mobilieri brianzoli.
“Sono le ali del silenzio a fare le parole della poesia”: e poi “le cose minime sono davvero minime?”.
Massimo Barile