Luigi Boldrin - Le mie tribolazioni
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa 14x20,5 - pp. 186 - Euro 12,50 ISBN 978-88-6587-6459 Libro esaurito In copertina: l’autore …Allora partii angosciato con la Lambretta, dicendo tra me e me: “Cosa vado a fare a casa se poi non trovo niente? Sono rovinato, mi sento morire dentro, ho perso tutti i miei soldi, e in più quelli prestatimi da mia nipote, quelli di mia cognata, di mia madre!” Prefazione La prima volta che incontrai Luigi Boldrin fu quando venne a casa mia a mostrarmi alcune sue poesie. Mi sentii a disagio: non era facile dare un giudizio spassionato, e poi temevo che quell’approccio fosse il primo di una lunga serie che avrebbe intaccato la mia libertà. Però lo vedevo entusiasta, fiero di ciò che aveva scritto, e dato il mio carattere pensai: perché non trascrivere le sue poesie al computer che così sarebbe stato ancor più soddisfatto? Glielo proposi, e lui non aspettava altro. Da lì è iniziato il nostro rapporto letterario. Trascrissi le poesie che aveva scritto; e lui me ne portò delle altre, poi delle altre ancora, poesie che mi dettava (ma che conosceva a memoria), sempre con l’entusiasmo di un bambino. Alcune mi colpirono in modo particolare, ed erano quelle in cui in pochi versi si calava nella profondità del concetto, e mi meravigliavo di come una persona di 78 anni, che aveva preso in mano la penna quando ne aveva 71, sapesse scrivere in quel modo. Pensai di farne un libretto, immaginandomi la sua soddisfazione, per questo mi dedicai con maggior passione a trascriverle, correggendole solamente nella punteggiatura. Rino Gobbi Premessa Non avevo preso in mano la penna fin dal tempo della scuola. Ma il 7 dicembre 2008 andai da un fiorista e mi feci confezionare tre rose di rara bellezza, ognuna di colore diverso, di così belle non ne avevo mai viste. Erano per Maria, la mia adorata moglie, che il giorno dopo avrebbe compiuto 70 anni. La fiorista mi chiese se volevo allegare un bigliettino, e io mi scusai per la dimenticanza: certo che volevo metterci il bigliettino! Però le parole le avrei scritte io. Le buttai giù seduta stante, poi la signora le volle leggere, e quando le lesse le scesero delle lacrimucce e così a sua sorella che le era vicino. L’autore Le mie tribolazioniI La casa di Campolongo Maggiore in cui nacqui il 30 luglio 1937 era piccolissima, c’erano solo la cucina di tre metri e mezzo per due e la camera di tre metri e mezzo per tre. E noi eravamo in tanti: i miei genitori, mia sorella Margherita, i miei fratelli Emidio, Sergio, Ferruccio, e io. In più c’era Marisa, una bambina presa agli esposti. Avevo circa sei anni quando andai da mia zia con mio fratello Ferruccio, che aveva cinque anni più di me, a prendere un pezzo di formaggio che lei ogni tanto ci regalava. Attraversando il cortile per tornare a casa vedemmo che il nonno aveva appena tagliato della legna con un maglio e un cuneo di ferro; allora mio fratello disse: «Luigi, vuoi che proviamo anche noi a spaccare la legna come il nonno finché lui non c’è?» Nella primavera del 1943 mio padre tornò a casa dalla Germania fuggendo dalla fabbrica di armi in cui lavorava, vicino ad Auschwitz, il famoso campo di concentramento. Erano in tre che avevano progettato la fuga, ma all’ultimo momento uno non se la sentì di fuggire, e poco dopo che mio padre era tornato venne a sapere che quello era stato ammazzato. Papà e l’altro camerata erano riusciti a fuggire compiendo delle peripezie pazzesche, come mi raccontava lui. Una di queste era che al confine con l’Italia avevano una gran paura di essere scorti mentre cambiavano di treno, e furono aiutati da una famiglia che intrattenne le guardie mentre loro salivano sul convoglio che li avrebbe portati a casa. Come ricordo della sua prigionia si era portato a casa un cucchiaio e una forchetta di acciaio; la forchetta ce l’ho io, ancora in ottimo stato data l’alta qualità dell’acciaio, mentre il cucchiaio è andato perso. Un anno dopo, una sera prima del calar del sole, io e Ferruccio andammo incontro a nostro padre che con Luigi Coccato aveva appena arato un campo di Pasquale Balasso, detto Nino, fattore dei Serravalle, proprietari di campagne e della fattoria dove ora sono i Marchiori. Stavano tornando con un biroccio trainato da due mucche, dove sopra stava un aratro dal vomere luccicante. L’incontrammo dove ora ci sono le scuole medie di Campolongo. All’improvviso due aerei da caccia, vedendo il luccichio del vomere si gettarono in picchiata e mitragliarono il carro. Ci gettammo immediatamente dentro il fosso e non fummo colpiti per puro caso, perché i proiettili sfiorarono la testa di mio padre e passarono rasenti le nostre spalle e in mezzo alle gambe. Le due mucche, sentendosi libere fuggirono con il carro in un cortile lì vicino e si nascosero sotto un mucchio di fascine. Poi io e Ferruccio, spaventati per ciò che sarebbe potuto accaderci, tornammo a casa tremanti per conto nostro. In quel periodo papà uccideva di nascosto delle bestie per ricavare la carne, che poi la mamma con uno di noi figli andava a vendere di contrabbando a Venezia. Però una mattina in cui andai con lei successe un bel contrattempo. Arrivammo a Marghera, alla fermata del bar “Della Rana”, e fummo fermati da due guardie che c’imposero di seguirle in caserma. Come entrammo fecero spogliare mia madre per vedere cosa portava sotto i vestiti (infatti era troppo grossa per non destare il sospetto che sotto ci fosse nascosto qualcosa), e poi controllarono le due borse. Sempre nel 1944, quando calava la sera non si dovevano tenere le luci accese, altrimenti Pippo, l’aereo di ronda, sarebbe sceso in picchiata e avrebbe mitragliato là dove c’era anche un solo lumicino, per cui il grido ricorrente era: «Spegnete le luci!» Mi ricordo che in questi casi correvamo a nasconderci dentro un fosso o sotto una quercia, a una cinquantina di metri da casa, presso la fattoria dei Serravalle. Emidio, assieme ad altre persone aveva scavato dei nascondigli sotterranei, e ci nascondevamo anche là, come gli adulti del resto, che durante le retate si nascondevano per non essere portati via dai tedeschi. Però nel periodo della guerra non tutto fu tragico. Era il 1945 e per la prima volta sentii un rumore assordante provenire dalla strada. Uscii di casa e vidi mio padre che con altri uomini stava passando con una delle prime trebbie in circolazione. Era trainata da due buoi e c’era pure una macchina a vapore a cingoli che sembrava una delle vecchie motrici dei treni, che serviva a mettere in moto la trebbia tramite una lunga cinghia. Per via della guerra cominciai la scuola elementare con due anni di ritardo. Il primo anno, 1945, lo frequentai con la maestra Melato, così come il secondo e il terzo. Quel che ricordo del terzo anno fu che in classe ci passavamo sottobanco dei bigliettini per dichiarare l’amore a una compagna di scuola. Una volta ne diedi uno a Esterina Bucchia perché glielo desse a Silvana Biolo, sorella di Mario, l’impresario edile. Ricordo inoltre che durante le vacanze, con papà e Sergio andammo a far legna per la maestra, e lei mi diede la mancia da quanto bene l’avevo accatastata dentro al suo magazzino. Ricordo che un giorno stavamo a casa del maestro Ordan per prepararci agli esami di ammissione per le scuole medie, e in un momento di relax, mentre si discuteva del più o del meno, successe che il maestro ci chiese chi sarebbe riuscito a far stare in piedi un uovo crudo. Tutti provarono, ma nessuno ci riuscì. Invece io ci riuscii, e non con uno, ma con ben cinque uova, di fronte al maestro e ai miei compagni increduli, che erano: Franco Fontana, Ruggero Canova e Florio Meneghetti. Dopo l’ora di Dottrina Cristiana di solito andavamo da Antonio Pengo, marito della levatrice del paese (dove ora c’è l’officina di Giannello Livieri). La sua era una casa privata dove però c’era la televisione e un bigliardino. Là, specialmente di sera, si giocava a calcio balilla e si guardava alla televisione i primi telefilm che davano, come Rin Tin Tin e Penna di falco. Quando uscivamo ne combinavamo di tutti i colori, andavamo a rubare i finocchi e le carote nell’orto dei Mozzato, e poi scappavamo via sghignazzando. Oppure tagliavamo dei pezzi di legno dalla siepe spinosa di Fasolato (situata lungo la strada dove ora si trova il panificio Livieri) e con questi andavamo a battere sulle imposte chiuse partendo dai Mozzato, e poi sempre più avanti fino ad arrivare al municipio. Battevamo e scappavamo come lepri per non essere presi. Una sera andammo a picchiare sugli scuri della casa di Mario Lorato, che abitava all’inizio dell’attuale via Veneto; la sera dopo rifacemmo la bravata. La terza volta lui ci aspettava nascosto, ci prese e ci fece una bella ramanzina. Da quel momento ci calmammo. Ma non per molto, perché poi riprendemmo la stessa storia e ritornammo ancora da lui. E la seconda sera lui era là che ci attendeva ancora dietro l’angolo della casa, e ci sparò una schioppettata; noi fuggimmo tra gli alberi lungo il fosso. Da quella volta non siamo più andati a battere sulle imposte di nessuna casa. Un giorno sistemai in mezzo alla strada un vecchio portafoglio legato a uno spago, che potevo ritirare di colpo quando una persona si fosse fermata per raccoglierlo, e mi nascosi al di là del fosso, dietro a una siepe (era il classico trucco del portafoglio). Passò di lì un pezzo d’uomo, che si fermò e quando vide il portafoglio scivolare via intuì subito il perché. Lasciò cadere a terra la bicicletta e fece due salti per attraversare la siepe e venirmi ad acchiappare. Ma giacché lo avevo previsto, ed ero come un gatto, mollai tutto e corsi a nascondermi nel campo di grano vicino. Lui, arrabbiato, tornò indietro brontolando, prese la bici e se ne andò. Una domenica, dopo la lezione di Dottrina Cristiana, andammo a prendere in giro delle inferme di mente che erano state prelevate da una casa di cura di Padova (visto che là infuriavano ancora i bombardamenti) e ospitate presso il nostro asilo parrocchiale. Affacciandoci alla rete metallica, posta sopra la mura di recinzione, facevamo a queste donne le linguacce, e loro ci guardavano stupite. Poi una corse ad avvisare la suora e quando questa uscì noi ci nascondemmo al riparo della mura. Senonché il cappellano, che stava proprio venendo verso l’asilo, se ne accorse; scappammo a gambe levate, e lui si mise a inseguirci. Io attraversai la strada, saltai il fosso e mi buttai sull’erba del campo di Trincanato, non accorgendomi di un fondo di bottiglia, che mi tagliò il polpaccio fin quasi all’osso. Stranamente non sentii dolore, anche se una volta in piedi mi accorsi che perdevo sangue da far paura. Facendomi forza mi trascinai fino a casa, dove mi presi una bella sgridata dalla mamma, che poi mi curò e fasciò per bene. Una volta andai a trovare mio nonno materno Pasquale, stavo seduto vicino al focolare quando lui mi disse: «Gigetto, fammi un favore, accendimi la pipa, ma non metterti in testa di fumarla!» Intanto mio fratello Emidio nel 1945 era andato a imparare a fare il falegname a Piove di Sacco, dal nonno di Marisa Sacchetto, la cantante della città. Però dopo un po’ fece domanda per entrare nel corpo della Polizia, che venne accolta. Per tre anni fece il poliziotto, quindi divenne carabiniere. Ma dopo un poco di tempo, aiutato dall’amico maresciallo Forchito, andò a lavorare come guardiano e portinaio nello stabilimento elettrochimico Caffaro a Marghera. Eravamo molto poveri, avevamo qualche gallina e si mangiava qualche uovo. Un giorno mia madre mi raccontò un fatto per il quale non saprei se sorridere o irritarmi. “A quei tempi i preti andavano per la questua presso le famiglie” diceva mia madre, “a Pasqua per le uova, in estate per il frumento e a settembre per l’uva. Una mattina mi vidi entrare in casa il parroco don Giovanni Rinaldo, che mi salutò e mi chiese se avessi qualcosa da dargli. Data la nostra povertà avrebbe dovuto essere stato lui a darci qualcosa. Io, poverina, gli risposi: «Cosa posso darle signor parroco, non abbiamo niente neanche per noi, pensi che ho un solo uovo, che sono appena andata a prendere». Lo avevo messo sopra la credenza, lui se lo prese e se lo mise in tasca dicendo: «Buono anche questo, Gioconda, ciao!» E se ne andò. Rimasi di stucco, perché stentavo a credere a una cosa del genere.” [continua] Contatore visite dal 08-03-2016: 2606. |
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