I grandi Scrittori del Novecento
Marina Ivanovna Cvetaeva
«La poesia è come affondare un ago nel cuore»
(Articolo di Massimo Barile – Rivista Il Club degli autori 202-203-204 Anno 19 – giugno 2010)
Se le fiamme potessero
avvolgere una donna
fino a trascinarla in un vortice doloroso, fino a farle vedere la morte insinuarsi nella vita, inghiottire i sogni, lacerare il corpo, come a consumarlo lentamente, sarebbe il corpo di Marina Cvetaeva. Solo la sofferenza profonda può condurre ad una poesia autentica e alla serietà che vive di una intensità drammatica quando ormai non rimane che un soffio lirico per il momento della fine. Essere al di là dalle lacrime, dalle sofferenze della vita, oltre l’agonia che sovrasta i pensieri e le parole: quelle stesse parole che vengono scritte su un tavolo della cucina dal quale “tutto era tolto in fretta” per permetterle di fissare le sue poesie su quei fogli che già grondavano della inarrestabile sete di vivere.
Elena Izvol’skaja ricorda così la figura di Marina Cvetaeva nei primi anni a Parigi, quando, ancora giovanissima, frequentava le lezioni di letteratura francese alla Sorbona: «Lavorava e scriveva, raccoglieva legna, lavava per terra, faceva il bucato, cuciva con le sue dita esili. Ricordo bene quelle dita, ingiallite dal fumo, reggevano la teiera, le padelle, il ferro da stiro, accendevano la stufa. Eppure quelle stesse dita guidavano la penna o la matita sulla carta, sul tavolo della cucina dal quale tutto era tolto alla svelta. Seduta a quel tavolo, Marina scriveva versi, prosa, buttava giù le brutte copie di interi poemi, talvolta, tracciava due, tre parole, una sola rima, e molte, molte volte le ricopiava».
Gli occhi di Marina Cvetaeva vedevano nella vita esterna ciò che in realtà era un tormento interiore. Nella tragedia della sua vita, cercherà costantemente di afferrare l’esistenza, il senso profondo della vita, la convinzione di essere una poetessa “innata”, una donna nata con il fuoco sacro della poesia nel sangue. Il fuoco sacro si avvinghia al suo corpo come un essere demoniaco che fagocita i desideri di una donna o li tramuta in illusioni: il divario che la separa dal mondo diventa un abisso incolmabile e, da qui, nasce il processo di inesorabile annientamento.
Il dramma esistenziale di una “funambola su una corda incrinata” implica il cammino verso il nulla: alla fine, il silenzio in una stanza vuota dove trovare la morte o l’ultimo grido disperato.
I poeti sanno che sono gli incendi interiori che torturano, nel campo fertile del vivere con frenesia selvaggia si può vedere l’arabesco delle forme, la propria avventura vissuta nell’intima sostanza, nelle divoranti fiamme della poesia tremendamente viva e sanguinante.
E Marina Cvetaeva scrive: “Il poeta da lontano conduce le parole. La parola conduce lontano il poeta”. Tra le “tortuose parabole” della vita, nei segni di tutti i giorni, il ”cammino delle comete è il cammino dei poeti” perché “le eclissi dei poeti non sono previste dal calendario”, perché “il poeta confonde le carte,/inganna il peso e i conti”; è “colui le cui tracce sono svanite” come “il treno al quale tutti arrivano in ritardo”.
La sua profonda lucidità nelle evocazioni delle emozioni più profonde, delle esperienze laceranti della vita, delle sue azioni e dei gesti, così come dei semplici frammenti quotidiani, si tramutano in una poesia potente e viscerale: la sua voce è spietata nel sezionare l’universo emozionale e le passioni.
“Sono felice di vivere in modo esemplare e semplice”, di “vivere come il sole”, di “essere un’eremita laica”, di “vivere come scrivo”: l’esistenza diventa una presa di posizione decisa ed orgogliosa, l’attualità dolorosa della sua condizione si immerge in una disperata serietà “è semplice il mio portamento,/misero il tetto della mia casa” … “non ho bisogno di nessuno” … “sola tra tutti-per tutti-contro tutti!”.
Donna irriducibile e istintiva, ricerca il flusso del sangue nelle vene, “l’incendio nel petto”, come ad innalzare un “sonoro appello nel vuoto del cielo”, come a bagnarsi delle lacrime “più grandi degli occhi umani e delle stelle atlantiche”: bruciando, strappando, percorrendo sentieri tortuosi, insinuandosi “nell’imponderabilità delle cose del mondo”, in una continua esplosione che nasce direttamente dal ventre, fino “all’ora suprema della solitudine”.
Tormentata dal suo destino è sempre pronta a riconoscere la propria limitante finitudine e precarietà: “Forse la vittoria migliore/sul tempo e sulla gravità è/passare senza lasciare tracce, passare senza lasciare un’ombra/ sulle pareti”... “insinuarsi senza inquietare le rocce”... “sfaldarsi, senza lasciare le ceneri per l’urna… insinuarsi nel tempo come/nell’oceano, senza inquietare le acque” come scrive nella poesia “Insinuarsi” del 1923.
Il respiro lirico di una donna irrequieta, sempre intenta a raccontare le forti pulsioni interne, la drammaticità del proprio vivere, in una incandescenza che non conosce soste: “… ho inciso le vene: la vita sgorga/in modo inarrestabile, irrimediabile. Senza ritorno, in modo inarrestabile,/irrimediabile sgorga il verso”. Nel suo personale mondo tutto diventa vortice inesauribile, in un vulcano sempre attivo: la fuoriuscita del magma poetico è dirompente, esplosione di passione e ossessione, sangue e lacrime. Il suo carattere imprevedibile fa sì che possa succedere di tutto, che possa verificarsi una deflagrazione senza preavviso, scatenarsi una tremenda presa d’atto della propria condizione, un violento sentimento e una sconvolgente passione.
Nel suo “cuore sincero” la vita viene vissuta guardando molto bene la realtà, seppure il suo sguardo è accompagnato da un’ardente propensione anticonformistica e pervaso da ribellione e istintività: il mondo viene osservato senza filtro e il suo animo viene messo a nudo con le parole delle sue poesie. Lei è passionale ed incontenibile fino a non riuscire neanche lontanamente ad immaginare cosa potesse sprigionare la sua mente sempre capace di illuminare le minime percezioni della vita: eppure non vuole sentirsi “costretta” entro i canoni e le regole precostituite ma, da spirito ribelle, è insofferente ad ogni costrizione.
La poesia di Marina Cvetaeva nasce dall’anima in fiamme e si sprigiona direttamente dalle cicatrici delle battaglie di una donna caparbia, tenace nelle sue convinzioni, ossessiva nelle sue visioni, totalmente abbandonata ad uno slancio lirico che scatena la sua capacità di esaltare la pulsione più vera.
Marina Cvetaeva è una donna dal carattere forte, dallo spirito libero: è severo il suo portamento, “lieve e veloce la sua andatura”, impetuosi i movimenti, il suo volto nasconde una segreta espressività; capelli corti, fuma molto, viaggia sola e vive la vita. A soli diciassette anni incontra Sergej Efron, suo coetaneo e si sposano quando lui frequenta ancora l’Accademia militare.
A soli diciotto anni pubblica la sua prima raccolta di poesie Album serale. Nel 1912 nasce la prima figlia Ariadna e pubblica la raccolta di poesie La lanterna magica. L’anno dopo pubblica la terza raccolta Da due libri. Quattro anni dopo, nasce la seconda figlia Irina, proprio durante la rivoluzione del ’17 e, a causa della guerra, si trova da sola con due figlie nella città di Mosca dovendo fare i conti con una tremenda carestia. Pochi anni dopo, la piccola Irina muore. Alla fine della guerra civile, finalmente, si ricongiunge con il marito e, nel 1922, emigra a Praga dove nasce il terzo figlio Georgij. In questi anni pubblica le sue poesie e, nel 1928, esce la sua ultima raccolta Dopo la Russia mentre cerca di sostenere la sua famiglia con le modeste entrate. Il marito, insieme alla figlia Ariadna, rimpatria e inizia a prendere parte alla vita politica. Lei si trova in una condizione di solitudine, lontana dalla famiglia si trasferisce in una casa più economica e cerca di scrivere per riuscire a guadagnare abbastanza per sostenersi decorosamente. Marina Cvetaeva non è propensa a ritornare in patria ma, nel 1939, dopo aver sistemato tutti i suoi scritti quasi presagendo un funesto destino, torna in Russia ma si rende subito conto di avere fatto un tremendo errore: la sua vita è difficile, si sente irrimediabilmente “isolata”; svolge alcuni lavori di traduzioni ma la situazione peggiora sempre di più. Il marito Efron viene arrestato e fucilato, la figlia Ariadna viene deportata nel gulag. A lei non rimane che chiedere aiuto ad alcuni letterati russi ma le viene negato. Nel 1940 Marina Cvetaeva scrive: «Già da un anno cerco con gli occhi un gancio… Da un anno misuro la morte. Tutto è mostruoso e terribile. Ingoiare pasticche è disgustoso, buttarsi da una finestra è abominevole e ho un’innata ripugnanza per l’acqua. Non voglio spaventare nessuno da morta, mi sembra di aver già paura – da morta – di me stessa. Non voglio morire. Voglio non essere. Assurdo. Finché sarò necessaria… ma come sono piccola, quanto poco posso fare! Vivere fino in fondo – è come masticare – fino in fondo – assenzio amaro».
Dopo l’inizio dell’invasione tedesca raggiunge, insieme al figlio Georgij, la cittadina di Elabuga dove è completamente abbandonata a se stessa e riesce a mangiare qualcosa solo grazie alle razioni di viveri che le vengono offerte. Ancora una volta, cerca aiuto da alcuni letterati come Fedin ed Aseev anche per avere una possibilità di trasferirsi da Elabuga ma nessun aiuto le viene concesso. Il suo ritorno a casa è il viaggio di una donna ormai disperata. Alla fine di agosto del 1941, rimasta sola in casa, sale su una sedia, fissa la corda intorno ad una trave e si impicca. Si racconta che nessuno andò ai suoi funerali nel piccolo cimitero di Elabuga. Nessuno conosce il punto preciso della sua tomba.
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Boris Pasternak così disse di lei: «La verità è che bisognava saperla leggere con attenzione. Quando lo feci, restai senza respiro per quell’abisso di purezza e di forza che mi spalancava davanti. La Cvetaeva prima maniera era precisamente ciò che avrebbero voluto essere, e non furono, tutti gli altri simbolisti presi insieme… Subito mi conquistò la violenta liricità della forma, vissuta intimamente, non fioca e esile, ma potentemente stringata e concisa, non col fiato grosso a ogni verso, ma capace d’abbracciare, senza mai interrompere il ritmo, con un periodare ampio e solenne, intere serie di strofe. Scoprii in queste caratteristiche una sorte d’affinità tra me e lei…»
La “violenta liricità intimamente vissuta” spalancava all’abisso di purezza e di forza di una donna inquieta, insofferente nei confronti di una condizione di costrizione ad un ruolo assegnatole, alla costante ricerca di autonomia, naturalmente portata alla necessità di conquistare l’indipendenza da un contesto sociale, politico e culturale per esaudire il suo desiderio di alimentare una “voce personale”. La figura di una donna “eterna ribelle”, istintiva e passionale, sempre in conflitto sia con l’ambiente familiare che con la vita coniugale e con gli affetti profondi, quasi in difficoltà nel trovare una dimora stabile in un preciso luogo che potesse diventare il luogo dell’anima, il rifugio, la propria “casa”.
La sua richiesta di “essere libera, libera da tutto. Essere sola e scrivere. Mattina e sera…” quasi a dedicarsi esclusivamente all’arte, il suo unico destino… prima del buio definitivo della morte.
Mai rinuncerà ad amare, mai rinuncerà a scrivere, nonostante le esperienze dolorose, le difficili condizioni esistenziali che si troverà ad affrontare, le problematiche d’un vivere sempre in esodo, le sofferenze e la miseria, le delusioni e le perdite delle persone amate.
Tutta la sua vita assume le caratteristiche esistenziali di una maledizione, di una personale tragedia, il dramma di una donna: la morte della seconda figlia, il marito non si curerà molto della famiglia, il figlio ammalato in giovane età, poi il marito e la prima figlia saranno arrestati, la morte del marito, la fuga dalla Russia, poi il ritorno e l’epilogo nella “oscura località” tartara di Elabuga.
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Non è facile la collocazione della poesia di Marina Cvetaeva perché la sua Parola sgorga dalle lacrime, dal sudore e dal sangue, dagli “addii” sofferti, dalle strade di Mosca o di una piccola cittadina tartara. Il suo stile è caratterizzato da alcune peculiarità che ne delineano l’originalità: la tensione e le emozioni forti, l’energia pura di alcune visioni, la capacità di condensare perfettamente la sua esuberanza nella brevità dei versi, la sua impetuosità simile ad un torrente in piena che offre una variazione di ritmi e la possibilità di contrasti stilistici sicuramente lontani dalla tradizione del periodo in cui vive e scrive.
La sua vita vedrà un’inquietudine senza confini, la vita sarà un travaglio continuo, accompagnato dalla consapevolezza di una diversità da un ambiente culturale e letterario: una costante lotta con se stessa e poi con la vita. Sarà costretta a vivere con un minimo sostentamento per sé e per i figli, ad accontentarsi dello stretto necessario per sopravvivere, sia durante i decenni trascorsi all’estero, sia al suo ritorno in Russia. Le tragiche conseguenze di una dolorosa esistenza la condurranno alla povertà estrema, alla miseria vera e propria: cercherà di guadagnare qualcosa con pubbliche letture delle sue poesie, con alcuni lavori di traduzioni e quant’altro potesse offrirle il modo di recuperare un minimo per il sostentamento della sua famiglia. Poi finirà a vivere di elemosine e capirà che ormai le tenebre oscurano la sua mente e non resta che la morte.
La sua figura di donna e poetessa è l’esempio paradossale di una lotta continua con la vita: le profonde e devastanti emozioni di una donna sensibile, appassionata, inquieta e libera nello spirito.
La sua poesia è testimonianza che quando la Parola è autentica ed ispirata, prima o poi, conduce ad un riconoscimento: la ricchezza del mondo emozionale, degli anfratti più oscuri del suo universo interiore, l’ammantarsi in una “malinconica inquietudine” e le ombre della vita che sembrano inseguirla, vedono rari momenti di quiete, spiragli di speranza tra le paure, impeti fulminei nel lungo e faticoso cammino.
La tragedia di una donna e poi di una poetessa che, a causa di una serie impensabile di difficoltà, non può dedicarsi completamente all’arte, alla sua poesia. La percezione lirica della Cvetaeva, la concezione della poesia come di una forza vibrante, attiva, impetuosa, tempestosa, fa scaturire nella sua mente una sorta di missione poetica personalissima che condurrà a termine fino all’ultimo respiro. Ne pagherà le conseguenze, soffrendo e patendo, vivendo lontano dalla sua terra natia, subendo il clima politico e un ordine sociale sicuramente a lei sfavorevoli, facendo i conti con un ambiente letterario che l’aveva annullata, relegata in un angolo buio e sconosciuto d’un panorama letterario che metteva in piena luce ben altri poeti e personalità. Le rimarranno le intense e profonde corrispondenze con Pasternak e Rilke… sognando di incontrarsi. Proprio a lui scriverà “Essere al settimo cielo dalla gioia. Il settimo sogno… Il sette è un numero russo!”.
La parola diventa per lei come l’autentico strumento di lotta, un’arma esplosiva, lo strumento per confermare la sua presenza su questa terra.
La sua poesia è nutrita con il sangue, è la poesia di una donna passionale ed incontenibile dalla personalità complessa ed originale: “Il sogno ha rovistato tutti i miei segreti. Il sogno ha rimestato tutti i miei segreti con la precisione d’un chirurgo… il sogno ha rivangato tutte le mie ferite!”.
Lei aveva scritto: “Deporranno me – nuda:/due ali come copertura”. Era la sua profezia.
È sepolta non si sa dove, nel cimitero di Elabuga. Non v’è una croce, né un segno che la ricordi, né una traccia che riconduca a lei. Si sente solo il vento.
Massimo Barile