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Lo champignon sul mocassino
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Marina Sambo - Lo champignon sul mocassino
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
14x20,5 - pp. 156 - Euro 13,50
ISBN 978-88-6587-9405
eBook:
pp. - Euro 7,99 -
ISBN 978-88-6587-9863
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In copertina: illustrazione di Rosario Santamaria
Alcuni degli episodi narrati sono liberamente tratti da situazioni realmente vissute dall’autrice.
Altri, come del resto tutti i nomi di persone e luoghi citati nel libro, sono frutto di fantasia.
Prefazione
Marina Sambo dimostra di possedere grande passione per la scrittura e indubbia capacità di coinvolgere il lettore nelle esperienze esistenziali di una insegnante precaria che racconta la sua vita con parole sincere, costantemente impegnata nella difficile professione dell’insegnamento e sovente immersa in profonde riflessioni sul senso della sua vita e sulla funzione di “maestra”.
Il libro, dal titolo decisamente originale, “Lo champignon sul mocassino”, diventa rappresentazione fedele di tali intenzioni narrative e simbolo della condizione odierna di una insegnante che desidera solo svolgere il suo lavoro nel miglior modo possibile, cercando di trovare, in ogni occasione, il lato positivo, la visione disincantata, lo sguardo ironico e divertito.
Il processo narrativo è dirompente e l’Autrice, grazie ad una scrittura fluida e coinvolgente, riporta le esperienze vissute, le emozioni e gli stati d’animo, gli aneddoti e le peripezie della protagonista, Caterina De Matteis, donna inquieta di trentun anni, in continua metamorfosi, sovente alle prese con le contraddizioni della vita, ironica e sognatrice, un po’ goffa nel comportamento e, per questo motivo, spesso alle prese con situazioni divertenti e, talora, perfino imbarazzanti, grottesche, ai limiti del tragicomico.
La sua figura viene tratteggiata magistralmente come quella di una donna alla ricerca del “suo” percorso di vita e protesa a scandagliare le molteplici manifestazioni che nascono dall’insegnamento, ponendosi numerosi interrogativi che non trovano facili risposte: come insegnante precaria deve fare i conti con il complesso mondo della scuola, a volte strano, altre volte, caotico e disorganizzato, tra supplenze all’ultimo minuto, lezioni in scuole dislocate in luoghi sconosciuti e, come ciliegina sulla torta, incontri decisamente inaspettati.
Nella sua vita, in definitiva, l’evento strano e sorprendente è sempre dietro l’angolo e pare che, da un momento all’altro, possa succedere veramente di tutto, lasciandola attonita e stupefatta, inoltre, ancor più, sente profondamente nel suo animo e sulle spalle, il ruolo di “insegnante” che lei cerca di svolgere con passione, seppure, in alcune occasioni, si senta come in gabbia, quasi limitata dalla sua scelta professionale, altre volte, al contrario, riesca a vivere grandi soddisfazioni da parte dei suoi allievi, dei colleghi e anche dei genitori.
Nel flusso narrativo che rievoca tali esperienze della “maestra”, l’Autrice inserisce le numerose riflessioni che pongono, al centro del percorso esistenziale di una donna, la domanda fondamentale che si può riassumere nell’interrogativo, come in una confessione davanti allo specchio, se lei è nata per fare l’insegnante ed è veramente ciò che ha desiderato.
La risposta pare fluttuare in una dimensione di sospensione perché, da un lato, dovrebbe ormai pensare a creare una famiglia, dopo un solido legame sentimentale e cinque anni di convivenza con Gianni, ma, dall’altro lato, sente di aver paura nell’affrontare questa scelta e si rende conto che non sta vivendo una condizione felice: ecco allora che prevalgono i dubbi e i timori che la inducono ad attendere.
L’Autrice, nel continuo scandaglio della protagonista, cerca di andare ancor più nel profondo e porta alla luce gli stati d’animo d’una donna che, durante le sue esternazioni, sembra quasi non riconoscersi più, seppure, nelle pagine finali, emergono chiaramente la sua forza combattiva e la capacità di rialzarsi in ogni situazione.
Nell’incalzante dispiegarsi degli eventi risulta evidente che lei “ama rapportarsi” con i bambini e riesce ad imparare molte cose dai loro comportamenti, sempre consapevole di aver intrapreso un percorso difficile e complesso, un “viaggio” grazie al quale non è mai sola, ma sempre in compagnia degli alunni, dei colleghi e dei genitori, in un continuo coinvolgimento in situazioni alquanto strane ed autentiche esperienze talora ai limiti del comico.
Nelle pagine di questo libro troverete un recupero memoriale relativo ad alcune vicende vissute dalla protagonista, esperienze di vita, ricordi “indimenticabili” con i suoi allievi, storie buffe, ironiche, divertenti e surreali: dalle rimembranze del giorno della prima Comunione, al divertente aneddoto della fetta di fungo champignon caduto sui mocassini durante la festa di compleanno d’un amico; dal ricordo della calda accoglienza in un Istituto Tecnico Industriale, autentica iniziazione, con sonori apprezzamenti dei ragazzi, all’esperienza nella scuola Montessori e alla scuola di Borghereto; dal ricordo di alcuni allievi che alimentano pagine di intense riflessioni e soddisfazioni che colpiscono il cuore, ad esempio, come Jacopo, un tipetto che fa venire in mente Pierino la peste; lo scatenato Paolo, un bullo dal cuore buono, con la sua difficile situazione familiare, insieme ad altre “simpatiche canaglie” e, ancora, Giulia, bambina molto intelligente, affetta da mutismo selettivo e Vincenzo, bambino autistico, con il suo sorriso luminoso.
Vengono riportate anche le numerose storielle divertenti, gli inconvenienti e gli aneddoti durante le ore di lezione: come non ricordare quel giorno in cui lei ha un fastidioso mal di pancia e deve andare molte volte nel bagno della scuola o la vicenda del povero bidello che si arrabbia dopo esser stato accusato ingiustamente di furto.
Tra le esperienze vissute hanno sicuro posto di rilievo anche le enormi soddisfazioni collegate alla sua professione e ricevute sia da parte dei suoi allievi come dei colleghi di lavoro e nei rapporti con i genitori e, infine, le importanti considerazioni finali sul ruolo dell’insegnante, sulla sua funzione, sul concetto di “educare” e sulla volontà di “offrire conoscenza”.
La scrittura di Marina Sambo è coinvolgente e divertente, sempre giocata sul filo d’un tono ironico, offrendo testimonianza, fedele ed appassionata, delle vicende di una insegnante che racconta la sua esperienza e porge, con sincerità, le numerose riflessioni sulla propria condizione e sul senso della vita stessa.
La sua Parola innalza a simbolo della narrazione la protagonista, che vive in modo totalizzante la vita di maestra e percepisce il mondo della scuola come il “luogo” della sua condizione: tutti gli interrogativi troveranno le adeguate risposte durante la ricerca della strada salvifica.
Massimo Barile
Lo champignon sul mocassino
A Tommaso,
con amore.
“Il futuro appartiene a chi crede intensamente nella bellezza dei propri sogni”
Eleanor Roosevelt
PREMESSA
Il tubetto del dentifricio, spremuto fin quasi all’ultima goccia e privo della sua consueta rigidità, se ne stava lì, afflosciato sul bordo del bicchierone come quel fiore, appassito da tempo e mollemente adagiato con tutto lo stelo sul ventre di un panciuto vaso di ceramica craquelé, che avevo visto in una vecchia tela fiamminga.
Quell’immagine, chissà perché, mi aveva portato a riflettere sul senso dell’esistenza del fiore e del dentifricio stesso e avevo scoperto che le finalità ultime dei due elementi in questione, oltre ad essermi ben chiare, erano, del tutto inaspettatamente, più legate che mai: il fiore infatti, al di là della nota faccenda dell’impollinazione, con la sua delicata bellezza induce chi lo riceve alla serenità e al sorriso e il dentifricio consente di avere denti sani e… sorrisi smaglianti.
Ebbene, sistemati gli oggetti del mio disquisire e collocata a buon diritto la loro esistenza nell’immenso, variegato e imperscrutabile disegno della Creazione, mi era venuto da riflettere, chissà perché (autolesionismo?), sul motivo della “mia” esistenza.
Alla brutale ma necessaria domanda “E io… a che cosa servo?” mi ero resa immediatamente conto che le cose si facevano un tantino più complicate.
Lì per lì, non avendo trovato nessi immediati ed evidenti col dentifricio e con il fiore, me ne ero discostata, anche se a malincuore.
Ma la necessità di indagare sul senso del mio esistere si era trasformata in pochi minuti in una vera e propria urgenza alla quale non riuscivo a sottrarmi.
Mi chiedevo se, forse, avrei potuto cercare (e trovare) una risposta nella professione che svolgo, ossia se sono nata per fare quello che faccio.
Però avete ragione voi: tra dentifrici, fiori e deliri vari, non ci avete capito niente, giusto?
A questo punto allora sarà bene che, telegraficamente, mi presenti: mi chiamo Caterina De Matteis, sono un’insegnante precaria, ho trentun anni, da cinque ormai convivo con il mio meraviglioso e paziente ragazzo e non ho figli.
Che io sia un’insegnante, come recita anche il sottotitolo, è un dato incontestabile. Ciò che mi preme però sottolineare fin d’ora è che in questi panni talvolta mi ci trovo un po’ scomoda e a disagio, costretta in un aplomb e un rigore che non mi appartengono. Non del tutto, perlomeno. E qualcosa mi dice che l’avevate già intuito.
Fondamentalmente, infatti, mi trovo più a mio agio dalla parte di chi ascolta, pone domande ed impara. Un po’ perché sento di non avere concluso il mio personale percorso di formazione e di crescita (percorso che mi auguro di non concludere mai) un po’ perché… pormi esclusivamente e definitivamente dall’altra parte della barricata (leggi “cattedra”) mi collocherebbe d’emblèe in una categoria che sa un po’ di stantìo, di vissuto, di occasioni già giocate ed è, questa, una prospettiva che un filino, lo confesso, mi terrorizza.
Quanto ai figli poi, argomento cui, non a caso, ho accennato fin dall’inizio, non mi sento ancora pronta ad averne, probabilmente perché vivo ancora intensamente la condizione di figlia. Ma avrò modo di parlarne.
Sono un’insegnante precaria con tutte le sfumature di significato che questa brutta parola porta con sé. Perché se è vero che su tutti noi incombono, impietose, monolitiche certezze come la scadenza delle bollette e della rata del mutuo o l’influenza durante le feste natalizie, è altrettanto vero che molti altri aspetti del nostro vivere hanno, invece, un profilo assai più mutevole ed incerto. E, ahimè, ciò vale particolarmente per chi, come me, è un “supplente” e può, quindi, condurre e gestire la sua vita esclusivamente “navigando a vista”.
Condivido infatti con un’infinità di colleghi un’esistenza un po’ schizofrenica e tragicomica fatta di levatacce mattutine in cui si attende, praticamente ai blocchi di partenza, la telefonata di qualche direzione didattica con la proposta di un incarico. E quando la telefonata arriva, se arriva, c’è da sperare che sia in un posto raggiungibile anche con i mezzi pubblici perché non siamo mica tutti automuniti!
Cortesemente, mi si spieghi: se non lavoro come faccio a permettermi il lusso di un’automobile? E se la supplenza è nel bel mezzo del nulla come ci arrivo? A dorso di mulo? Col deltaplano? Mi faccio paracadutare da un ultraleggero? E allora pronti, la mattina, con carta e penna, tabulati degli orari di autobus, treno ecc… come dei kamikaze con cartella.
E poi c’è il toto-supplenza: quante volte capita di accettare una supplenza di alcuni giorni per ricevere solo pochi secondi dopo, mentre si sta ancora zompettando felici per casa, una proposta di incarico per una maternità che ci avrebbe visti occupati per svariati mesi? A meno di non essere assistiti da una veggente ci si può solo affidare al fattore “C”, che spesso, nel mio caso, ahimè, latita.
Si viene così di volta in volta catapultati in realtà diversissime tra loro, si conoscono colleghi, alunni e varia umanità (genitori…) in un tourbillon rutilante di esperienze che, credetemi, nel bene e nel male, lasciano il segno.
È proprio di questi incontri, di queste esperienze che, all’insegna di una divertita leggerezza, voglio raccontare e chi cercasse disquisizioni su graduatorie, punteggi, aspetti contrattuali… beh, ha decisamente sbagliato libro.
Tuttavia esiste un paradosso di fondo che merita di essere considerato ed adeguatamente evidenziato anche in questo contesto: il nostro è un mestiere nel quale l’individuo, la persona, sia essa al di qua o al di là della famosa cattedra, è il fulcro, l’essenza stessa della “mission” insegnamento.
Ogni insegnante, con il suo corredo di conoscenza, inventiva, creatività, empatia, emotività (ma anche con le sue vagonate di pecche, sia chiaro) è un individuo unico ed irripetibile. Unici ed irripetibili sono anche gli alunni con cui si instaurano, va da sé, relazioni uniche ed irripetibili.
Il paradosso sta proprio in questa unicità che ho volutamente rimarcato: nonostante la centralità dell’individuo come persona a tutto tondo nella dinamica alunno-insegnante, quest’ultimo, è un dato di fatto, è solo un numero, una posizione in una graduatoria e quindi suscettibile, in qualsiasi momento, di spostamenti.
L’insegnante cioè è semplicemente sostituibile, intercambiabile, come un tagliaunghie, una pallina da ping pong, un salvaslip, un sottovaso…
Per il Sistema, insomma, uno vale l’altro, alla faccia della suddetta unicità e io, personalmente, trovo la cosa tristissima, demotivante e altamente svilente.
Tornando al libro, esso vuole testimoniare delle vicende, alcune delle quali a dir poco surreali e bislacche, che ho avuto modo di vivere da quando ho iniziato questa avventura, il tutto contrappuntato da doverose e impellenti riflessioni su me stessa e sulla mia vita, in un’alternanza di stati d’animo tipici di una persona inquieta, in evoluzione e decisamente irrisolta. E, spesso, molto spesso, confusa.
Caterina
QUESTIONE DI CREDIBILITÀ
“Non dimenticare mai che per trasmettere conoscenza devi essere credibile”, mi disse perentorio in un umido e lattiginoso pomeriggio di novembre il signor Mario G., stimato maestro ormai in pensione da anni, con il quale spesso amavo intrattenermi a parlare.
Ancora adesso che non c’è più continuo a chiedermi cosa direbbe lui del mio modo di rapportarmi con bambini e ragazzi e davanti alle inevitabili difficoltà mi sforzo di immaginare quali avrebbero potuto essere i suoi suggerimenti.
Certo, oggi più che di “trasmettere conoscenza” parliamo di “motivare” al suo raggiungimento, di stimolare la curiosità di chi ci viene affidato con la finalità di farne esprimere tutte le potenzialità ossia, per l’appunto, di “educarlo” (da e-ducere: tirare fuori), condurlo, guidarlo verso quell’altisonante, ultimo obiettivo che è la formazione dell’uomo e del cittadino.
Ma, al di là della terminologia utilizzata e di qualche leggera, ma opportuna, correzione di tiro dal punto di vista metodologico, il concetto che intendeva esprimere è chiarissimo.
Che tipo, il signor Mario. Nonostante fosse tenacemente e irrimediabilmente legato agli oggi anacronistici “leggere, scrivere e far di conto” (i “must” dei suoi tempi), in fatto di insegnamento la sapeva lunga e non perdeva occasione per raccontarmi le sue esperienze e darmi delle dritte. Mi vedeva forse un po’ scapestrata, posso capirlo, ma in fondo gli piacevo e per motivi a me del tutto ignoti e anche un tantino incomprensibili, mi stimava, lo percepivo distintamente, e la cosa mi inorgogliva non poco. Credibilità, dunque.
Ora, se è vero, com’è vero, che la credibilità si conquista sul campo, è altrettanto vero (giusto per scivolare con nonchalance dal serio al faceto) che un po’ di physique du role, e il look giusto, almeno inizialmente, non guastano.
Intendo dire che un tailleurino, capelli raccolti e occhialini in punta di naso “fanno tanto” insegnante e che, ou contraire, jeans sbiaditi e t-shirt o, (dipende dalle stagioni) maximaglia… hanno, diciamo così, un impatto meno “qualificante”.
Beh, io, si sarà intuito, non giro per le scuole vestita come “Miss Bon Ton”, anzi prediligo un abbigliamento sportivo-casual e non disdegno di farmi accompagnare nel mio peregrinare tra un plesso e l’altro da dei comodissimi anfibi. Mi danno sicurezza.
I capelli sono solitamente sciolti o con la coda di cavallo, trucco inesistente, eccezion fatta per l’ immancabile mascara. Tutto qui. Praticamente una studentessa.
A tal proposito, non posso dimenticare la mia conversazione, decisamente emblematica con l’autista del mio ennesimo “giro” in autobus sulla strada di casa.
Il tipo, evidentemente in vena di chiacchierare e, forse, con un filino di provoloneria, dopo le menate sul tempo e sul traffico mi chiese ammiccante:
– Ma dimmi, sei appena venuta via da scuola? – E io, iniziando a divertirmi, – Sì, ho appena finito. Una giornataccia… –
– Ah sì? Sei brava? A me, se posso permettermi, sembra di sì, hai una faccia sveglia. Vero che ho indovinato? –
– La ringrazio. Beh, diciamo che me la cavo… –
– Bene, bene… Ma… dimmi, che scuola frequenti? –
– Istituto tecnico industriale. –
– Però! Braavaa! E che classe fai? –
– Prima e seconda. –
– Co… come prima e seconda? Mi prendi in giro? – Brusco cambio di tono.
– No, ma che dice? Non mi permetterei mai… – (Che spasso!).
– E perché mi rispondi così? O sei in prima o sei in seconda, ti pare? – sbottò indispettito.
– Beh, no… in prima insegno Italiano, in seconda insegno Storia e Geografia. –
– Ah…! – gli uscì deglutendo rumorosamente – …allora… allora sei un’insegnante! Credimi, scusami… non l’avrei mai detto! –
Lo tranquillizzai e gli dissi che ero arrivata, che sarei scesa alla prossima.
– Certo, certo. Arrivederla! – fece lui ancora in evidente imbarazzo.
Incredibile, ora mi dava del “lei” ma fino a pochi minuti fa c’era mancato poco che mi offrisse un lecca-lecca!
Credibilità, quindi. Mannaggia… E vabbé. Se l’outfit mi rema contro significa che, come ho già detto, c’è solo un altro modo per conquistarmela: scendere in campo.
Venite con me?
LO CHAMPIGNON SUL MOCASSINO
In una tiepida domenica di maggio di parecchi anni fa mi accingevo a vivere un momento molto importante della mia vita.
Mi ci ero preparata diligentemente con mesi di catechismo, di incontri di preghiera ed ero in fremente attesa di quel momento: la mia prima Comunione.
L’evento era vissuto con trepidazione da tutta la famiglia, compreso uno stuolo di parenti che non perdevano occasione per ricordarmi quanto fosse importante e per chiedermi quanta emozione ciò mi procurasse.
E importante lo era davvero, non solo per l’aspetto spirituale e religioso ma anche perché, in effetti, si sarebbe trattato, in un certo senso, anche di una sorta di debutto in società, che mi avrebbe permesso, partecipando alla messa, di ricevere la Comunione proprio come gli adulti.
Oltre all’organizzazione, in un accogliente ristorantino di campagna, di un piccolo rinfresco che avrebbe seguito la cerimonia, mi aveva molto coinvolto la realizzazione della tunica bianca che avrei indossato quel giorno. La dovetti provare più volte e studiai, assieme alla sarta (l’adorabile zia Angela), quali passamanerie applicarvi cercando, nelle mercerie della zona, tra quelle più semplici e raffinate.
Dovetti purtroppo capitolare davanti al fatto che avrei indossato sul capo una coroncina, cosa di cui avrei fatto molto volentieri a meno, e anche la scelta dei fiorellini da intrecciarvi (tipologia e colore) ci tenne molto occupate. Ciò che però risultò molto più problematico del previsto fu l’acquisto delle scarpe. Inizialmente si pensò ad un paio di ballerine chiare ma non riuscimmo a trovare il mio numero… Andammo così alla ricerca anche fuori paese, nei centri più grossi ma senza alcun risultato, finché un pomeriggio, avvilite per l’ennesima ricerca andata a vuoto, decidemmo di tornare alla macchina e, fortuitamente, proprio vicino al parcheggio, ci imbattemmo in un negozietto di calzature situato sotto un portico basso e buio che non avevamo notato forse proprio per l’infelice ubicazione.
Tra scarpacce e pantofole a dir poco inguardabili esponeva, proprio al centro della vetrina, su un piedistallo rotante, un paio di mocassini bianchi. Io e le mie “consulenti d’immagine”, ossia mia mamma e mia zia, immediatamente ci guardammo e fu come se sulle nostre facce, si illuminasse un display con la scritta lampeggiante “Problema risolto!”.
Il fatto poi che ce ne fosse solo un paio, quello esposto, e che fosse proprio il mio numero, beh, fu interpretato da tutte come un inequivocabile segno del destino. E infatti, ho motivo di ritenere che si sia trattato dell’acquisto più rapido della storia.
Ero pronta. Mancavano solo tre giorni alla cerimonia e non stavo letteralmente nella pelle.
Arrivò finalmente la fatidica domenica e quella mattina mi svegliai col cuore in trepidazione; perfino la giornata, splendida, dopo due giorni di pioggia battente, pareva voler festeggiare con me l’evento.
I colori vividi della primavera e un leggera brezza che diffondeva ovunque il profumo dolce e intenso del glicine in fiore di cui era circondata la mia casa mi inebriavano, riempiendomi il cuore di emozione e tanta gioia, che facevo davvero fatica a contenere.
Arrivammo davanti alla chiesa con un buon anticipo; individuai subito il mio gruppetto di “Comunicandi”, mi unii a loro e con essi scesi nelle salette sotto la chiesa per raggiungere, come d’accordo, la nostra catechista: saremmo poi saliti in chiesa tutti insieme per la celebrazione.
Da un po’ di tempo il nostro parroco, per racimolare un po’ di denaro con cui far fronte alle numerose e ingenti spese vive della chiesa, si era uniformato ad altre parrocchie nell’abitudine di affittare alcune salette, a chi ne avesse fatto richiesta, per festeggiare liete ricorrenze.
Percorrendo il corridoio principale sottostante la chiesa vidi, per l’appunto, che dentro una di queste sale, e più precisamente quella intitolata a San Filippo Neri, si stava festeggiando un compleanno. Curiosa, e contando sul fatto che ero in anticipo, esitai un po’ sulla porta sbirciando, finché, dall’interno, sentii chiamare – Caterina!! Vieni! –
Riconobbi subito la mia adorata insegnante di nuoto: era il compleanno di suo figlio Luca, mio grande compagno di giochi in spiaggia.
E quella non era una festa di compleanno… era il Bengodi! Guardai languidamente quel buffet colmo di ogni ben di Dio: pizzette, vol-au-vent, torte salate, nonché numerosi vassoi pieni zeppi di tramezzini… soffici delizie iperfarcite per le quali, oggi come allora, nutro una smodata passione.
Era, inutile dirlo, un buffet sul quale, in una qualsiasi altra occasione mi sarei buttata con un doppio carpiato con avvitamento, dando il meglio di me quanto a voracità e a totale mancanza di ritegno.
Qualsiasi altra occasione, appunto. Ma non in questa, in cui stavo per ricevere la mia prima Eucarestia, motivo per cui era tassativamente proibito, prima di accogliere il Corpo del Signore sotto forma di particola, rendersi “impuri” introducendo nel corpo qualsiasi forma di cibo.
Fu una vera prova di volontà. Scherzai un po’ col giamburrasca del fratello maggiore di Luca, Andrea, che continuava a dirmi quanto, così vestita, assomigliassi ad una suora, poi salutai tutti e raggiunsi il mio gruppetto che, mentre io mettevo a dura prova la mia integrità spirituale di comunicanda, si era già raccolto intorno alla catechista per gli ultimi ragguagli prima di entrare in Chiesa. Poco dopo giunse il momento di salire e ci avviammo tutti, in fila indiana, tenendo tra le mani un lungo cero bianco. Appena entrati nella cattedrale, le possenti e vibranti note dell’organo crearono un’atmosfera solenne e pregna di emozione ed io capii che era finalmente giunto il momento tanto atteso. Chiusi un attimo gli occhi, in mistico raccoglimento poi, al segnale della catechista, lentamente, uno dopo l’altro, ci avviammo verso l’altare.
Camminavo assorta e compunta, guardando verso il celebrante, Don Teodoro che, a braccia aperte, sembrava volesse abbracciarci tutti, quando, complice l’andatura lenta e cadenzata, per un attimo, abbassai lo sguardo…
Fu in quel momento che notai con orrore una grossa macchia scura sopra i miei candidi mocassini, precisamente su quello di destra. Aguzzai la vista e riconobbi immediatamente in quella macchia una fetta di funghetto champignon. Incredula, inorridii.
Cercai poi di capire come caspita potesse essere successo, e ricordai: poco prima Andrea, alla festa di compleanno, per tentarmi, mi aveva quasi cacciato in bocca un tramezzino ed io con uno scatto della mano avevo allontanato dalla mia faccia quella succulenta meraviglia grondante maionese. Non c’era alcun dubbio: il funghetto doveva essere sgusciato fuori in quel momento, per andare a cadere proprio sul mio piede.
Provai un grande disagio e un forte imbarazzo e precipitai nello sconforto più nero. Quell’“incidente” poteva rovinare tutto! Improvvisamente mi sembrò che tutti, all’interno della chiesa, guardassero i miei piedi…; e poi, a ben pensarci, quel maledetto funghetto poteva rappresentare la prova di una colpa che, in realtà, (stoicamente) non avevo affatto commesso, ossia mangiare prima di ricevere l’Eucarestia.
Decisi che avrei dovuto liberarmene il più rapidamente possibile.
Dovevo ancora percorrere l’intera navata prima di raggiungere, a fianco dell’altare, la posizione che mi era stata assegnata, e questo spazio da percorrere divenne il campo dove si consumò la mia personalissima sfida contro l’inopportuno funghetto.
Camminando tentai in tutti i modi, ma inutilmente, di scrollarmelo di dosso ma, per qualche oscura ragione non si staccava: pareva si fosse letteralmente vulcanizzato sulla tomaia.
Tentai con dei calcetti secchi e rapidi… niente.
Riprovai con degli scrollamenti laterali degni del migliore Don Lurio… niente.
Insistetti cercando di staccarlo con la punta del piede sinistro, ovviamente compromettendo la regolarità della camminata… niente!! Non ne voleva proprio sapere di andarsene.
Non volevo credere che avrei ricevuto la prima Comunione della mia vita con uno champignon sulla scarpa!
Continuavo a pensare a quanto assurdamente dissacrante fosse quella situazione, all’apparente impossibilità di porvi rimedio e al fatto che tutto ciò stava inesorabilmente distogliendo la mia attenzione da quel momento così intenso e importante, unico nella mia vita.
La mia compagna Sara che, nella fila, si trovava subito dopo di me, vedendomi muovere come un burattino impazzito mi sussurrò – Caterina… che c’è? – Ed io ruotando leggermente il capo a sinistra le bofonchiai – Ma no… è il fungo… uffa! Non riesco… –
Sara, ovviamente, non capì e replicò con un laconico – … Boh… –
Arrivammo tutti all’altare, champignon compreso, e ci disponemmo, divisi in due gruppi, ai lati dello stesso. Quando venne il momento di sederci sulle panche, rivestite per l’occasione di raso e tulle bianco, un chierichetto passò a raccogliere i nostri ceri ed ebbi così, finalmente, le mani libere di provvedere ad una lesta rimozione.
Mi chinai furtivamente e colpii l’intruso col dito indice, come si fa con le biglie. Ma per quanto rapidamente mi fossi messa all’opera, i miei compagni si accorsero del fungo e del suo velocissimo volo radente sotto la panca e cominciarono a ridacchiare, prima sommessamente poi un po’ più rumorosamente, tanto che alcuni di loro furono preda di veri e propri singulti di riso, in un’excalation di ilarità che, infine, contagiò anche me.
Per farla breve, Don Teodoro fu costretto ad intervenire per richiamare i comunicandi dell’ala di destra ad una serietà e compostezza più consone al luogo e al momento.
Io mi sentii, ovviamente, responsabile di quanto stava accadendo e mi accinsi ad affrontare il resto della cerimonia con un po’ di amarezza che, fortunatamente andò sfumando man mano che ci si avvicinava al momento clue.
Quando fu il mio turno e mi trovai davanti all’ostia consacrata, Don Teodoro, con sguardo sornione, esitò un po’ prima di offrirmela, poi, dopo aver pronunciato la formula “Corpo di Cristo” a cui risposi come previsto dalla liturgia, mi si avvicinò e aggiunse sottovoce, in modo che sentissi solo io: – Buoni i tramezzini? –
Ora, al di là di come la cosa si sia risolta, grazie anche allo spirito di autentico buontempone del Don di cui sopra, romagnolo purosangue, rimane il fatto che io abbia deambulato in chiesa, il giorno della mia prima Comunione con un fungo sulla scarpa. Beh, trovo che quest’immagine sia l’esatto emblema della mia natura goffa, un po’ maldestra, in grado di calamitare su di me, e di farmi vivere, situazioni insolite, al limite del ridicolo e, talvolta, paradossali.
Un’immagine che mi rappresenta bene quindi in tutti gli ambiti della mia vita, quello famigliare, quello sentimentale e, oserei dire in modo particolare, quello lavorativo.
E, d’altronde, vuoi perché da mesi mi sentivo ripetere che il giorno della mia Prima Comunione sarei nata a nuova vita, vuoi perché da quel giorno niente sarebbe stato più come prima, fattostà che io inevitabilmente interpretai quel fatto, capitato, appunto, in quel giorno, come un segno, come la tonalità precisa su cui si sarebbe impostata l’intera sinfonia della mia vita. Una sorta di imprinting consapevole, insomma. E da come sono andate le cose dopo… beh, devo dire di averci preso.
E ricordo ancora perfettamente il momento in cui, individuato il prataiolo infingardo, mentre nella mia mente formulavo il primo di quella che sarebbe diventata una lunga, infinita serie di – Oddio… E ora cosa faccio? –, riuscii perfino a sorridere riflettendo sul fatto che il “La” della mia vita futura era appena stato fornito da… uno champignon. Uno champignon sul mocassino.
[continua]
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