Ogni riferimento a luoghi, persone e fatti
realmente accaduti è puramente casuale
Cenni storici
La città di Livorno nacque per volontà dei Medici che affidarono a Bernardo Buontalenti l’opera di costruire una “città ideale”, utopia urbanistica in voga durante il Rinascimento.
Le Leggi Livornine, promulgate con l’obiettivo di popolare la città costruita intorno al porto, garantivano la massima libertà, soprattutto di culto, e rifugio ai perseguitati, favorendo così l’immigrazione di commercianti spagnoli, arabi ed ebrei.
Da secoli la forza di Livorno è il suo importantissimo Porto Mercantile voluto da Cosimo I nel 1571, quando il Porto di Pisa s’insabbiò. Il grande argine a protezione delle strutture fu realizzato dall’inglese Robert Dudley, figlio dell’omonimo Signore di Leicester.
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Le presenze straniere che si susseguirono nel tempo a Livorno furono:
la Nazione Greco-Unita, la Nazione Armena, la Nazione Siro-Maronita, la Nazione Greca Orientale, la Nazione Inglese, la Nazione Olandese-Alemanna, la Nazione Francese, la Nazione Corsa, la Nazione Portoghese, la Nazione Ebrea.
Livorno è una città di passione politica. In questa città fu fondato il Partito Comunista d’Italia, scissione della corrente estrema, guidata da Bordiga e Gramsci del Partito Socialista, che si attestò su posizioni filosovietiche e rivoluzionarie.
Livorno ha dato i natali a personaggi importanti, come Giovanni Fattori, personalità di spicco dei Macchiaioli, Francesco Domenico Guerrazzi, nobile patriota mazziniano, Amedeo Modigliani, esempio tipico di artista maledetto e grande genio creativo e Pietro Mascagni, autore di opere liriche come la Cavalleria Rusticana, l’Amico Fritz ed altre ancora.
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Fra i poeti che hanno cantato Livorno troviamo anche:
- Francesco Petrarca nell’“itinerario siriaco”
- Dante Alighieri nella Divina Commedia – nel quinto canto del Purgatorio
- Hermann Hesse nell’“Odisseo (nei pressi di Livorno)”
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Introduzione
La data del 21 gennaio del 1921 è legata alla storia di Livorno, perché venne alla luce il Partito Comunista d’Italia nel Teatro “San Marco” che, come avrebbe detto anni dopo Umberto Terracini (Presidente dell’Assemblea Costituente), apparve come un luogo angusto, senza luce, privo di sedie e di panche, con le finestre senza vetri e il tetto sfondato.
I livornesi che hanno già superato il secolo di vita, si ricordano che ad un certo punto Afanasy Kuznetsov, un personaggio di spicco del PCUS, s’alzò in piedi, s’aggiustò il colbacco d’astrakan e fece solenne promessa che mai più i russi avrebbero mangiato bambini, nemmeno negli anni di carestia.
Fu allora che il giovane Cafiero, guastafeste e bastiancontrario, urlò: “Io non ci credo!”, e fu pestato a sangue da un uomo dalla forza micidiale ingaggiato dal KGB.
Nei verbali segreti dell’Assemblea sta scritto testualmente: “Le percosse sono state letali per Cafiero, il quale, prima di esalare l’ultimo respiro, ha detto fra i denti: “Sto morendo, ma continuo a non crederci!”
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Prima Parte
Il 21 agosto del 1921, sette mesi precisi precisi dalla nascita del Partito Comunista d’Italia, Mr. Willy Wilson uscì tutto pimpante con la sua sposina, ma fu investito da una vampata di calore pazzesco.
Non c’era che dire: ci aveva azzeccato il meteorologo Bernacca, il Generale dalla bocca larga. Aveva aggiunto, però, che niente sarebbe stato questo caldo a confronto di quello che avrebbe fatto l’agosto del 2012.
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Da molti anni Mr. Wilson, poeta, scrittore e Console Britannico a Livorno, aveva raggiunto la notorietà in Scozia per il suo verseggiare rozzo ma musicale, e ben presto era diventato un’icona negli ambienti culturali di Edimburgo, considerati i “Circoli degli Eletti”. Eppure, la cosa a cui egli teneva di più, era il bene che gli voleva la gente, specialmente quella dei paesini immersi nel marasma dei secoli, dove i malviventi rubavano di notte i figli avuti con le donne e poi li lasciavano in luoghi dimenticati da Dio.
Si può dire, senza il timore di essere smentiti, che tale affetto fosse ben riposto in Mr. Wilson, perché in fondo in fondo anche lui era un uomo semplice, che gli bastava un tocco di pane casereccio con su spalmata la famosa marmellata alle arance di Edimburgo.
Nei paesini intorno al fiume Tweed, dove le fanciulle perdevano malamente la verginità, si sparse la voce che il poeta fosse corto di cervello ma di lunga memoria. Per la sua Gladys, infatti, in due ore aveva mandato a memoria la parola “ti amo” in trenta lingue diverse, delle quali ne cito solo qualcuna: “al shite ru” in giapponese; “te iubesc” in rumeno; “seni seviyourum” in turco; “tangbghik” in marocco; “te deixo” in portoghese.
Willy era anche un gran sognatore. A volte la sua sposina gli diceva una cosa nemmeno tanto originale: “Tu sei fatto della stessa materia con cui sono fatti i tuoi sogni!”. Era vero, anche se questi si traducevano spesso in un infinito errare alla ricerca di un mondo migliore, almeno quel tanto di cui avrebbero beneficiato Aberdeen, Dundeen, Edimburgo, Glasgow e tutte le colline della Scozia.
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Di Gladys non c’è da dire un granché: era di pelle olivastra, aveva un naso affilato, grandi occhi a mandorla ed il cranio rotondo ricoperto di lunghissimi capelli cresputi, che Willy si divertiva a sbrogliare crine per crine, ad improfumare ed a pettinare, fino a che lei non diventava carina quanto basta per un Console. Sì, peccato che avesse tanta tristezza negli occhi che le sottraeva tanta luce.
Nell’alta società edimburghese si mormorava che fosse stata la sua fortuna l’aver trovato Willy Wilson come marito. È pur vero che all’epoca lui aveva trentacinque anni e perdeva già i capelli, nonostante che se li pettinasse con un pettine di rosmarino. Però aveva un bel viso dai tratti assai nobili.
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Nel marzo scorso ho fatto delle interviste nei paesini adagiati sulle rive del fiume Tay, ed ho saputo che in un mattino di nebbia fitta, Willy Wilson e Gladys Tompson avevano incrociato i loro destini con i sommessi segreti del loro passato. Tutto qui.
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Certo, erano in molti a sapere che Willy ricorreva a sostanze medicamentose che gli rallegrassero la vita, gli aumentassero la forza fisica, gli rinvigorissero il sesso e gli calmassero le crisi asmatiche. Quante volte, infatti, gli sentivano il respiro vasto, sassoso e la tosse breve ma aspra. Per non parlare di quando, per vincere ogni attacco d’asma, aspirava il fumo puzzolente di un mucchietto di polverina verde a cui aveva dato fuoco con uno svedese.
Seconda parte
Quel mattino, dunque, il Console camminava guardando lassù, dove al posto del cielo c’era una massa calda e nebulosa color piombo chiaro, sospesa a venti metri sulla sua testa. Era naturale, quindi, che del sole non ne vedesse nemmeno un quartino.
Non ricordo bene se quel giorno era il compleanno del Re d’Inghilterra, un certo Giorgio, ma ora non vorrei sbagliarmi.
Resta il fatto che nonostante che facesse caldo, il Console, in omaggio al sovrano, aveva indossato il kilt a quadri scozzesi rossi, neri e gialli, blusotto nero di panno, camicia bianca, cravattino, calzettoni con le nappine, berretto nero col nastro a quadrettini, uguali a quelli del kilt, scarpe invernali nere, ed una specie di borsello, con annessi e connessi, che gli ciondolava davanti, sull’addome.
E la sposina? Gladys era vestita pressappoco come Willy, mostrando le ginocchia assai carine a vedersi.
Ecco: così bardati, i due formavano una coppia bene assortita, comunque la più eccentrica di Piazza Roma, famosa per i suoi pampini sempre in fiore.
Terza parte
Salito sul tram n. 6, Willy non riuscì a vedere niente d’interessante dal finestrino, assorbito com’era dal ricordo del giorno prima.
Al mattino aveva iniziato il giro della città in una carrozza scoperta, partendo da Piazza Vittorio Emanuele, famosa non tanto per essere una delle più vaste piazze d’Italia, quanto per il Duomo dalla facciata stupenda, disegnato da Inigo Jones, il più grande architetto inglese.
Appena entrato nella Cattedrale, fra le colonne di marmo rosa del Portogallo, aveva avuto il piacere (e la soddisfazione) di ascoltare per la prima volta Dio, per quanto non avesse mai creduto in Lui. Già, perché il destino aveva voluto che il Dio di Livorno lo vedesse lì, solo soletto, e gli dicesse all’orecchio: “Willy mio, se non ami più Gladys, dille per sempre addio, e fatti prete! Non importa se tu non credi in me. L’essenziale non è che tu creda, ma che io continui a credere in te!”
Willy era rimasto di stucco perché non era mai successo che il Dio della Scozia gli avesse detto queste cose. Come fu o come non fu, le parole di questo Dio scavarono nella sua mente come un tarlo, ma siccome fuori l’attendeva la carrozza, decise di approfondire la cosa l’indomani. Dunque uscì nella Piazza per ammirare con gli altri Consoli, il monumento a Vittorio Emanuele II, le palme, le fontane con zampilli che fuoriuscivano a suon di musica, i piccioni, i colombi, le colombe, le nane mute, le pavoncelle ed i pavoni con la ruota che gironzolavano con aria superba nei giardini tutti in fiore. Dopodiché, aveva raggiunto la grande Piazza Carlo Alberto con le due statue altissime, il Cisternino, il Cisternone (con le sue otto colone doriche sormontate da un bel nicchione), e le meravigliose Terme, chiamate “Le Acque della Salute”, seminascoste fra le palme nane, i pini altissimi ed i giardini tappezzati da ciuffi di rose canine bianche e rosa.
Infine aveva raggiunto il “Rione Venezia”. Poi, con gli altri undici Consoli, era salito su un bel barcone a remi che, solcando le acque del Fosso Reale, aveva attraversato la parte più antica della città, con a bordo dieci rematori, ovvero, i mitici “risi’ atori”, e il timoniere che da poppa aveva cantato molti stornelli livornesi, di cui uno faceva così:
Nel porto di Livorno non c’è più pesci,
cosa m’importa bimba se mi lasci,
cosa m’importa bimba se mi lasci
ecc. ecc. ecc.
Dopo il tramonto gli undici consoli avevano preso d’assalto la trattoria “Da Mario”, per abbuffarsi con i piatti tipici livornesi, come:
riso nero, minestra sul pesce, zuppa del Seghetti,
cacciucco alla livornese, triglie alla livornese,
datteri ripieni d’Artemisia, acciughe fritte, stoccafisso e baccalà in agro dolce.
Il tutto era stato annaffiato col vino d’annata del Chianti.
Per digerire presto e bene, sei consoli su undici, avevano bevuto il “ponce del Civili”, che è a base di rum, caffè bollente e scorza di limone. E siccome Willy era rimasto con la fame, il mitico Mario gli aveva portato:
due bomboloni (frati) (ciambelle) ripieni di crema,
del toppone (castagnaccio) con noci e zibibbo,
con su spalmata la ricotta briaa,
ed infine, la torta di ceci col pan francese.
Come bevanda, una bottiglia di vino squisito “Aleatico” dell’Elba.
Uscito dalla trattoria, Willy si era soffermato mentalmente sulle Cose dello Spirito, ed aveva pensato che smettere ora di credere in Dio, avrebbe causato una cicatrice incancellabile là, dove c’era stata la Fede al mattino. Fu allora che per la prima volta lo videro farsi un gran Segno della Croce.
Dopo un po’ era stato avvicinato dal Console di Francia, Mademoiselle Sandrine Fontainbleau (segretamente innamorata di lui), che gli aveva sussurrato: “Perché, mon cher, non andiamo a vedere il cambio della guardia dei fantasmi delle sentinelle francesi sulla Fortezza vecchia? Vedrai, sarà una cosa istruttiva e divertente! Cosa ne dici, bello?”
“Pourquoi pas!?” le rispose lui. Intanto aveva osservata meglio l’amica parigina perché sotto l’effetto dell’Aleatico, s’era toccata il seno e le labbra in un modo da far sembrare che volesse convivere con tutte le potenze dell’amore libero proprio lì, nella trattoria. “Ma forse mi sbaglio” si disse quasi subito.
Prima di uscir fuori, la francesina tutto pepe aveva salutato i Consoli con la stessa frase di commiato: “Bonne nuit, et …je suis heureuse d’avoir fait Votre connaissance!”
“Una cosa è certa – si era detto poi Willy – Sandrine non somiglia certo alla mia Gladys, perché appena io la tocco nel bel mezzo della notte, lei mi dice sempre: «Ma cosa ti prende, Willy? Via, lasciami, che sto pregando!»”
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I due s’erano già avviati verso le due Fortezze, quando lei se n’era venuta fuori con una frase che le piaceva tanto: “J’aime la France, mais j’aime aussi Livourne, avec le soleil que brille toujours sur la ville”. Poi, rivolgendosi a lui, gli aveva detto con enfasi: “Je me félicité pour Votre dernier plaquette (piccola pubblicazione), mon cher Willy”.
Dopodiché, Sandrine aveva ripreso a parlare in italiano, dicendogli con voce melata: “Sappi, mio Willy, che io ripeto sempre la lettura delle tue opere per movimento di ammirazione. Così, rileggendo il racconto «Casablanca», ho rilevato che tu cogli con bravura e raffinatezza il fascino di un’atmosfera sia naturale che sentimentale, non senza elargire una visione charmeuse-incantatrice, attraverso il tuo supporto «vissuto», il tuo dire, il tuo «dé jà-vu» evocatore.
Cosa dirti di più, mio Willy? Ah!, ecco: voglia il Signore che tu continui a sfaccettare in versi i miraggi, perché l’infrangersi dei miraggi scatena uragani sulla Terra Lo sapevi mio caro?”
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Chissà per quanto tempo i due Consoli avrebbero parlato di poesia, se non fosse stato che insieme al vento di libeccio, stesse cadendo giù una pioggerella fitta e molto strana, simile a (come disse quel poeta?) “singhiozzi di violino in autunno”. Sandrine, quindi, salutò Willy come i militari salutano i loro superiori, portando la mano destra alla fronte, sopra gli occhi. Un gesto questo, che sta a significare non solo il rispetto dell’altrui onore, ma anche: “La tua luce mi abbaglia!”
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[continua]