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In copertina: fotografie dell’autore
PREFAZIONE
“Dicono che l’amore non ha confini e, se è vero, allora ti raggiungerò ovunque, perché, in verità, ti ho già raggiunto.”
In questa frase c’è tutta la filosofia che permea il romanzo “Marina, ti racconto”, di Maurizio Bonaldo, una testimonianza di vita e d’amore che l’autore scrive come regalo per i diciott’anni di Marina, figlia adottiva tanto amata e desiderata. L’amore può affrontare qualsiasi difficoltà della vita e dà la forza e la determinazione per giungere alla gioia piena.
L’amore, quindi, in tutte le sue sfaccettature, è il tema ricorrente del libro, assieme a frammenti di vita quotidiana, icastiche descrizioni della natura, precisi ricordi dell’adolescenza e delle persone amate, ansia di raggiungere un sogno a lungo vagheggiato.
Ed è proprio attraverso la descrizione di un mondo tratteggiato con realismo e concretezza, apparentemente semplice ma ricco di appartenenza, familiarità e sentimenti profondi, che l’autore offre alla figlia quasi una lente attraverso cui osservare il mondo e la sua realtà pulsante e vissuta intimamente.
Quando la vita non ci sospinge più nelle chine affannose delle incombenze quotidiane, quando il ritmo rallenta e si può sostare per osservare il mondo intorno a noi e quello interiore, allora è il momento in cui più prepotenti ed esplicite premono le necessità dell’anima. E allora arriva l’istante giusto per un colloquio con l’anima, che restituisce un senso all’esistenza e al correre degli anni trascorsi. È il momento dei consuntivi, ma anche della soddisfazione per quanto fatto, per quanto vissuto e per tutto quello che la vita ha dato. E allora si riavvolgono i giri delle lancette e si fa di nuovo scorrere il film della vita trascorsa, guardandolo attraverso la lente del ricordo. “Le beate stagioni di mezzo appartengono all’anima”, si suol dire; e proprio dell’anima si occupa questo libro, non con astrazioni introspettive e precostituite, ma quasi con un lirismo a metà fra sfogo e scavo interiore, quello che Pavese definiva: “sfogo interiore”.
È certamente impossibile separare la vita vissuta da quella sognata. Perciò il ricordo resta l’unico mezzo di confronto valido, l’unico presupposto irrinunciabile per giudicare la realtà.
Ovviamente ricordare non vuol dire solo non dimenticare, vuol dire anche ancorare il ricordo a qualche azione concreta.
Ed è ciò che fa Bonaldo con questo libro. La scrittura è, d’altronde, lo strumento d’elezione per penetrare nelle profondità dell’anima. Da sempre è servita per riflettere attraverso la trasfigurazione fantastica delle parole che evocano immagini. Da sempre è il mezzo più diretto, più vero e più intimo per scandagliare la propria interiorità e riflettere su di sé.
Ed è proprio quel che si percepisce in questi frammenti di pensieri, strappati ai quotidiani affanni ricorrenti.
Ogni pagina è quasi un racconto o il fotogramma di un momento, spiragli importanti per affrontare l’universo umano dell’autore, che rimarrà sempre centrale nelle storie raccontate, che non risultano però mai pedanti, perché sono sempre pervase da sorniona ironia, da un “non prendersi troppo sul serio”, da un sorriso schivo e un po’ monello, che rende anche le pagine più struggenti lievi e garbate.
L’impostazione, sempre ironica, antiretorica e antieroica, è semplice e diretta. Ogni momento è pervaso da un’attenzione, volutamente dimessa, rivolta alla quotidianità. Una quotidianità insistente, che sembra intridere l’animo dell’autore, ammorbidendo e addolcendo anche dispiaceri. Una realtà privata, venata a volte di una sottile malinconia, ma soprattutto della consapevolezza dell’importanza dell’amore vero dato e ricevuto. Il tempo della giovinezza ricorre insistente, in modo affettuoso. Si vede tutta la vita in filigrana, i dolori, le gioie, ma anche la capacità di vivere l’esistenza senza drammi e senza forzature: accettandola anche quando non va come dovrebbe. Ne emerge un quieto senso di abbandono, screziato da sprazzi di entusiasmo anche quando scivola rapido nel ricordo.
La vita famigliare è trattata con semplicità affettuosa e spesso ironica. La celebrazione del quotidiano non impedisce all’autore di esprimere confessioni autobiografiche, che mascherano un sereno sentimento dell’ineluttabilità degli accadimenti della vita
Spesso le pagine del libro sono una carrellata di tasselli del passato, che si presentano alla mente e al cuore dello scrittore in modo vivo, commosso, in cui si sente il desiderio e l’esigenza di riportare alla ribalta dell’esistenza alcuni personaggi amati e ammirati, nell’eterno fluire del tempo che spesso travolge e disperde.
L’aspetto del tempo, con tutto il suo carico di valori, è indubbiamente uno degli elementi fondamentali del libro, diventa voce sicura ed efficace, armoniosa, ricca di sonorità, articolata in frasi di pacata e distesa misura, che si dilata e si sviluppa sui tre piani possibili: il presente dell’incontro, il passato dell’autobiografia, il futuro, convergente verso un punto luminoso, la speranza. Il tempo del passato e quello del presente si annodano inestricabilmente in un susseguirsi di evocazioni fatte di ripensamenti e di gioia, come quando il ricordo di ciò che è stato bello riaffiora all’improvviso e si palesa come una possibilità del tutto inevasa, fino ad allora imprevista e forse imprevedibile. E perciò, quando ciò avviene, molti avvenimenti del passato vengono raccontati con tempi verbali del presente. A scandire il tempo sono rituali quotidiani, scene di vita vissuta, semplici oggetti immortalati nella loro materia inanimata. Eppure queste scene di vita non sono solo semplice quotidianità, sono anche altro, sono molto di più: alludono e sottintendono i veri valori della vita, richiamano quasi rituali arcaici, facendo risaltare ancora di più l’impalpabilità dei sogni, l’indefinitezza delle visioni. È la vita che irrompe nella poesia.
I sentimenti e le emozioni sono scolpiti tutti e attraversati da stati d’animo di diversa intensità, dove l’alternarsi della gioia, della felicità, dell’inquietudine dell’attesa, della paura, dei sogni colorano il proprio vivere e sentire.
La natura ci pare riflessa quasi in uno specchio, dall’intimo e nell’intimo, sorgente da “dentro” proprio nel momento in cui viene contemplata per essere restituita alla pagina.
Luoghi noti rivivono e rifioriscono in parole fatte di realtà e di sogni; si rinnovano nell’immaginazione e si trasformano in luoghi sempre presenti, sempre inconfondibilmente felici, posti, in cui disseminare frantumi di ricordi e di realtà odierna. A prevalere è sempre un atteggiamento di gioia e di positività esuberante, che porta l’autore nella condizione di affrontare con coraggio anche le situazioni difficili della vita, per la fiducia che le attese saranno soddisfatte e saranno piene e complete.
Leggendo il libro di Bonaldo, sembra di sfogliare un registro di pensosità sulla vita, sul finalismo dell’essere, condito con il sale di una filosofia efficace nel sostanziare e raccordare suggestioni arcane con altre notoriamente manifeste, dai dubbi alla ricerca di verità incontestabili, da un razionale approccio a meditazioni esistenziali a realtà più concrete, senza ombra di spaccature diaframmatiche tra visibile e invisibile, transeunte e perpetuo, finito e infinito, in cui si potrebbe evidenziare una certa abilità nell’unificare il battito meccanico del tempo cronologico con la categoria del tempo metafisico.
Una sintonia che va oltre la profondità dell’investigarsi su problematiche esistenziali.
Le pulsioni del sentimento e della ragione, coesistendo osmoticamente, si integrano ed armonizzano nella significazione esistenziale, che si dipana come esperienza di un vissuto reale.
Capita, a volte, di perdersi in un sogno e sperare che sia quello giusto. E le pagine, che compongono questo libro, infatti, inciampano nei sogni, nei ricordi e s’impreziosiscono di slanci, di sensazioni, di relazioni fondate e fondanti la persona, alla ricerca di mete soddisfacenti: immagini e pensieri che corrono veloci, sensazioni e ricordi, che, riemergendo da un passato non troppo remoto, pervadono i pensieri dello scrittore, proprio come in un sogno ad occhi aperti. Ecco, allora, che i pensieri vagano, passando dai pensieri dedicati a persone importanti alle riflessioni sul senso della vita, con giochi di luci e ombre, con l’attenzione dedicata a dettagli, che riescono a rendere accattivante anche una fiammella, una goccia d’acqua, un piatto di spaghetti…
La narrazione procede quasi a scatti, a volte cambia bruscamente, lasciando spazio a suggestivi silenzi o frantumandosi in una moltitudine di piccoli episodi, veloci pennellate, brandelli d’immagini, che potrebbero sembrare non funzionali alla narrazione, ma che, in realtà, sono indispensabili alla descrizione della storia e al delineamento delle caratteristiche dell’io narrante, che è l’autore stesso. Domina la poetica del frammento, con repentini cambi di prospettiva e inattesi accostamenti di primi piani e campi lunghi, dettagli e panoramiche, come in un montaggio cinematografico.
Intessuto in egual misura di realtà e immaginazione, quello di Bonaldo è uno spazio quasi lirico, vissuto in prima persona e descritto mediante la lente dell’autobiografia e dell’esperienza individuale.
Nondimeno in questo libro compare anche la storia, mai raccontata in maniera diretta, ma filtrata attraverso il punto di vista dell’autore o di altri personaggi, che d’un tratto prendono la parola per rievocare situazioni, immagini, cicatrici del passato (come la caduta del muro di Berlino). Più che Storia è un’eco distante di Storia. È un racconto incompleto, un resoconto volutamente frammentario, perché, come afferma lo stesso protagonista, lui è solo “una parte di questa storia”.
Nella descrizione della Russia Bonaldo ci restituisce tutta la complessità e l’incanto di un mondo apparentemente semplice, ma sfuggente, quasi ambiguo: un mondo dal fascino arcano, presentato attraverso la sua materica esteriorità, i colori della natura, i problemi e la prosa della vita quotidiana.
Scalfendone la superficie, scavando sotto le apparenze, l’autore riesce a mostrarci i suoi infiniti misteri…
Questo romanzo lascia cogliere molte aperture di un autobiografismo sentito quasi come lettura della memoria e come esplorazione dell’anima che scopre o cerca di scoprire se stessa e ripercorre sentieri, in cui riemergono in superficie chiare visioni del passato, assieme a sorrisi, passioni, intense emozioni: un insieme di sentimenti, quasi “voci, visioni”, stratificate nella memoria, che recuperano vita “proiettandosi fuori dal proprio spazio e dal proprio tempo”, parlano del passato come presente, attraverso la trasposizione in un altrove raffigurato nella sua a-temporalità, e invitano all’interrogazione sul senso dell’umanità, della storia, della vita. La memoria ha un ruolo aggregante di immagini e sensazioni, con uno sfondo non solo contingente, bensì cosmico.
Uno degli elementi più ricorrenti del romanzo è la necessità di identificarsi in un mondo sempre più effimero, è la ricerca di rassicurarsi in istantanee omologazioni, che dà origine a un altro bisogno: quello della presenza. La non-presenza è esserci senza rimanere, percorrere senza lasciare tracce, comunicare senza influenzare.
Il messaggio più alto e originale di questo libro è che la gioia nasce dal raggiungere l’unità, dal non frammentarsi, ma anche dal voler sopravvivere, adattandosi alla Vita e al Mondo, che ci costringono a dare valore alle cose, persino al nostro stesso dolore, comprendendo e crescendo, anche in uno spazio (buio), ma di un buio necessario.
Si tratta non di un sapere, ma di un credere e di un immaginare (di un leopardiano “fingersi”, in fondo), che affascina, in quella sospensione-interruzione del senso, di un’uscita dal sapere, una ricercata inconsapevolezza, che ha la sua origine nella particolare, sofferta coscienza dell’oscuro e del mistero, in una singolare prospettiva emotiva e mentale, che rinvia a una sapienza di tipo gnomico.
Quel che ne deriva è una forma di saggezza “naturale”, quella saggezza propria di chi ha percorso i luoghi del dubbio e del perturbante e ancora ne conserva la particolare luce, stupefatta e stregata.
C’è uno spirito particolare, infatti, quasi un folletto geniale, che anima il romanzo e il suo tono; qualcosa di decisivo e insieme sfuggente, segreto e imprevedibile, ma sempre gioioso.
Quel che conta, alla fine, è potere e volere apprezzare quel che resta di qualcosa che è passato per vivere nel presente e continuare a sperare nel futuro… Ma è anche volerlo fare apprezzare agli altri attraverso un racconto sincero – quasi un diario –; e soprattutto a Marina, a cui racconta…
Emilia Fragomeni
RINGRAZIAMENTI
Il primo ringraziamento va a Marina grazie alla quale ho avuto l’occasione di misurarmi come padre e come scrittore in erba.
Vorrei ringraziare poi la mia cara mogliettina Antonella, inconsapevole ispiratrice, per avermi aiutato in questo mio lavoro. In primis per avermi aiutato a ricordare gli eventi successi tanti anni fa e che la mia memoria ha relegato in qualche angolo buio, e secundi per essersi improvvisata correttore di bozze.
Ma la vera correttrice di bozze, che con una pazienza da frate certosino e dietro il solo compenso della soddisfazione di aiutare uno scrittore in erba, ha aggiustato il testo, è stata l’amica Emilia Fragomeni. Emilia, poetessa e romanziera affermata e compaesana di Antonella, calabrese di nascita ma genovese di adozione, si è anche offerta per scrivere una prefazione e io, con immenso piacere, ho accettato.
Un ringraziamento di cuore anche agli amici di un tempo, che mi hanno dato il permesso di usare i loro veri nomi di battesimo.
Ovviamente non potrei dimenticare di ringraziare tutte quelle persone che hanno reso possibile l’adozione di Marina.
And last but not least, vorrei ringraziare me stesso per aver avuto il coraggio di affrontare questa impresa. Troppo spesso avevo ragionato come se la vita fosse infinita, come se si potesse rimandare sempre a domani. «Mi manca il tempo.» mi ripetevo. «Mamma mia, il tempo è come se scappasse, tento di rincorrerlo, ma quello corre più veloce.» Ma ora ho capito che il tempo bisogna viverlo in toto, ogni giorno come se fosse l’ultimo, senza rimandare nulla al DOMANI.
Marina, ti racconto
A Marishka
Marinochka
Marina
Da un padre e una madre
che tanto l’hanno desiderata
…per non dimenticare
A Marcello.
Il ricordo di te vivrà per
sempre nei nostri cuori,
più forte di qualsiasi abbraccio,
più importante di qualsiasi parola.
Anche la vita più insipida, più scialba e più
insignificante per chi la vive rappresenta comunque
una straordinaria avventura.
Mauri
Introduzione
Maurizio ha diciotto anni quando conosce Antonella, di un anno più giovane e da poco emigrata dal sud d’Italia a Verona con la numerosa e particolare famiglia. La diversità di cultura tra nord e sud, pur opponendo degli ostacoli, non riuscirà a rompere quel forte legame d’amore che attraverso un ventennio si consoliderà e li porterà ad adottare la figlia Marina. Questo fortissimo legame sentimentale, che Maurizio e Antonella instaurano fin dal primo incontro, passa indenne attraverso gli anni difficili della scuola, della maturità, del servizio militare e delle prime esperienze lavorative. Le emozioni provate con le prime esperienze sessuali e la convinzione di essersi donata alla persona giusta, daranno a lei la forza per superare qualsiasi ostacolo, a cominciare dall’ottusità del padre e dalle paure di rimanere precocemente madre. Le difficoltà trovano la loro massima espressione quando la tanto desiderata maternità e l’altrettanto desiderata paternità dovranno superare le avversità poste come degli invalicabili ostacoli dal fato, travestito da genetica. I viaggi della speranza all’ospedale Sant’Orsola-Malpighi di Bologna, specializzato nelle patologie legate alla fertilità, i tentativi d’inseminazione, le proposte d’inseminazione eterologa, scartate con convinzione, porteranno Maurizio e Antonella a prendere la decisione della vita: l’adozione. Questo costerà loro un grande impegno economico e una grande forza per superare le lungaggini burocratiche. Ma non ci sono solo difficoltà e ostacoli a condire la vita della coppia; arrivano anche le soddisfazioni per i successi sportivi dell’anno dello scudetto vinto dall’Hellas Verona, la gioia per i grandi viaggi, specialmente quello straordinario vissuto nel 1994 nell’est del Canada, viaggiando da soli. La soddisfazione più grande arriva dal viaggio in Russia nel dicembre del 1995, assieme ad altre due coppie con gli stessi problemi di fertilità, dove Maurizio ed Antonella partiranno in due e torneranno in tre. A Rostov Sul Don conosceranno la loro figlia adottiva, Marina, di undici mesi, e in quel mese di permanenza in quella fredda terra prenderà forma un diario che sarà la testimonianza di questo lungo viaggio della speranza durato per ben tre anni.
“Marina, ti Racconto” è tutto questo, è un romanzo autobiografico, una dolce testimonianza della storia della sua famiglia, che lo scrittore vuole lasciare in eredità alla figlia adottiva Marina, affinché ne conservi per sempre un ricordo indelebile.
1 – L’AMORE TI COGLIE DI SORPRESA
Percorrere la vita è un po’ come percorrere una salita, bisogna pedalare metro dopo metro. Un bell’impegno. Dopo la salita, però, si intravede la discesa; allora pedalare diventa più semplice.
Mi chiamo Maurizio, per gli amici Mauri, ho diciotto anni, un metro e ottantuno, ottanta chili di solidi muscoli, capelli castani, occhi marroni… insomma un bel ragazzone con tanta voglia di vivere. Da piccolo ho fatto il chierichetto e ho pure cantato nel coro della chiesa, ma poi sono rinsavito e sono tornato sulla strada, la mia scuola, la scuola migliore del mondo. Vivo appena dentro le mura di Verona, che tutti chiamano la piccola Roma, nel quartiere di Veronetta, con i genitori e con mio fratello Eligio, che tra non molto metterà l’anello al dito e se ne andrà da casa, lasciando finalmente la camera tutta per me. A Verona ci sono pure nato, proprio nel centro storico, al numero 25 di via San Vitale, terzo piano. Una casa di ringhiera, dove tutti si conoscevano e dove tutti si facevano i cazzi degli altri.
Sono un veronese DOC. Verona è una città che mostra tutte le sue rughe con orgoglio, che trasuda storia da tutti i pori, reale e inventata, come quella di Giulietta e Romeo, che il geniale Shakespeare ci regalò alla fine del 1500 e che, assieme alla stagione lirica all’Arena, attira migliaia e migliaia di turisti tutto l’anno. La città è solcata dal fiume Adige, che scorre serpeggiando tra tutta questa storia che ha visto nascere, morire e rinascere per millenni.
Frequento, con profitto, il quarto anno all’Istituto Tecnico Galileo Ferraris. Sì, lo so, essendo nato in dicembre e avendo iniziato la scuola a cinque anni, dovrei già essere al quinto anno, ma il primo anno me lo sono letteralmente giocato a biliardo, collezionando più giorni di assenza rispetto a quelli di presenza. Un po’ di merito, se così lo vogliamo chiamare, è stato anche del mio carissimo amico Claudio, che frequenta, senza profitto, il liceo artistico. Durante il primo anno, quasi ogni mattina, me lo trovavo in sella al suo motorino davanti alla mia scuola che pronunciava con un sorriso da briccone, la fatidica frase, «Non avrai mica intenzione di entrare, vero? Al big bang c’è sicuramente un biliardo libero che ci aspetta.» Io, che quando si tratta di divertirsi tra amici, sono più debole di un drogato, ipnotizzato e in crisi di astinenza, saltavo in sella senza opporre la minima resistenza. Verdetto inequivocabile. Bocciato. In compenso devo dire che la lezione è servita, da allora sono sempre stato promosso a giugno con delle pagelle di tutto rispetto e così intendo proseguire fino alla maturità. Nel contempo sono anche diventato un ottimo giocatore di biliardo.
Ma ci sono pomeriggi che… voglia di studiare saltami addosso.
È un periodo in cui l’amore mi deve aver abbandonato e, quando l’amore viene a mancare, una parte dell’anima se ne va. Ma, forse ispirato proprio dalle parole di quel William che regalò la storia d’amore a Verona ‘Amore corre verso amore, così come gli scolari lasciano i loro libri…’, decido di andare incontro all’amore. Chiudo i libri e, riposti penne e quaderni, decido di uscire.
Il termometro segna meno uno. Allora mi rifugio al Bar Sport, così impropriamente chiamato perché gli avventori di sportivo hanno ben poco, a meno di non definire sport il biliardo e il gioco delle carte. Però, se può contare, moltissimi di loro hanno l’abbonamento allo stadio per vedere e tifare l’Hellas Verona. Siamo nell’Anno Domini 1976 e la legge sul divieto di fumo negli ambienti pubblici purtroppo è ancora di là da venire. Il fumo è così fitto e denso che sembra di essere nella bassa del Polesine, quando la nebbia vuol mostrarsi in tutta la sua magnificenza. Allora dopo una mezz’ora di apnea, prima di raggiungere la saturazione tossica, esco a riprendere fiato e vedo lei, disinvolta, sorridente. Un sogno. Ma chi è quello schianto di ragazza vicino al cancello della chiesa? Magra, lato A ragguardevole, lato B da urlo, capelli biondi, lunghi fino alle natiche, lisci, che fanno da cornice a un viso espressivo, un sorriso che, come quello di Medusa, ti lascia di pietra. Dove ti eri nascosta fino ad ora? Come mai non ti avevo notata prima?
Quell’apparizione mi aveva colpito come un fulmine che scocca senza sentirne il tuono, senza che il mondo intorno a me se ne accorgesse. Globuli bianchi, globuli rossi e piastrine rotolavano su e giù nel mio plasma come perfette palle di biliardo sul liscio panno.
«Senti, Marco, ma tu che frequenti la parrocchia, la conosci, vero? Come si chiama, dove abita?»
Marco è un carissimo amico, ci conosciamo fin dai tempi delle scuole elementari. Capelli neri e sopracciglia folte, tratti ereditati dal papà campano. Ha un sorriso che conquista e una grandissima propensione a socializzare, forse è proprio questo che ci ha uniti. Tra me e Marco non ci sono segreti.
«Calmati, sembra che tu abbia visto la madonna di Fatima. Sì, la conosco! Si chiama Antonella, anzi, per la verità, mi ha raccontato che si chiama Antonietta, come la sua bisnonna, ma tutti l’hanno sempre chiamata Antonella fin da piccola e lei preferisce che la chiamino così. Viene dalla Calabria e non l’hai mai vista perché è arrivata a Verona da poco. Abita qui, vicino alla chiesa.»
«Devi assolutamente presentarmela! Non fare lo stronzo, fammela incontrare!»
«Ok, cosa ti succede? Fatti una doccia fredda, caro mio! Ora non ho tempo, devo andare all’allenamento, magari uno di questi giorni te la presento.»
«D’accordo, ci conto. Magari domani potremmo andare direttamente a trovarla a casa sua, così la invito per la festa di fine anno. Cosa dici, è una buona idea?»
«Potrebbe essere una buona idea. Domani ci vediamo qui al bar verso le sei del pomeriggio e poi andiamo.»
Ecco cosa capita, rimanendo fuori dal bar a cazzeggiare anziché stare a casa a studiare. Queste cose mica te le insegnano i libri!
Mamma mia! Quanta voglia ho di conoscere questa Antonella.
Ora dovevo capire se ascoltare completamente quello che mi dettava il cuore o se dare ascolto al raziocinio che mi frullava in testa.
Trascinandomi speranzoso verso casa, alcune domande si insinuarono nella mia testa. ‘Ma una persona è veramente libera di scegliere, oppure è vittima di una scelta altrui?’
Vedevo me come Adamo e Antonella come il frutto proibito e continuavo a chiedermi: ‘Ma Adamo avrà scelto di mangiare la mela oppure sarà stato il serpente a scegliere per lui? O forse sarà stato solo un disegno dell’onnipotente?’
Una cosa era certa, domande come queste per un ateo probabilista erano fuori luogo. Così varcai il portone di casa, sgombrando la mente da inutili foschie.
2 – HO VOLUTO CONOSCERE TUA MADRE
Avevo sempre avuto la tendenza a non forzare gli eventi, lasciavo sempre che le situazioni capitassero per conto loro. Non ero una persona che afferrava le occasioni al volo, più che altro mi facevo catturare dalle occasioni.
A volte lasciavo addirittura che il treno mi passasse davanti senza afferrarlo, me lo facevo scivolare via e stavo a guardare quasi compiaciuto della mia lenta debolezza.
Questa volta sentivo che sarebbe stato diverso, questa volta su quel treno ci volevo salire, anche se fosse sfrecciato a tutta velocità!
Giubbotto di pelle, maglione bordeaux, jeans, scarpe barrows e sorriso alla Duchenne, perfetto, non manca nulla.
Siamo davanti al 48 di via Carducci, il portone è aperto, saliamo al secondo piano. Un doppio squillo di campanello, dopo qualche istante la porta si apre e la Venere della Calabria appare in tutto il suo splendore. Anche se non ha l’aureola, la prima impressione è paralizzante. Ne ho conosciute di ragazze, e non solo platonicamente, ma l’effetto provocato da questa apparizione è nuova, esaltante. Forse è presto per dirlo, ma dal battito accelerato e dagli ormoni in tumulto, credo di essere vittima di quello che si chiama AMORE A PRIMA VISTA.
I capelli sono biondi, stirati e lunghi, gli occhi sembrano quelli di un cerbiatto, le labbra sono una morbida calamita per i baci, il ventre piatto, come la pianura padana, annuncia le Prealpi che si ergono marmoree e la schiena termina dove iniziano le armoniose colline delle Torricelle.
Non è molto alta, forse un metro e sessanta o poco più, ma le cose sono tutte perfettamente in armonia e al loro posto.
Per fortuna che mi sono fatto accompagnare da Marco e che ora spero dirà qualcosa, perché io sono letteralmente paralizzato. “Che cazzo mi succede? Solitamente sono piuttosto bulletto, sicuro di me, chi è sto stronzo che si inebetisce come un pivello?”
Ma la prima mossa la fa proprio lei.
«Ciao, Marco, ma che bella sorpresa!»
«Ciao, Antonella, passavo di qua e sono venuto a farti un saluto, stavo andando verso casa in compagnia di Maurizio.
A proposito, ti presento Maurizio, un amico storico; ci siamo conosciuti alle scuole elementari e da allora siamo rimasti amici inseparabili.»
«Pi, pia, piacere, Maurizio.» “Cosa? Balbetto anche. Ma allora sono proprio rincoglionito. Ci manca solo che inizino a sudarmi le mani, così, quando me la stringe, faccio pure una figura di merda.”
«Piacere mio, Maurizio. Ma perché non entrate, stiamo facendo le salsicce piccanti nostrane, ci sarà un po’ di disordine, ma è lo stesso.»
«Grazie, Antonella, ma devo assolutamente tornare a casa, devo finire una ricerca per domani, altrimenti il prof. mi càzzia. Magari si può fermare Maurizio, così vi potete conoscere un po’ meglio.»
Marco è proprio un amico, ha studiato la strategia giusta per lasciarci soli. Se sono rose, fioriranno.
Sto rinvenendo dall’inebetimento. Faccio un bel respiro, di quelli fatti con il diaframma tutto aperto, poi collego il cervello alla bocca e magicamente parlo.
«In effetti non ho particolari impegni.»
“Bugia, bugia, bugia. Dovrei prepararmi per il compito di elettrotecnica, ma chi se ne frega? Quando mi ricapita un’occasione così? Per il compito farò affidamento sul buon cuore del mio compagno di banco.”
«Se non sono d’intralcio, un bicchiere d’acqua lo accetto volentieri.»
«Bene, Antonella, allora ti saluto e ci vediamo in parrocchia domani.»
«Ciao, Marco, sì domani vengo sicuramente alla riunione giovani.»
«Entra, Maurizio, ti accompagno in cucina.»
Le stanze che attraversiamo per entrare in cucina sembrano il regno di un pittore naif. Le pareti sono dipinte con i più svariati colori e in alcuni casi abbellite o abbruttite, a seconda dei gusti, con dei motivi rococò.
La cucina è abbastanza ampia, sembra di essere alla sagra della carne di maiale. In una cesta di plastica sono ammonticchiate una quantità notevole di corde di salsicce. In un’altra cesta c’è ancora una certa quantità di macinato pronto per essere insaccato. La catena di montaggio è perfetta e potrebbe far invidia alla più moderne catene industriali.
C’è chi fa le palle di macinato da inserire nella macchinetta per insaccare, chi infila il budello nel beccuccio della macchinetta, chi gira la manovella per spingere il macinato nel budello e, infine, chi lega la salsiccia ogni quindici centimetri. Completato un budello, si ripone la corda di salsiccia nella cesta e si riparte con un nuovo budello.
«Questo è Maurizio ed è passato di qua con Marco. Marco non si è potuto fermare, così ho invitato Maurizio a restare. Questa è la mia mamma Rosa, questo è il mio papà Mario, questa è nonna Maria e questa è mia sorella Patrizia. Ho un altro po’ di fratelli e sorelle, ma in questo momento i più piccoli sono in camera a giocare e i più grandi al lavoro.»
«Salve. Mi sembra di essere arrivato in un brutto momento, non vorrei rompere le scatole.»
«Non preoccuparti, tieni il bicchiere d’acqua, abbiamo quasi finito. Anzi perché non ci aiuti? Taglieresti un po’ di pezzi di spago che servono per legare le salsicce? Fa’ pezzi da quindici centimetri circa.»
«Che ci dai da bere a sto cotraro, acqua? Butta quell’acqua e ‘mbiviti un bel bicchiere di vino. C’è il Valpolicella che abbiamo messo anche nell’impasto per le salsicce ed è buono.»
«Papà, non iniziare a mettere in difficoltà le persone che nemmeno conosci, adesso, se gli fa piacere, faccio il miracolo e cambio l’acqua con il vino.»
«Sì, grazie, un bicchiere di vino è sicuramente meglio dell’acqua.»
A bere vino imparai a sedici anni, quando lavorai per l’intera estate come facchino allo scarico ferroviario. Quella fu un’estate clamorosamente calda e la sola bevanda disponibile era il vino rosso, che i più anziani facchini portavano da casa in generosi fiaschi, che tenevano all’ombra dei vagoni. Così, dopo una faticosa resistenza, mi piegai alla dura legge del goto de vin.
Per un po’ il lavoro procede veloce e in silenzio, ma non mi sento affatto imbarazzato. La famiglia è cordiale, semplice e laboriosa. Nulla che possa metterti in difficoltà o farti sentire fuori luogo. Forse un po’ pittoresca ma è ok. Il papà è un ometto bassino, ma con un fisico esplosivo, stempiato e con dei baffetti da sparviero. La mamma è la tipica donna del sud, bassina, corpulenta, capelli neri e folte sopracciglia nere. La nonna conserva ancora una folta capigliatura argento e delle mani affusolate punteggiate da macchie scure, dove spiccano in rilievo delle grosse vene azzurre. Ha gli stessi tratti della figlia Rosa. Una vecchierella tranquilla ma cordiale. La sorella Patrizia, che potrebbe avere una decina d’anni, ha anche lei i tratti caratteristici del sud. Una folta capigliatura nerissima e riccioluta, folte sopracciglia nere e due begli occhini furbi e indagatori.
«Io sono la più grande di otto figli e tutti mi chiamano Anto.»
Per entrare in sintonia con la famiglia monto il programma simpatia e me ne esco con una battuta niente male…
«Accidenti, signor Mario, non si può certo dire che ha perso tempo. Ha intenzione di continuare o pensa di aver contribuito a sufficienza alla conservazione della specie umana? Io ho solo un fratello di cinque anni più vecchio.»
«Mi sono fermato, otto sono più che sufficienti. Sai, Maurizio, in Calabria lavoravo molto e alla sera non c’era la televisione e allora si guardava un’altra cosa.»
“È proprio simpatico questo ometto.”, pensai.
«Perché non ti fermi a cena? Se ti piace mangiare piccante, ti puoi fermare; cuciniamo le salsicce al forno, sono speciali.»
Diedi la classica risposta di rito, tutta improntata alla negazione.
«Non vorrei approfittarne troppo. Non ho mai mangiato le salsicce piccanti, però non mi dispiacerebbe provarle.»
Dopo essere state strapazzate, legate e maneggiate, sessanta chili di spettacolari salsicce si stanno beatamente riposando nelle ceste. Mi spiegano che alcune corde andranno appese per la stagionatura, mentre altre andranno mangiate ancora fresche, cuocendole al forno oppure nel sugo. Stasera in mio onore ne faranno un po’ al sugo e un po’ al forno. Mario, che è molto orgoglioso delle sue paffute creature, mi spiega che queste salsicce non hanno nulla a che vedere con quelle che siamo abituati a mangiare qui nel Veneto, dove il grasso e il sale la fanno da padroni. Queste sono magrissime e il grasso, in verità, è lardo, il più nobile dei grassi. Poi c’è il vino Valpolicella, i semi di finocchio, il sale e il pepe rosso, sia dolce che piccante.
Il profumo che esce dal forno e dalla pentola del sugo è sublime, mentre in religioso silenzio ci si appresta ad imbandire la tavola. Nel frattempo, un po’ alla volta sta rincasando il resto della banda bassotti. C’è Antonio (Totò), che fa il meccanico, c’è Salvatore (Sasà), che frequenta la scuola media, c’è Maria, un anno più giovane di Antonella, che lavora in una maglieria, e poi ci sono i più piccoli, Bruno e Carlo, che frequentano le elementari e Cinzia, che va alla scuola materna. Insomma una bella famigliola numerosa.
E, come direbbero i mitici Gennaro Olivieri e Guido Pancaldi allo start delle gare di giochi senza frontiere ‘Pronti, une, deux, trois, VIA!’ si aprano le danze.
Le salsicce, ben rosolate e fumanti, escono dal forno; la pentola, con le salsicce affogate nel sugo, viene posta con enfasi al centro della lunga tavola, dove ha preso posto la famiglia che questa sera ha un ospite d’eccezione… il sottoscritto.
Affronto il primo boccone. Il gusto è buono, ma queste salsicce nascondono un tranello. Come le belle donne, ti lusingano con il primo impatto, ma poi si rivelano in tutta la loro piccantezza, sciorinando una mitragliata di forti sapori, che, se si riesce a reggerli, ti danno un’estasi indimenticabile. Qui non si tratta semplicemente di mangiare, di nutrirsi, ma di avere un amplesso, un lungo e duraturo rapporto sessuale con il cibo.
«Se le senti troppo piccanti, non bere acqua, bevi vino e mangia qualche pezzo di pane.», mi consiglia Mario.
Così facendo, in effetti, il piccante si stempera bene nel palato e nella gola e quello che rimane è un intenso, duraturo, piacevole e indimenticabile retrogusto.
Sono bastate un paio di salsicce e sento già di amare la Calabria e i Calabresi. Quanto chiasso a tavola! Dodici persone che parlottano e scambiano opinioni… Mi rendo conto che in questa famiglia, durante i pasti, non serve tenere accesa la televisione, non ci sono vuoti da riempire, c’è sempre un sottofondo di ciarle, di pianti o di risate e ognuno assorbe dagli altri le notizie e le curiosità del giorno appena trascorso.
Immancabile, arriva un buon caffè, tipico finale di una cena alla meridionale, corretto con la sambuca e con già due cucchiaini di zucchero, perché in Calabria si usa così e la quantità di zucchero non è negoziabile.
Terminata la cena, Antonella mi fa sedere sul divano che c’è in una delle altre stanze, che di giorno sembrano salotti, ma alla notte si trasformano magicamente in camere da letto, per chiacchierare un po’, anche se parlare in intimità è impossibile, visto le undici persone che girovagano per la casa.
Alla nonna Maria hanno assegnato la cameretta adiacente la cucina. Il letto è appoggiato alla parete che confina con la cucina, dove c’è la stufa che riscalda la casa, per cui il muro emana un generoso tepore che tanto giova ai reumatismi della nonna. Penso alla nonna Maria e rifletto su come la vita sia una ruota. Da piccolo sei relegato in una cameretta e da vecchio sei di nuovo nella stessa cameretta. Da piccolo ti danno la paghetta e da vecchio ti confiscano la pensione e ti danno la stessa paghetta, ma in compenso ti sfruttano come baby sitter, come cuoca, come colf, senza diritto alle ferie.
«Sai, Anto, anch’io ho un diminutivo per il mio nome, Mauri.»
«Mauri, cosa fai di bello nella vita?»
«Sto studiando come perito elettrotecnico all’istituto Galileo Ferraris, sono al quarto anno. E tu?»
«In questo momento sto lavorando per il periodo natalizio alla Standa. Purtroppo, quando siamo venuti a Verona dalla Calabria, era giugno del ’74 e io ho dovuto interrompere gli studi. Mio padre, dopo essere stato per quasi un anno in Canada, a Toronto, come emigrante, ospite di un fratello di mia madre, ci aveva anticipato, venendo a Verona in avanscoperta. Nel giro di sei mesi è riuscito a trovare lavoro e una sistemazione per la famiglia; così poi si è trasferito tutto il battaglione. A Siderno, il paese da cui provengo, avevo completato i primi tre anni di ragioneria. Poi, qui a Verona, visto che ero la maggiore, non ho ripreso gli studi e mi sono cercata un lavoro per dare una mano alla famiglia.
Un po’ mi dispiace, anzi mi dispiace molto, perché studiare mi piaceva e lo facevo anche con profitto, ma c’era un bisogno economico e così…»
«Ammirevole da parte tua! Spero, però, che tu non abbia troppi rimpianti in futuro, anche se penso che la scuola qualcosa ti insegna, ma la vera maestra è la vita. La vita è l’unica in grado di propinarti tutte quelle variabili, anche stravaganti, che, saltando la teoria, ti fanno esercitare immediatamente e senza appelli in quella che viene chiamata pratica.»
«Cerco di non pensarci e accetterò tutto quello che il futuro vorrà riservarmi. Quello che mi pesa di più è la mancanza del mare. La casa dove abitavo era ad un passo dal mare, lo splendido mar Ionio dal blu intenso. Bastava attraversare le rotaie della ferrovia, che costeggiava la litoranea, per fare un tuffo e poi stendersi al sole, che, asciugandoti, ti lasciava i residui di sale sulla pelle. Mi manca il sapore della salsedine. Mi manca il mare mosso d’autunno, quando i turisti non ci sono più e si può passeggiare sulla spiaggia deserta, lasciandosi ipnotizzare dal ritmo delle onde che si infrangono a riva, pensando alla stagione che se n’è appena andata e alle sorprese che la prossima estate, potrebbe riservarmi. Mi mancano i pescatori che al mattino passano con il pesce fresco che balla nelle cassette: sarde, vope, bianco mangiare… Mi manca l’omino che porta la ricotta appena fatta, ancora calda, dentro i cestini. Mi manca la raccolta dei fichi d’india e il miscuglio di profumi di ginestra, di sambuco in fiore, di origano, di liquirizia, di menta e di malva selvatica che arrivano dall’Aspromonte. Insomma, mi manca la mia terra. Ma ora bando ai dolci ricordi che mettono tristezza! Dimmi qualcosa di te. Hai fratelli o sorelle? E i tuoi genitori stanno bene? Cosa fanno?»
Le parole di Antonella mi fanno capire che ha lasciato la sua esperienza di vita calabrese in sospeso, ben nascosta in un angolo della memoria, impacchettata con tanto di imballo, perché questo fragile contenuto non si rompa. Allora rispetto il suo voler cambiar discorso e inizio a raccontarmi.
Spiego che la mia famiglia ha origini molto umili. Racconto di mia madre, che proviene da una realtà contadina, è la nona di nove fratelli e sorelle; nella casa colonica dove viveva prima di sposarsi, a pranzo e a cena, sedevano a tavola ben ventidue persone. Poi, all’età di trentatré anni, ha incontrato mio padre e si sono sposati. Mio padre, scherzando, ci racconta spesso che mia madre l’ha fregato con un cesto di mele. Racconta che, quando l’ha conosciuta, lei si è presentata con un cesto di mele rosse, enormi e lucide come la carrozzeria della Ferrari, che le copriva il viso. Così lui, attratto dalle mele, non ha pensato che stava andando incontro alla sorte.
Descrivo mio padre come una persona molto severa; forse il suo carattere è stato segnato dalle molte esperienze di vita negative. Orfano di padre, ha avuto poi un patrigno ubriacone e manesco che picchiava sua madre e spendeva tutti i soldi nel bere. Alcune volte, da bambino, consolava sua madre abbracciandola forte, quando lei si lasciava andare in un pianto liberatorio per sentire meno gravoso il peso della miseria. Non fu più fortunato in seguito. Dopo la sesta classe se ne andò a lavorare in fonderia, dove non rimase per molto, perché venne chiamato alle armi durante la Seconda Guerra Mondiale e si beccò tre anni di campagna d’Africa. Poi, fatto prigioniero dagli Inglesi, fu portato in un campo di lavoro in Inghilterra, dove, tutto sommato, stava meglio che a casa. Tornato dopo alcuni anni di prigionia, ritrovò il posto in fonderia, dove rimase fino alla pensione. Racconto qualcosa anche di mio fratello Eligio, cinque anni più vecchio di me. Un bel ragazzo, dal fisico atletico. Anche lui Sagittario. Uno spirito libero e indipendente. Alla mia età era in giro per il mondo e i miei genitori non sapevano dove fosse. Poi, un giorno, dopo essere tornato dall’Olanda, si calmò e con grande sorpresa di tutti, poco dopo, lui, che aveva fatto soffrire una quantità notevole di ragazze, si fidanzò con Eleonora, una minuta ma carina maestra elementare. Era un vero talento artistico; sfornava, fin da giovanissimo, disegni di notevole fattura. Infatti frequentò la scuola professionale di grafica, guadagnandosi l’attestato di cromista ritoccatore grafico. Ma l’impiego nel suo campo durò poco, perché la ditta dove lavorava fallì. In seguito trovò impiego in banca, dove lavora tutt’ora.
Ad un certo punto mi accorgo di aver parlato per una buona mezz’ora, forse troppo. Quasi una forma di incontinenza verbale.
«Senti, starei qui ancora a lungo e molto volentieri, ma non vorrei approfittare troppo dell’ospitalità e poi è anche tardi e i miei genitori chissà cosa pensano visto che non sono tornato per cena.»
In verità della preoccupazione dei miei genitori non mi importava un fico secco.
«Mi piace la tua compagnia e vorrei rivederti; cosa ne dici se domenica passo a prenderti nel pomeriggio e facciamo un giro in centro città?»
«Hai ragione, è meglio non far stare in pensiero i tuoi genitori. Per domenica non ci sono problemi, fa piacere anche a me rivederti. L’unica cosa è che dobbiamo rincasare a un’ora decente. Io sono ancora minorenne e mio padre è un po’ o forse un po’ tanto terrone e vuole che rincasi prima di cena.»
«Ok, allora diciamo che passo per le tre, così per le sei posso riaccompagnarti a casa. Comunque tuo padre sarà anche terrone, come dici tu, ma è molto simpatico.»
«Bene, allora ci vediamo sabato. Ti accompagno alla porta.»
Che ragazza simpatica e bella, seppur nella sua semplicità!
Antonella forse era una porta, attraverso la quale avrei potuto comprendere meglio il meridione d’Italia, in particolare la Calabria, e forse tutto ciò mi sarebbe apparso in modo totalmente diverso da come l’avevo immaginato fino ad ora.
Fino a poco tempo prima non avrei nemmeno immaginato di provare qualcosa di più della semplice curiosità o attrazione fisica per una ragazza. Non è che ne ero già innamorato cotto?
Se avessi dovuto spiegare a qualcuno cosa stavo provando, avrei avuto delle serie difficoltà. Le parole di uso comune non sarebbero bastate per esprimere le emozioni che provavo o forse ero troppo giovane e non conoscevo ancora i vocaboli adatti.
Felice più che mai, caracollo verso casa con in testa un solo pensiero. Non vedo l’ora che arrivi sabato.
[continua]
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