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In copertina: fotografia dell’autrice
Prefazione
Il romanzo “La menzogna”, di Miriam De Berardis, rappresenta, simbolicamente, il distillato dolceamaro della vita che, da un lato, può regalare immensa felicità e far credere che tutto sia perfetto, dall’altro lato, può catapultare in un vortice doloroso e far scoprire alcune verità nascoste, per confermare, come scrive l’Autrice, che i mondi perfetti non esistono.
La narrazione, coinvolgente e vibrante, è giocata sulla figura della protagonista Eugenia, che ha perso il marito a causa di un incidente stradale e si trova a fare i conti con un dolore devastante che condiziona la sua vita come fosse intrappolata dentro il suo lutto: a conferma di questa condizione, lei non riesce neanche a versare le lacrime per la scomparsa del marito, adotta un comportamento di chiusura verso gli altri e pare stare meglio quando è sola con se stessa.
Il processo narrativo, reso in modo efficace da Miriam De Berardis, grazie ad una scrittura precisa ed attenta, mette in evidenza il senso profondo della perdita di una persona amata, che attanaglia fino a togliere il fiato, strettamente collegato all’esperienza esistenziale di una donna che cerca, con tutte le forze, di rimettere nella giusta posizione i tasselli della sua vita, quelli ben visibili e anche quelli celati e segreti.
Eugenia lavora come osteopata, perché, fin da piccola, voleva alleviare il dolore degli altri; ama fare lunghe camminate, abitudine presa dal padre; è figlia unica ed ha sempre goduto dell’affetto dei suoi genitori: in un momento così difficile della sua vita può contare sulla sua migliore amica Cristina, sempre pronta ad incoraggiarla con sincerità oltre all’anticonformismo che le unisce.
Purtroppo Eugenia si ritrova come in uno stagno esistenziale, assediata da ombre incombenti, una patina di tristezza ricopre la vita e le impedisce di guardarsi allo specchio del tempo reale: preserva le abitudini quotidiane, vive il suo silenzio e la paura si miscela con il dolore mentre cerca di riappropriarsi del suo tempo, per non lasciarsi andare alla deriva.
Dopo il recupero memoriale del primo incontro tra Eugenia e Maurizio, che lavora come bibliotecario e diventerà suo marito, si illumina la storia del loro percorso d’amore che pare idilliaco: il desiderio, i gesti d’amore, la voglia di confrontarsi, le attenzioni e le premure, che creavano un’armonia perfetta.
Le lettere d’amore scritte dal marito, che lei trova dentro un mobile, sono la dimostrazione dell’amore profondo che li ha uniti, ma l’evento scatenante si avvera quando, nel portamonete appartenuto al marito, trova un foglio di carta sul quale è scritto un numero di cellulare e, nella sua mente, stranamente, inizia ad insinuarsi un dubbio angosciante e, infine, il presentimento di scoprire qualcosa che è stato tenuto segreto dal marito, volutamente occultato per lungo tempo.
Il timore di scoperchiare un vaso di Pandora e veder cadere come un castello di carte la vita matrimoniale con un marito troppo perfetto, tra complicità, rispetto e completezza, indurrà Eugenia ad aspettare più di un anno e mezzo prima di comporre il numero di telefono: sarà un’autentica discesa nell’Inferno che ribalterà completamente la sua vita precedente e la contaminerà con le verità non dette, con la menzogna.
La narrazione di Miriam De Berardis è pervasa di profonda umanità, ammantata di estrema sensibilità, capace di toccare il cuore e di penetrare nel profondo dell’animo: le riflessioni della protagonista rappresentano la colonna portante del romanzo, sempre alimentato dal desiderio di scandagliare l’animo, fino a coglierne le più celate percezioni.
Massimo Barile
Ringraziamenti
Sono infinitamente grata a:
Fam. Barlecchini – Teramo;
Dott.ssa Daniela Campanella Psichiatra – Teramo;
Sara Centorame – Teramo;
Prof. Giuseppe De Berardis insegnante di lettere – Teramo;
Dott. Domenico De Berardis Psichiatra – Teramo;
Dott.ssa Valeria De Berardis Avvocato – Teramo;
Don Vincenzo Di Egidio –Teramo;
Dott.ssa Laura De Sanctis Osteopata – Teramo;
Dott. Danilo Lucantoni Neurochirurgo – Teramo;
Julio Padrino Pittore – Teramo;
Marianna Patalano – Ischitana;
Fabio Tona Musicista – Teramo;
Dott.ssa Francesca Tona – Imperial College Healthcare NHS Trust-London;
Dott.ssa Pina Vallese Psicoterapeuta – Roseto degli Abruzzi (TE).
La menzogna
A mia figlia Marta
La menzogna
12 Febbraio 2012
Era una mattina come le altre.
Eugenia, aprendo gli occhi avrebbe allungato il braccio e toccato il viso di chi le dormiva accanto; non fece in tempo a girarsi che in quegli interminabili secondi passò dalla quiete, all’angoscia.
Non c’era nessun uomo che divideva il suo sonno. L’abat-jour sul comodino, spenta, il cuscino intatto, la coperta senza una piega raccontavano l’assenza irreparabile; un prima appena immaginato in quella manciata di secondi si trasformò nel suo tempo reale, il tempo della perdita.
Aprì gli occhi, poi li richiuse.
Avrebbe voluto rimanere a letto e dormire, avrebbe voluto allungare le gambe e sfiorare la gamba di Maurizio, suo marito; sentire il calore dopo il risveglio, ma un incidente automobilistico aveva scardinato, risucchiato il prima in un vortice che non ammetteva più ritorni e possibilità.
Un brivido freddo scosse il suo corpo malgrado fosse febbraio, un febbraio quasi mite, diverso dal solito.
Si girò nel letto per due volte.
Milù, la gatta dal lungo pelo che viveva con lei da quasi due anni, era sparita sotto qualche mobile o divano.
La chiamò, ma non arrivò, non arrivava mai quando la chiamava, come tutti i gatti.
Era domenica, con nessuna nube all’orizzonte. Rimase sotto la doccia e nella vasca, più del previsto. Allungando la mano sul mobile blu ai piedi della vasca, afferrò l’orologio e notò che era tardi.
Si asciugò in fretta e scese in strada. Dovette risalire al terzo piano del suo appartamento perché aveva lasciato la chiave dell’auto sul comodino a fianco del letto.
Milù, vedendola uscire, si era già nascosta sotto la sedia, vicino alla porta d’ingresso.
Manifestò disappunto miagolando.
“Torno presto”, le disse piano, accarezzandola.
Al bar ordinò un cappuccino e un cornetto alla marmellata; non si sedette, li prese al bancone, con irritazione. Il bar era affollato: persone ordinavano paste da portare via, per questo ci misero un po’ per servirla. In un’edicola vicina comprò il giornale e lesse i titoli. Poche buone notizie. Salita in macchina, sentì il cellulare squillare; si accostò al lato del marciapiede.
Era Cristina, la sua amica.
“Come stai?”
“Bene”.
“Sei sicura? Vuoi che venga?”
“No, sai che preferisco andare da sola; non ti preoccupare. Se dovessero esserci dei problemi, ti chiamerò”.
Dopo aver percorso un tratto di strada, si fermò nei paraggi di un negozio di fiori e mobili antichi. Entrò.
Enormi vasi si confondevano tra cristalliere, comò e rose dai boccioli perfetti, cancellando qualsiasi segno di deterioramento, di petali disfatti, di foglie ingiallite, di rami rinsecchiti.
Un giorno Eugenia aveva chiesto alla proprietaria del negozio chi comprasse dei fiori così belli.
“Forse sono intimoriti dai mobili, ma qui vengono a prendere fiori per festeggiare nascite, matrimoni, raramente per commemorare morti”.
“Sono incerta cosa scegliere”, disse Eugenia girandosi.
Gerbere rosa, gialle, lilium, anthurium, rose rosse erano sistemate entro vasi azzurri, a semicerchio, appoggiati quasi al muro, in modo da non ostacolare il passaggio.
Si avvicinò ai fiori e da un vaso estrasse una rosa rossa, la annusò a lungo, facendo grossi respiri.
“Prendo nove rose rosse”.
La proprietaria tagliò con delle cesoie i gambi ad una certa altezza, tolse alcune foglie in eccedenza, le poggiò a ventaglio sulla pietra di marmo.
“Mi raccomando, non avvolgerle nel cellofàne”.
“Lo so, lo so”, rispose annuendo con la testa.
Eugenia, dopo aver pagato e salutato, prese i fiori e li adagiò su un braccio rischiando di pungersi; li portò così prima di raggiungere la macchina. Imboccò un viale sulla sinistra dove i cipressi circondavano il cimitero. Parcheggiò. Fece un lungo sospiro prima di varcare il grosso cancello in ferro battuto.
Fino a due anni prima il cimitero era il luogo degli altri. Ci andava poco. In passato aveva portato fiori a suo padre; preferiva ricordarlo vivo.
Era andata a trovare qualche anziana zia, ma senza affanno, i nonni con un misto di tenerezza e ricordi che cancellavano la tristezza, quasi una passeggiata benefica.
Adesso era diverso. Era entrata in un luogo che non era più degli altri, era il suo luogo. Filari di cipressi sulla destra s’interrompevano su di un cancello e dopo quattro gradini un corridoio dispiegava centinaia di lapidi che arrivavano al limite del soffitto.
Una grossa scala intralciò i suoi movimenti.
La spostò, poi usò uno sgabello. Ci salì sopra. Si trovò di fronte quello che cercava. Guardò la lapide di Maurizio: Maurizio Anazzi, 8 gennaio 1969 – 12 febbraio 2010.
Guardò la foto. Capelli castano biondi incorniciavano un viso sorridente. La camicia bianca evidenziava il colore della pelle abbronzata. Gli occhi erano azzurri, come i suoi.
Con un fazzoletto di carta pulì l’ovale della foto, indugiò sulla bocca, sul naso; pulì la scritta, penetrò nei numeri, mimò delle carezze che non poteva più dare. Tolse i fiori secchi.
Petali caduti sulla mensola di marmo erano simili a scaglie d’ossa. Sistemò le rose fresche alternandole con rami di sempreverdi.
Erano passati due anni esatti da quando Maurizio era morto.
Un automobilista, a un incrocio, non aveva rispettato lo stop.
Fu travolto e in quell’ammasso di lamiere, erano rimasti intatti solo il portamonete e il cellulare. Erano poggiati sul cruscotto e nell’impatto erano caduti finendo sotto il sedile anteriore, malridotto, ma si trasformò in una nicchia; così la polizia poté recuperare le ultime cose che Maurizio aveva toccato, usato.
Quando riebbe quei pochissimi oggetti, fu presa dalla voglia di buttarli. Maurizio? Un cellulare ed un portamonete con carte di credito, patente, carta d’identità, scontrini di un bar, una ricevuta di un oculista (aveva avuto una brutta congiuntivite, qualche giorno prima che morisse, si era fatto controllare, niente di grave), un centinaio di euro, un abbonamento al cinema, qualche indirizzo di un paio di ristoranti e pizzerie, una foto che li ritraeva insieme.
Maurizio? Tutto qui? Non era possibile.
Pensò che questi oggetti avevano sfiorato la sua carne, avevano sentito l’ultimo suo respiro, non poteva disfarsene.
Depositò il cellulare in una scatola dentro il comò e il portamonete nel tiretto del suo comodino. Lo trattava come una reliquia, le pareva di sentire il calore di Maurizio, un misto di profumo e odore della sua pelle, il suo odore dolciastro.
Ogni tanto lo prendeva per mano ed estraeva la foto. Perché non incorniciarla? Foto incorniciate erano sparse per tutta la casa, ma quella foto voleva toccarla, sfiorarla con le dita, con le mani. Una specie di rito, quando era più triste. La rimetteva nel portamonete, sapendo che l’avrebbe presa di nuovo. Una delle ultime foto scattate al parco, vicino casa.
Eugenia aveva fermato una signora che camminava nel viale.
“Ci potrebbe scattare una foto?” Aveva consegnato il suo cellulare.
“Certo”.
Si erano messi in posa. Eugenia ne aveva fatte altre. Le aveva sviluppate il giorno stesso. La sera le aveva fatte vedere a Maurizio.
“Belle, quasi, quasi. Qui, noi due insieme. La metto nel portamonete”.
“Ah, bene”, disse Eugenia passandogli la mano tra i capelli.
“L’ultima foto, insieme”.
Una signora di fronte parlava a bassa voce.
Accarezzava una lapide e parlava.
Eugenia rimase in silenzio, come sempre.
Non una parola, non un grido, né lacrime avevano rigato il suo viso. Le lacrime erano fatte di una sostanza che non conosceva, avevano abbandonato i suoi occhi, il suo corpo si era ritratto come un albero sterile che non dava più frutti.
Gli amici, i parenti le aspettavano come un evento.
“Ti sentiresti meglio se riuscissi a piangere”, le ripetevano con ossessione.
“Le lacrime? Non ho la lampada di Aladino”, rispondeva Eugenia, quasi irritata.
Le lacrime non si potevano barattare con niente, non arrivavano e basta.
Raccolse una foglia che era caduta dal vaso e se ne andò, era ora di pranzo e non aveva voglia di ritornare a casa.
Si mise a girovagare un po’ senza una meta precisa, ma una stretta allo stomaco l’avvertì che era ora di pranzo.
Entrò in un ristorante dove non era mai stata.
Famiglie stavano già pranzando in una saletta arredata con poltroncine rosse ed un trumeau alla parete.
L’allegria di alcuni bambini la risollevò.
Una ragazza con una coroncina di alloro in testa stava festeggiando la sua laurea. Certamente l’aveva discussa il giorno prima. Amici, ogni tanto la prendevano e la lanciavano in alto, come un fuscello. Lei, sottile partecipava al gioco senza scomporsi. Rideva, leggera.
La fatica, per il momento, era finita.
I camerieri servirono la torta, così smisero.
Eugenia ordinò cotoletta ed insalata, non aveva voglia di ordinare il primo.
Ci ripensò, forse, un assaggio.
Il cameriere era scomparso dalla sala, lasciò stare, non lo richiamò. Servita, ridusse la carne in tanti pezzi con un coltello stranamente affilato. Si ricordò che la madre, per farla mangiare, da piccola, tagliava la carne in pezzi microscopici, cantandole una canzoncina.
“Mangia, stanno per arrivare i topi rossi, mangia che ti portano via il cibo”.
Se le avessero portato via il cibo le avrebbero fatto un favore, ma non aveva alternative. Apriva la bocca per masticare ed ingoiare i pezzettini che la madre la obbligava, secondo lei, a mangiare.
I pezzettini diventavano poltiglia, spostata da una guancia all’altra con la lingua per tanto tempo. Quando si accorse che i topolini non erano né rossi, né gialli, né azzurri, per un po’, andando a scuola, preferì disegnarli così.
“Azzurri, Eugenia, topolini azzurri e rossi? Belli!”, diceva la sua maestra.
“Sono finiti in barattoli di vernice; se nascessero così sarebbe meglio”.
Quella specie di sazietà l’aveva accompagnata sempre, non mangiava molto e il suo corpo negli anni era rimasto sempre uguale. Raramente prendeva peso. Fisico asciutto ma non magro, statura media, capelli castano chiari, lisci, portati un po’ al di sopra delle spalle, occhi azzurri, un azzurro intenso, carnagione chiara, ma non pallida.
Andava, per tenersi in forma, a fare camminate lungo il fiume, nel parco e nelle zone circostanti la città, in collina, mai uguali perché cambiava spesso itinerari.
Dal cameriere si fece portare fette di limone che versò nel bicchiere. Bevve tre bicchieri d’acqua e mangiò una mela. Panna cotta per chiudere il pranzo e un caffè. Con Maurizio andava spesso al ristorante. Non avendo figli, avevano un tempo privilegiato, come si sentivano ripetere, adesso si doveva riprogrammare, questo era il termine che usava per sé.
Si pensava come un prima e dopo; tutto quello che c’era di tecnologico si riprogrammava, ma l’esistenza non era una macchina, da cambiare a piacimento.
Pensava questo quando faceva sforzi enormi per mettere qualche tassello a posto, piccoli passi per uscire dall’ombra.
Lasciato il ristorante notò che l’azzurro era l’azzurro della mattinata, non una nube aveva scalfito il cielo. Dopo giorni di pioggia il verde degli alberi era simile al velluto. I raggi di sole si specchiavano sulle foglie rimandando scaglie d’argento, foglie che avevano trattenuto acqua si trasformavano in tanti specchietti.
Erano le 19,45 quando Maurizio ebbe l’incidente.
Eugenia stava infornando una torta al limone che avrebbero mangiato insieme dopo cena, vedendo un film in televisione o in dvd.
Pensava ogni tanto che atti insignificanti senza nessuna importanza scandissero giornate, ore. Tracce, indizi, davano il senso dell’altro. Il tubetto del dentifricio lasciato aperto, la camicia sulla sedia, il posto vuoto in tavola.
Per mesi aveva continuato d’istinto ad apparecchiare per due. Poggiava i piatti, ma subito li rimetteva a posto come chi ha sbagliato giorno, per invitare qualcuno.
Quei gesti, quella quotidianità fatta di nulla l’avrebbe rivoluta a qualsiasi costo, ma non l’aveva neanche in sogno perché non lo sognava quasi mai.
Continuò a camminare con un passo spedito e si meravigliò che la città fosse così diversa da settimane prima.
Riusciva a scorgere scorci, piazze, viali nascosti dal traffico dei giorni feriali. Un palazzo barocco, un arco appena restaurato, una chiesa romanica s’imponevano ai suoi occhi, cancelli aperti mostravano siepi, piante, prati mai notati, non ne avrebbe immaginato neanche l’esistenza. Buon segno. Ricominciava a guardarsi attorno. Ritornò a casa.
Si sdraiò sul divano sistemando i cuscini, cercando la posizione giusta per rilassarsi; dormì un po’. Milù si avvicinò con il suo solito miagolio di gatta continuamente affamata, la svegliò.
“Diventerai una palla di grasso, hai la ciotola piena.”
Milù amava poco le crocchette, le annusava, le lasciava andando in cerca d’altro. Preferiva bocconcini di carne o di pesce. Li reclamava con un miagolio accorato.
Gliela aveva regalata Cristina pochi mesi dopo che era morto Maurizio.
L’aveva trovata entrando in un negozio di animali dopo aver acquistato mangime per i suoi pesci. La gatta era sistemata in una cesta vicina a un piccolo scaffale; si alzava sulle esili zampe portando la testa in avanti, si abbassava di nuovo. Cristina domandò quanto costasse, ma senza aspettare la risposta si avvicinò, prese la cesta.
“Stiamo distribuendo una nidiata di gattini, è l’ultimo rimasto, può prenderlo, se vuole”.
Non le parve vero. Una gatta che Eugenia poteva accudire per distrarsi, un bel regalo.
Quando Eugenia la vide, assunse l’espressione di chi ha un vestito smesso da togliere dall’armadio. Non aveva voglia di occuparsi di una gatta; tutte le mattine faceva fatica ad alzarsi, figurarsi prestare attenzione a un animale.
Il secondo giorno le salì in grembo miagolando. Si intenerì. Milù reclamava carezze ed affetto continuamente rifiutandosi di dormire nella sua cesta e quasi sempre alla stessa ora, varcava la soglia della camera di Eugenia, saliva sul suo letto, cominciando il rito della passeggiata: camminava dal cuscino fino al margine del letto, cercando di trovare una posizione giusta per dormire. Eugenia aveva provato a chiudere la porta, ma con miagolii forsennati, Milù cominciava a graffiarla con le zampe.
Aveva cercato di non darle spago, ma i miagolii rimbombavano nella casa rischiando di svegliare gli abitanti del palazzo e il vicinato. Sfinita dai suoi comportamenti, aveva buttato le armi. Spesso al mattino se la ritrovava vicino al letto, sopra il tappeto o ai suoi piedi. Voleva la sua vicinanza.
Anche quel giorno si comportò come al solito. Salì sulle gambe di Eugenia strusciando con la coda il suo mento. Non aveva voglia di alzarsi e rispondere ai messaggi che aveva ricevuto al cellulare. Si abbandonò alla sensazione di testa vuota che aveva fin dal mattino, una sensazione di pensiero fermo, un ingranaggio mal funzionante, una strada con lavori interrotti. Milù si era intanto diretta in cucina, ma si era subito fermata forse sentendo squillare di nuovo il cellulare. Qualche volta con la zampa ci giocava, lo spostava, lo faceva cadere per terra, se lo trovava poggiato su un tavolinetto.
Eugenia rispose alla chiamata.
“Sono Cristina, ho mandato dei messaggi, volevo sapere come stai, andiamo a mangiare una pizza?”
“Mi ero appisolata, non ho fame”.
“La porto io, aspettami”.
“Non mi va”.
Cristina aveva chiuso la conversazione senza darle la possibilità di replicare.
Alla madre non rispose.
Per l’ennesima volta si sarebbe sentita dire cose che sentiva già da un anno, avrebbe aggiunto solo dei particolari insignificanti non cambiando la sostanza delle cose e lei voleva rimanere in silenzio, possibilmente con Milù nascosta da qualche parte.
Dopo un po’ sentì suonare il campanello della porta. Andò ad aprire. Era Cristina. Si salutarono.
“Una signora, all’ingresso del palazzo mi ha preceduta, sono entrata con lei”. Aveva il viso nascosto dalle pizze poste dentro contenitori di cartone. Si avvicinò al tavolo della cucina e li adagiò con calma.
Eugenia si sdraiò di nuovo sul divano, tirandosi fino alla testa la copertina. L’odore intenso della pizza fece accorrere Milù, convincendola ad alzarsi.
Cristina aveva apparecchiato in cucina, bicchieri e piatti rossi per pizza, tovaglioli di carta a fiori.
“Dopo li lavo io”, disse.
Cominciò a depositare la pizza nei piatti.
Eugenia la tagliò a spicchi perfettamente uguali.
“È calda, l’hai presa da Ludovica? La pizzeria non lontana da casa?”
“Sì, l’ho presa da lei, per non farla raffreddare.
Perché ti ostini ad andare al cimitero da sola? Non è il caso di condividere con qualcuno quello che provi, specialmente negli anniversari?”
“Maurizio non è di mia proprietà, non ne ho l’esclusiva. Ci mancherebbe. Mi fa piacere che andiate a trovarlo, che portiate fiori. Sapete che vado quasi sempre di domenica, alla stessa ora. Preferisco così”.
“Sei ostinata. Me l’hai già detto che preferisci andarci da sola, lo sappiamo”.
Cristina aveva finito di mangiare un pezzo di pizza. Ne stava tagliando un altro.
“Domani vorrei fare acquisti in un centro commerciale, possibilmente delle tute, possiamo andarci insieme. So che il lunedì vai nel tuo studio di pomeriggio”, disse Eugenia.
“Quando ci sono problemi scottanti da affrontare svincoli come una biscia, cambi discorso”.
Cristina lo disse in tono di rimprovero, Eugenia non raccolse la provocazione.
Milù gironzolava attorno, ogni tanto guardava entrambe.
“Domani? Fammici pensare. Si può fare”.
Cristina volle per forza sparecchiare e lavare i piatti, Eugenia ripiegò la tovaglia e la ripose in un tiretto, prima che Cristina andasse via, bevvero il caffè.
A letto Eugenia mandò un messaggio alla madre: «Tutto bene. A presto».
Prese sonno, subito.
Considerò un regalo il sogno che fece.
Era in vacanza con Maurizio, in una città che non riusciva ad identificare. In una piazza, prima di sera, musicisti suonavano un tango.
Si trovavano a Piazza Navona, a Roma? A piazza della Signoria, a Firenze? A Plaza Catalunya, a Barcellona?
La musica continuava, a ritmo serrato, riusciva ad attrarre turisti che si fermavano ad ascoltare.
Eugenia e Maurizio, all’improvviso, si misero a danzare un tango, guardandosi con un’occhiata di intesa.
La musica scandiva i loro passi, andavano spediti, leggeri; i corpi esprimevano carnalità e passione. Un corpo solo.
I turisti, a fine danza, applaudirono.
Un bel regalo… mesi e mesi, un anno, che non lo sognava?
[continua]
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