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Pan biót - Odori e sapori d’infanzia
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Piergiorgio Bortolotti - Pan biót - Odori e sapori d’infanzia
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
14x20,5 - pp. 238 - Euro 14,00
ISBN 978-88-6037-9016
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In copertina: «Porteghi» fotografia di Piergiorgio Bortolotti
Prefazione
“Pan biót” di Piergiorgio Bortolotti è un romanzo affascinante per la capacità di riportare la sensazione profonda del “gusto del tempo” e l’intera narrazione, attraverso un recupero memoriale costruito con parole ed emozioni intensamente sentite, fa rivivere il “mondo del tempo passato” nel piccolo paese di Dernavo, un mondo legato a persone e vicende strettamente collegate ai ricordi d’infanzia dell’Autore.
Il “luogo del tempo” assume un significato simbolico e genera prospettive di riflessione, coinvolge nel susseguirsi degli avvenimenti e offre momenti di contemplazione, grazie alla forza espressiva di Piergiorgio Bortolotti, che diventa la porta d’ingresso di questa continua scoperta e riscoperta.
Ci si ritrova immersi nelle atmosfere d’un mondo “perso nel tempo”, così forte da illuminare il presente, eppure questa messe di ricordi rivive nella memoria dell’Autore che non la innalza mai a visione idilliaca ma la fissa in una dimensione capace di creare la sensazione di “unicità” come afferma Piergiorgio Bortolotti: costantemente e intimamente avvertita proprio come il sapore del “pan biót”.
Ecco allora che, nel costante flusso memoriale, simile ad una simbolica sorgente vitale che offre sempre nuovi ricordi, rivive la vita stessa del piccolo paese di Dernavo, la condizione esistenziale della sua gente che “viveva con molta fatica, tanto lavoro e magri guadagni”, accomunati dalla povertà. Il ritmo della vita d’un tempo che seguiva necessariamente il susseguirsi delle stagioni con il lavoro nei campi, la vita scandita dai riti religiosi “dalla nascita alla morte”, l’immancabile piazza principale con al centro la fontana, che era il luogo di ritrovo dove anche il giovane Saverio giocava con gli amici.
Proprio la figura di Saverio accompagnerà in questo cammino a ritroso nel tempo: proprio lui che portava al pascolo le mucche, che era goloso di pan biót e ghiotto di polenta e osèi, che possedeva una maestria “formidabile” nel creare i richiami per gli uccelli ed aveva una gazza addomesticata. Lui che amava l’autunno, desiderava spesso stare da solo, a seguire la sua immaginazione, sognando ad occhi aperti e immaginando di volare e… com’era bello lasciarsi andare alla fantasia.
A Saverio piaceva fare il chierichetto e la messa cantata alla domenica mattina come il momento della prima comunione con divertenti aneddoti legati all’offerta dell’ostia da parte del prete ma gli piaceva anche la bella Marta dagli “occhi verdi”, o giocare a nascondino o con la slitta durante le copiose nevicate o l’attesa dei regali per il giorno di Santa Lucia. Anche lui aveva difficoltà negli studi ed era stato bocciato in terza elementare ma, in quel periodo, era frequente e quindi non rappresentava certo un dramma; poi, le birbonate e gli scherzi con l’amico Michele, le giornate passate nelle strade polverose, le ragazzate come fare i botti con il carburo o la fantasiosa ricetta per fare il chewing gum, pensando di far cuocere nell’acqua bollente qualche vecchia suola di scarpe con lo zucchero, provocando solo un gran fumo puzzolente e sentendosi burlati dagli adulti che avevano raccontato questa fesseria.
Nel dipanarsi della narrazione si ritrova, inevitabilmente, una galleria di personaggi che rendono in modo fedele lo spaccato d’un periodo della vita e della nostra storia. A partire dalla figura del bravo prete Don Corrado, capace di ascoltare e di mettersi al servizio di coloro che avevano bisogno, senza distinzione alcuna, senza voler convertire alla fede ma solo donando la sua capacità di amore per il prossimo; la maestra Benedetta che aveva aiutato Saverio nello studio ed era riuscita a fargli capire le cose con la sua capacità d’insegnare “con semplicità”; il maestro Candido che aveva la mania delle tabelline; e poi, vari personaggi della vita di paese, a volte, folcloristici e divertenti, come, solo per citarne alcuni, “El Benia”, poeta stravagante che suonava la fisarmonica e allietava il paese ad ogni festa, matrimonio o ricorrenza; Camillo, detto “El Lima”, per la sua puntigliosità; Vico che viveva di elemosina e si accontentava di ciò che gli veniva offerto quando si presentava all’improvviso nelle case del paese; Sisto detto il “Rosso” perché comunista ma capace di aiutare il buon don Corrado nel momento del bisogno.
E infine, la figura del nonno Teo che riveste un ruolo fondamentale per il giovane Saverio, fonte di insegnamento alla vita: gli voleva bene e lo coccolava, gli raccontava le sue avventure, le storie mirabolanti, le leggende, le battute di caccia, i paesi che aveva visitato; e poi, della guerra combattuta al fronte, della prigionia in Russia. Il nonno Teo aveva sempre odiato la guerra e, in un quaderno custodito in una scatola fino al momento della sua morte e lasciato in dono al giovane Saverio, aveva lasciato scritto “maledetta sia la guerra” ripetuto per tutte le pagine.
Nel romanzo “Pan biót”, le emozioni sono filtrate dal ricordo, la visione si fa lirica e le testimonianze diventano linfa vitale delle intenzioni letterarie di Piergiorgio Bortolotti, che è capace di coinvolgere e, al contempo, sempre attento a rappresentare in modo poetico i protagonisti e i loro sentimenti, per restituirli con un significato nuovo e diverso: le sue parole sono piene di verità e possiedono una connotazione intima. I personaggi acquistano così la sostanza di un riconoscimento affettivo e i ricordi sono riportati alla luce tramite un indiscusso atto d’amore.
La scrittura è permeata da un tono evocativo che fa emergere l’estrema sensibilità di Piergiorgio Bortolotti mai dispersa in inutili divagazioni ma sempre viva e pulsante, sempre tesa ad illuminare personaggi, luoghi e vicende con profonda umanità, con il desiderio di ricordare, di salvare ciò che è stato, ciò che merita di essere salvato: e renderlo sotto una luce nuova, che non dimentica la coscienza della memoria: tremendamente esistenziale, profondamente sentita e fortemente ammaliante.
In sostanza, nelle parole di Piergiorgio Bortolotti viene fissata un’epoca con i suoi protagonisti che vengono svelati nella loro sostanza, in un alternarsi di multiformi personalità e squarci di vita quotidiana, mantenendo sempre alta l’intensità attrattiva, nelle infinite alchimie esistenziali di un viaggio che si fa umanamente svelatore.
Massimo Barile
Pan biót - Odori e sapori d’infanzia
Questo romanzo, frutto di fantasia, vuole essere un’attestazione di riconoscenza e di affetto ai luoghi, alle persone, agli eventi, della mia infanzia. Affonda le sue radici in ricordi che, nella nitidezza di colori attenuati, assumono talvolta le gradazioni del grigio; come certe fotografie di allora, e raccontano di un mondo che non esiste più, se non nella memoria. Un mondo che nel ricordo talvolta mi appare magico, pur non coltivandone un’immagine idilliaca, e con un sapore unico: quello del pan biót. Bisogna averlo desiderato fortemente, come talvolta mi è capitato da ragazzo, per sapere quanto sia buono.
l’Autore
Pane scusso.
I
La magia di un luogo, prima ancora che dalla bellezza del paesaggio che lo caratterizza, forse è determinata dallo sguardo di chi lo ammira. E ancora più, dai sentimenti che abitano il cuore di chi lo cova con gli occhi. Questo era certamente vero per Saverio, detto Save, che a Dernavo c’era nato.
Quello era il suo universo mondo; la terra degli affetti indubitabili e dai confini aperti verso l’oltre, certo, ma che al contempo ne rimandavano ad ogni passo la direzione verso casa.
Ogni sentiero, ogni stradetta selciata del paese, ogni lastrone di porfido che delimitava, assieme a qualche olmo, qualcuna delle strade che si dipartiva dal centro del paese e che si snodava, ora salendo, ora scendendo, o proseguendo piana, fuori dell’abitato, era come un cartello della segnaletica stradale.
Stava ad indicare una direzione certa; un percorso conosciuto e noto; una distanza che si poteva calcolare, magari non in metri, ma certamente in minuti o in mezz’ore.
Così era anche per le case arrampicate sulle pendici meridionali del monte Amort, che sorgeva alle spalle del paese. Poste in posizione panoramica, sembravano specchiarsi placidamente dentro il lago sottostante: uno specchio d’acqua azzurro chiaro.
Addossate l’una all’altra, quasi a sorreggersi a vicenda come in un grande abbraccio, erano attraversate da «porteghi»; luogo ideale dove rifugiarsi, giocando a nascondino.
Ognuna significava nomi di persone conosciute; famiglie quasi tutte amiche, o quantomeno non ostili, sulle quali poter contare in caso di bisogno; volti di vecchi, giovani e di bambini, porte aperte anche di notte. Profumo di cibo con poche variazioni, rumori famigliari, chiacchiere serali mischiate ad orazioni, odore di stalla e caldo fiato di animali. Significavano anche mondi sconosciuti da scoprire, magari di nascosto, spostandosi dall’una all’altra attraversando i tetti, oppure infilandosi dentro i fienili.
E l’ombelico di quel piccolo universo, era costituito dalla piazza con al centro la fontana, e due salici piangenti, a ombreggiarla, durante il caldo dell’estate.
A nord c’era la chiesa vecchia, che era un po’ isolata e posta sopra un dosso, a far da sentinella. Dal sagrato si godeva di un vasto panorama.
A sud c’era la scuola e la chiesa nuova; poi, le ultime propaggini del piccolo paese, che segnavano un confine immaginario verso gli abitati che sorgevano più a valle, e che costituivano comunque un altro mondo.
In quel poco spazio, viveva un microcosmo, ritmato dal susseguirsi del tempo e delle stagioni.
Lo qualificava il lavoro dei campi, i ricordi dei vecchi dentro casa e all’osteria, le funzioni religiose lungo l’anno, i giochi dei bambini sulle strade sterrate e polverose, e i sogni che occupavano la mente, gli occhi e il cuore, nei tanti momenti di silenzio che sospendeva ogni rumore.
Allora la fantasia prendeva ali e, come un falco che giri in tondo su in alto, prima di scendere a ghermire la sua preda, si dispiegava in mille acrobazie mentali, che poi sortivano in qualche birbanteria, o più semplicemente in qualche passatempo poco usuale, o in qualcos’altro ancora, a vivacizzare qualche giornata nata sotto l’insegna della monotonia.
La casa dove abitava Save, sorgeva a un tiro di schioppo dalla chiesa vecchia.
Era un’abitazione come tante altre: mezza di pietra e mezza di legno. Una scala esterna, che terminava con un ballatoio, e che la falda del tetto copriva per intero, portava al primo piano, luogo di abitazione, che in parte condivideva con i nonni.
Sotto c’era la stalla; un magazzino per i prodotti di campagna con a fianco la cantina, chiamati entrambi con un solo nome: el vòlt. Sopra i locali d’abitazione, c’erano tre stanze. Vi si accedeva attraverso una stretta scala in legno che, a Save, sembrava fatta per i nani. Dietro la casa, sorgeva l’aia ed il fienile.
La famiglia di Saverio era costituita da otto persone: i genitori Laura e Giuseppe, la sorella maggiore Ester, lui, la sorellina Veronica, il fratellino Mattia. E poi c’erano i nonni: Matteo e Maddalena. Saverio era un ragazzo pieno di energia e un poco sognatore, ma anche pratico, vivace, sveglio e sbarazzino. Talvolta un po’ monello, come i compagni di gioco e d’avventura. Aveva dieci anni e una gran voglia di crescere, di diventare indipendente.
Com’era consuetudine in quegli anni, doveva alternare lo studio e il gioco, con tante incombenze dentro casa, ed il lavoro.
Sì, con il lavoro, che era parte integrante del vivere, e non costituiva affatto cosa di cui stupirsi, ma una modalità d’aiuto alla famiglia quasi scontata.
Il nome Saverio fu la nonna a suggerirlo, per ricordare un suo fratello morto in guerra. In realtà lui non ricordava di essere stato mai chiamato col suo nome, ma sempre Save, dagli amici. Doveva essere parso loro troppo complicato e lungo, usare il nome per intero, ed era cosa che succedeva anche per altri. Solo in famiglia lo chiamavano Saverio; per gli altri era sempre e solo el Save. E proprio con l’articolo determinativo davanti al nome, perché nel dialetto del paese, il non usarlo, era considerato errore.
E poi aveva anche un soprannome: slargalòche, per dire che era considerato un po’ un fanfarone; uno che amava abbellire un po’ troppo facilmente i suoi racconti di avventure vissute o immaginate. Quando qualcuno usava chiamarlo con quell’epiteto, Saverio non si divertiva affatto. Talvolta si arrabbiava; comunque ne soffriva, perché lo riteneva un termine offensivo.
Succedeva rare volte che lo chiamassero con quel termine per lui ingiurioso, e quando capitava, solitamente avveniva per via di un qualche litigio coi compagni. Lo consolava, se si può dire così, il fatto che anche altri ragazzi avevano il loro bel soprannome e, solitamente, non erano nomignoli più lusinghieri di quello che usavano nei suoi confronti.
Nonno Matteo diceva di lui: quello là, cresce solo nel calar di luna, e soltanto nei capelli, vedendolo mingherlino e fragile di costituzione quando era bambino. Invece ora era cresciuto e si era fatto molto più robusto; tenace, e anche testardo qualche volta.
Fra il nonno ed il nipote, c’era una buona intesa. Una sorta di complicità taciuta, che tante volte spingeva il vecchio a giustificare il ragazzino; anche quando sarebbe servito, forse, piuttosto uno scapaccione. E avveniva con grande disappunto della mamma, che l’avrebbe voluto più severo.
«Non te la prendere, Laura; è solo un ragazzino!» cercava di sdrammatizzare il nonno, quando succedeva che intervenisse in suo favore.
«Un ragazzino, un corno!» protestava, Laura. «Quand’ero giovane, con me era tutta un’altra storia; non ricordate?»
«Eh, che ci vuoi fare… allora la pensavo un po’ diversamente e poi… poi tu eri una ragazza…», si giustificava il vecchio, pensando di dare una risposta ritenuta più che sensata. Invece aveva solo l’effetto di far arrabbiare ancor di più la figlia.
Qualche volta ci si metteva di mezzo anche la nonna, che a differenza del marito, non era partigiana. Lei lo faceva con tutti i suoi nipoti, e non soltanto con Saverio, come il nonno.
«Non mettetevi di mezzo anche voi, mamma!» la riprendeva Laura. «Oggi l’ha combinata proprio grossa e non merita nessuna giustificazione».
Allora succedeva che il ragazzo dovesse sorbirsi un qualche castigo. Di solito lo si mandava a letto prima del previsto, o gli si negava il pane di cui andava ghiotto, che era sempre misurato, perché costava troppo.
Nonno Matteo, chiamato confidenzialmente Teo, se ne metteva allora in tasca qualche pezzetto, che poi gli recapitava in stanza di nascosto; gli dava la buona notte, raccomandandogli di non dir niente a nessuno.
Teo aveva allora circa settant’anni, e li portava bene, benché sembrasse al nipote molto più vecchio. Era un uomo abbastanza alto di statura, o tale sembrava essere al nipote, benché fosse un po’ curvo a causa degli acciacchi dell’età e della vecchiaia. Aveva i capelli quasi bianchi, tagliati molto corti; un paio di baffoni folti, tendenti ancora al grigio; due occhi vivacissimi e una risata contagiosa. Era anche un consumato contafrottole, come talvolta lo definiva, con un pizzico di malcelata simpatia, la moglie Lena.
Nella sua vita aveva sempre lavorato sodo, come la gran parte dei compaesani, e in gioventù era stato anche emigrante. Con il fratello Giacomo, aveva lavorato nel Banato, all’epoca in cui regnava Cecco Beppe. E per l’imperatore d’Austria era dovuto andare in guerra, quando scoppiò in quell’ormai lontano 1914. Prima della Grande Guerra, si era recato perfino negli Stati Uniti, ma solo per riportare a casa quel suo fratello un po’ imbecille, che vi si era recato all’avventura, trovandosi ben presto in grande difficoltà. Da allora, Giacomo, rinominato Jacob, dopo la breve avventura americana, rigò diritto, fino a che morì al fronte assieme a tanti altri. Aveva ventisette anni e a casa una moglie più giovane di lui; una bambina di tre anni, e un figlio che sarebbe nato poco dopo.
Saverio pendeva letteralmente dalle labbra del vecchio Teo, quando questi gli raccontava di qualche sua avventura; di come era il mondo, quando lui era un ragazzino; dei paesi che aveva visitato, nei quali era vissuto, o che aveva soltanto attraversato. O ancora, della guerra combattuta al fronte, della prigionia in Russia, e del ritorno a casa, quando già lo piangevano per morto.
E il vecchio sembrava trovare gusto, nel riandare con la memoria alla sua gioventù; parlargli del mondo che era stato, di come era cambiato così profondamente, di come erano i luoghi un tempo tutto attorno, delle abitudini di vita dei suoi tempi e poi di tante altre cose che incantavano Saverio, facendolo sognare ad occhi aperti. Un argomento che lo interessava molto, era, ad esempio, quello della caccia; cosa a cui il nonno, un tempo, si dedicava molto. Oppure certe leggende, o storie, alle quali il ragazzino dava più credito di quanto meritassero, perché erano frutto della fantasia del vecchio, che realtà con qualche fondamento.
«Ma tu, nonno, hai mai ammazzato qualcuno in guerra?» gli chiese un giorno, Saverio, tornando volutamente su un argomento, che lo intrigava molto.
Il vecchio si fece triste e a un tratto silenzioso. Poi, guardandolo fisso negli occhi, rispose, quasi mormorando: «Caro Saverio, la guerra è una gran schifezza; la peggiore che gli uomini abbiano inventato. Ti auguro di non provarla mai…» Detto questo si alzò e fece per scendere la scala. Era una bella giornata di metà giugno. Stavano lì, seduti sull’ultimo gradino, dopo che avevano finito di pranzare, in attesa di riprendere le solite occupazioni.
«Dove vai? Perché non mi rispondi?» provò a insistere il ragazzo.
Il nonno non profferì parola; scese i gradini lentamente. Giunto in fondo, si girò verso il nipote seduto lassù in alto, sollevò il bastone, che agitò in aria con gesto che al ragazzo parve quasi solenne, e infine borbottò: «Già; purtroppo…» Mosse ancora qualche passo sulla strada; si fermò, guardando in alto in cielo. Accese lentamente il solito toscano, sputando a terra, dopo la prima interminabile boccata. «Cramantua, anche questa domanda mi doveva fare…» sibilò fra i denti, quasi in uno sfogo, per poi aggiungere quasi in un sospiro: «In fondo te la sei voluta, Teo. Adesso spero gli basti e non torni più sull’argomento». Dopo di che si avviò verso il bar che stava poco oltre, per un saluto agli amici che sapeva di trovare e bersi un bicchiere di vino in santa pace.
Saverio avrebbe voluto rincorrerlo e fargli altre domande; chiedergli quanti ne aveva ammazzati, dove, in che modo, se sparando con il fucile oppure con la baionetta, e mille altre curiosità. Fu allora che comparve sulla soglia di casa nonna Lena. Aveva fatto in tempo a sentire parte del discorso; quel tanto per comprendere quanto era capitato. La vecchia si sedette dove prima era seduto il nonno. Invitò Saverio a sedergli vicino; gli prese la mani fra le sue e poi, guardandolo con sguardo che era severo e dolce nello stesso tempo, prese a dire: «Oggi hai fatto intristire il nonno, lo so perché ho sentito quello che gli hai chiesto, e ho visto come ha reagito. So anche che non hai fatto apposta; che eri mosso solo da grande curiosità, cosa normale alla tua età. Però vedi, Saverio, quando si parla della guerra, quella vera, non assomiglia per niente a quella che studiate a scuola, a storia. In guerra non c’è proprio nulla di eroico. La guerra vera, significa dolore, morte, paura, fame e miseria a non finire. Quando eravamo giovani non pensavamo certo che avremmo visto tutto il male che ci è capitato. Anche il nonno ha sofferto molto a causa della guerra. Ha visto morire, fra atroci sofferenze, tanti amici. Tra gli altri, gli è morto anche il fratello Jacob, a cui era molto legato. Forse ha dovuto anche lui ammazzare per non essere ammazzato, di questo però non ne ha mai parlato con nessuno; almeno non con me. È un segreto doloroso che si porta dentro e penso sia giusto non fargli troppe domande».
«E Jacob, era l’unico fratello che aveva, il nonno?» interloquì il nipote.
«Certo che no!» disse la donna soprapensiero. «Ne aveva altri due: Domenico, e una sorella, Caterina. Jacob era il più giovane di tutti, per questo gli era molto affezionato».
«E gli altri due dove sono finiti?»
«Domenico, è andato in Merica quando aveva diciott’anni e non è più tornato; la sorella Caterina, invece, si è sposata con un uomo di Vico e vive ancora là con la sua famiglia».
«Ma lo zio Jacob, quando è andato in Merica, non è andato dove c’era suo fratello?»
«No, lui era andato in Colorado, mentre Domenico era andato in California».
«Ah! Ma tu e il nonno, quando vi siete sposati?» domandò Saverio, cambiando argomento. «Prima o dopo la guerra?»
«Ci siamo sposati quattro anni prima che scoppiasse la prima Guerra Mondiale; tuo nonno aveva 24 anni e io 21. E sai dove siamo stati in viaggio di nozze?»
«No, dove siete stati?» La nonna si fece un bella risata, poi rispose: «A selsar l’orz qui sopra casa, nel prato dove abbiamo appena tagliato il fieno e che allora era coltivato ad orzo».
«Non ci credo! Mi stai prendendo in giro».
«Assolutamente no, ragazzo mio. Allora non era mica come adesso, sai. Soldi non ne avevamo e quindi c’era ben poco da festeggiare. Ci siamo sposati alle cinque del mattino, poi, dopo la cerimonia in chiesa, abbiamo fatto un poco di colazione e quindi siamo andati a mietere l’orzo come ti ho detto. Poi, la sera, abbiamo fatto anche un po’ di festa, certo, e abbiamo anche ballato…»
«Non riesco a immaginarmi te e il nonno che ballate…»
«Birbante che non sei altro!» lo apostrofò la nonna, accompagnando il dire con un bel sorriso. «È perché mi vedi vecchia che lo dici, ma cosa credi? Sono stata giovane anch’io… ed ero anche una gran bella ragazza» aggiunse, Lena, tradendo un po’ d’orgoglio.
«Hai qualche fotografia tua e del nonno, di quando eravate giovani?» s’informò, Saverio.
«Qualcuna dovrei averla, ma non sono molte. Aspettami un momento; vado a vedere. Non ti allontanare; ritorno fra un momento».
Mentre la nonna rientrava in casa, passò di lì Ernesto, amico di Saverio e suo coetaneo. Era diretto in campagna, portava in spalla una forca per il fieno. Ernesto chiese all’amico che ci faceva seduto sulla scala e perché mai se ne stesse lì da solo. Saverio lo invitò a salire accanto a lui, spiegandogli che stava chiacchierando con la nonna e che tra poco sarebbe ritornata per mostrargli alcune sue fotografie.
«Allora mi fermo, ma solo qualche minuto» rispose Ernesto. «I miei mi stanno aspettando lassù al Pralònc per raccogliere il fieno».
«Ne abbiamo anche noi qui sopra le case di tagliato, ma non è ancora essiccato abbastanza per raccoglierlo» rispose Saverio, mentre accoglieva l’amico in cima alla scala.
Tornò Lena con in mano una scatola quadrata di lamiera che era stata una confezione di biscotti; l’aprì mostrando il contenuto: un pacco di vecchie fotografie in bianco e nero. Prima però di mettersi a sfogliarle, trasse di tasca alcune caramelle al rabarbaro, una ghiottoneria che riservava per se stessa, ma che in realtà condivideva volentieri con i suoi ragazzi. Ne diede un paio a Saverio e a Ernesto, ed una la scartò e se la mise in bocca. Poi iniziò a mostrare le fotografie, iniziando dalle più vecchie e anche più curiose, che ritraevano persone ai due ragazzi quasi ignote; perché ritratte in gioventù, ed altre, perché mai conosciute o morte.
«Questo è il nonno vestito da soldato!» esclamò Saverio, pigliandone una dalla scatola.
L’uomo era ritratto a mezzo busto ed era appoggiato a un tavolino sul quale si intravedeva il suo berretto. Aveva il braccio sinistro piegato a gomito col quale si reggeva il volto. Lo sguardo fiero, sembrava scrutare chi gli stava davanti. Al dito mignolo della mano destra, appoggiata al tavolino e chiusa a pugno, si intravedeva un piccolo anello. Aveva anche un orecchino nel lobo destro dell’orecchio. I mustacchi erano girati per l’insù e arrivavano quasi a toccare gli zigomi, poco al di sotto degli occhi.
«Che omone, che era il nonno!» fu il commento del nipote. «Ma dimmi, nonna, perché portava l’orecchino?»
«Era per combattere i reumatismi, che gli uomini si mettevano quella bròca» spiegò la nonna, senza dare troppo peso, ad un particolare per lei del tutto ovvio, ma non per il ragazzo, che continuò ad osservarla con attenzione. Mentre il nipote sfogliava altre fotografie, chiedendo informazioni su l’una o l’altra delle persone che vi erano ritratte, nonna Lena prese dalla scatola una lettera un po’ consunta, si aggiustò gli occhiali sopra il naso, e lesse a mezza voce: «Carissimo fratello, mi scuserai se ò tardato tanto a scriverti. Spero che stiate tutti bene, non posso dire lo stesso di me che infatti mi trovo in mala situazione e non vedo possibile rimedio alcuno. Avrei bisogno di aiuto ma mi vergogno di chiedertelo, dopo quello che è capitato. Fammi sapere cosa potete fare voi di casa per aiutarmi, ma fatelo presto perché mi sento dizperato molto. Adesso ti saluto e mando a tutti voi cari saluti e aspeto con inpazienza una risposta, restando il tuo obbligattissimo fratello Giacomo». Riposta la lettera con grande cura dentro la scatola, fece un lungo sospiro, poi disse al nipote: «Sapessi che avventura fu per il nonno andarsi a riprendere il fratello. Fu un viaggio lungo e faticoso, ma alla fine riuscì a trovarlo e convincerlo a ritornare a casa. È stata la sua salvezza in quel momento anche se poi, purtroppo, se lo è portato via la guerra».
«Nonna» la interruppe Saverio, «quale è il nonno fra questi qui?» disse, mostrandole un’altra fotografia.
«Questo!» indicò col dito.
«Che buffo! Avrà avuto la mia età a quel tempo e già portava il cappello come gli uomini».
«Sì, ma solo nei giorni di festa. Allora si usava così».
«Che dici, Ernesto: ci compriamo un cappello anche noi?» propose Saverio rivolto all’amico. Ernesto si fece una gran risata. «Se provo ad immaginarti con un cappello, come quello, in testa, mi viene da pensare al carnevale» replicò l’amico.
«Però sarebbe divertente; non trovi?» Dicendo questo corse dentro casa e ritornò con in testa un cappello del nonno, quello delle festa. «Come sto?» s’informò.
«Sembri un pagliaccio da circo!» replicò Ernesto.
«Rimettilo subito al suo posto» ordinò la nonna; «non vorrei che lo rovinassi. Se te lo vede il nonno è la volta che si arrabbia per davvero».
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