Con questo racconto è risultato 4° classificato – Sezione narrativa alla X edizione del “Premio di Poesia e Narrativa La Montagna Valle Spluga 2009
«Vita»
Il bastone nodoso del viandante affondò stanco nella neve che rifletteva il primo bagliore dell’alba. Nessun segno di vita; tutto pareva ancora immerso nella gelida immobilità della notte d’inverno. La natura assisteva muta osservatrice all’incedere lento di un uomo al centro della radura, solo. Era malamente coperto da un mantello sgualcito e la sua intera figura avanzava china sul terreno, come gravata dal peso di tutti i peccati dell’umanità. S’arrestò un istante, respirando con fatica l’aria fredda e alzando il capo verso la cima che lo sovrastava. Dalle spalle dell’aspro picco fece la sua comparsa il pallido sole, salutato dallo sguardo del solitario viaggiatore. Trasse dalla sua vecchia bisaccia di cuoio un pezzo di pane raffermo e iniziò a masticarlo, riprendendo il suo cammino con un po’ più d’energia, quasi che il risveglio della terra gli avesse trasmesso un poco della sua eterna forza. Frattanto, le ombre dei pini arretravano inesorabilmente e lo scricchiolio di qualche ramo s’udiva nel bosco, lieve segnale della presenza dei suoi piccoli abitanti. Al di là della radura s’infilava nel bosco uno stretto sentiero, che s’inerpicava sul versante boscoso della montagna come un serpente sul ruvido tronco di un albero. Il viandante lo imboccò sostenendosi al suo appoggio vitale, il suo bastone, il ramo d’un albero secolare tagliato e reso utilizzabile dal lavoro sapiente d’un abile montanaro, ma che manteneva ancora la rigida potenza che doveva aver avuto quando ancora apparteneva completamente alla natura, prima di divenire strumento d’inestimabile aiuto al viaggiatore.
La solitudine e il silenzio sono il balsamo ideale per stimolare l’indole riflessiva d’un uomo; se poi sostenuti dallo sforzo fisico i pensieri si sciolgono liberi l’uno dietro l’altro. E se si dovesse scegliere un luogo adatto per tale meditazione, allora l’immensità della naturale imponenza della montagna risulterebbe magnifica per trarre dal marmo delle idee confuse le splendide sculture che sono le risposte che tanto ricerchiamo, o anche solo il piacere d’aver lasciato libero di spaziare il pensiero in armonia con la nostra madre terra. Così faceva il viandante da lungo tempo, un passo dietro l’altro, caduto molte volte ma sempre rialzatosi in piedi, cercando risposte a molti perché o forse semplicemente dirigendosi verso qualcosa o qualcuno, al di là della foresta di pini sconfinata. A volte tossiva e quasi si rannicchiava su sé stesso, dolorante nello scricchiolare delle sue vecchie ossa, ma senza mai perdere la fede nella sua meta.
Un passo si successe all’altro, e così per molte ore di faticoso e inesorabile avanzare sull’angusto sentiero. «Avanti, avanti» si ripeteva tra sé quando dolorosi crampi gli invadevano le gambe e si opponevano alla sua tenace forza d’animo. Si chiedeva la ragione di affrontare l’impresa apparentemente folle di sfidare la montagna e compiere l’ardua scalata, lui che era solo un uomo contro l’infinità della natura; ma poi gli tornava in mente puntuale come il rintocco di una campana la promesse fatta al padre morente, dell’omaggio fraterno che aveva il sacro dovere di portare , e infine della ricerca interiore che aveva intrapreso insieme al duro viaggio.
Furono queste riflessioni a condurlo attraverso i silenzi e i respiri affannosi della giornata, finché il sole scomparve quasi d’improvviso dietro ad un monte e le tenebre gelide scesero a freddare le vecchie ossa del viandante. Un fumo che singhiozzava in una radura poco lontano gli permise di raggiungere una casupola di legno dalle finestre illuminate, che trasmetteva istintivamente il piacevole tepore di un fuoco e la serena freschezza di un giaciglio. Giunse sino alla porta e bussò tre volte, levandosi il cappuccio e rivelando un volto solcato da rughe e preoccupazioni di una vita e dalla spossatezza di un giorno di cammino. Gli aprì un uomo barbuto sulla cinquantina, con occhi azzurri e sospettosi.
«Che cerca?»
«Solo un riparo per questa notte»
L’altro lo guardò per un po’ e alla fine l’ospitalità dei montanari ebbe ragione del sospetto. «Va bene. Dietro casa c’è la legnaia; ti accendo un fuoco, seguimi.»
Così fece e meno di mezz’ora dopo sprofondò in un sonno senza sogni che l’avrebbe condotto fino al mattino seguente.
Quando si ridestò trovò un bacile d’acqua per lavarsi e una scodella di legno con del pane e del formaggio. Sorrise a quella manifestazione di solidarietà umana e, lavatosi la faccia e salutato il sole nascente, consumò la sua frugale colazione con grande piacere.
Si diresse all’entrata della casupola per porgere i suoi sentiti ringraziamenti e trovò l’uomo che l’aveva accolto che gli veniva incontro.
«Riparte già?» gli chiese, con quel suo tono di schietta naturalità. Il viaggiatore annuì e sorrise.
«Grazie per il vitto e l’alloggio; mi hanno salvato».
L’uomo fece un cenno come per dire che non aveva fatto niente di straordinario e domandò:» Dove andate?»
Il viandante alzò il capo e sollevò il bastone verso la cima nascosta fra le nubi. Il montanaro scosse la testa come a dire che era una follia; poi gli strinse la mano e stette lì, appoggiato all’angolo della sua dimora a vedere incamminarsi lo strano passante. Forse era uno spirito che vagava senza pace, o forse solo un uomo che aveva perso tutto e cercava qualcosa nella dolcezza dell’impossibile.
Il viaggiatore si voltò e notò l’uomo che l’aveva ospitato affiancato da una figura femminile e da un bambino dai capelli fulvi e sorrise; una lacrima solitaria gli percorse la guancia scavata, soave e struggente come il ricordo d’un amore perduto.
Il cammino fu lungo e spesso dovette sostenersi ai tronchi dei pini, affondando nella neve alta un metro e aggirando ostacoli apparentemente insormontabili. I pensieri profondi cedettero il posto alla semplice idea di arrivare a sera vivo e in grado di superare la notte, consapevole che non ci sarebbe stato più nessuno ad aiutarlo, solo il suo bastone.
Nonostante l’ombra della morte aleggiasse su di lui, ce la fece. Raggiunse al calar del sole uno spiazzo libero da alberi e in qualche maniera si accese un fuoco, sufficiente a trattenerlo in vita stretto nell’umido mantello. Curando di non lasciar spegnere la fonte della sua salvezza, il viaggiatore chiuse gli occhi e s’assopì.
Dormiva ormai da parecchie ore, quando si svegliò di soprassalto coi nervi tesi e lo sguardo fisso nell’oscurità. Il sesto senso, l’intuito o la Provvidenza l’avevano messo in guardia, e i punti luminosi nel buio significavano solo due cose: pericolo e morte. Ringhi sordi lo fecero rabbrividire e le ombre del branco apparvero nei bagliori sinistri del fuoco.
Si riscosse dalla paura e incendiò un capo del suo bastone nodoso, facendolo poi roteare minaccioso nell’aria. Ora distingueva chiaramente le bestie affamate che l’avevano scelto come preda, ignorando che è l’uomo il predatore più temibile.
«Avanti, bastardi!»sibilò l’uomo, trasformatosi in una macchina per la sopravvivenza. Gli furono addosso in un istante; ne abbatté due con rapidità e violenza, ma sentì affondare nella gamba e nella spalla le zanne fameliche dei lupi. Si dimenò e sentì il rumore secco della schiena di uno spezzarsi sotto un colpo del suo solido vincastro, mentre l’altro che l’aveva morso fuggiva via ululando, mezzo bruciato dal fuoco. Lo assalirono ancora, ferendolo ripetutamente, ma la disperata tenacia del viandante li lasciò a terra morti; alla fine anch’egli crollò esausto in una pozza di sangue sui cadaveri delle bestie che l’avevano aggredito.
Il sole ridestò le membra sanguinanti del viandante, che tentò di rialzarsi puntellandosi al bastone. Cadde a terra; si rialzò di nuovo e stavolta barcollò, ma rimase in piedi, a contemplare la strage dei lupi e a sentire il suo cuore battere incredulo. Era vivo, vivo per compiere la sua missione.
Mormorando una preghiera che non osava rivolgere da tempo chiese l’aiuto di Dio per poter avere la capacità di finire ciò che aveva cominciato. Così si rimise in marcia, zoppicando e malamente tamponando le ferite con lembi di stoffa grezza strappati dal mantello martoriato quanto il suo possessore. Si lasciò alle spalle la zona boschiva e si inerpicò, aiutandosi persino con le mani, su per la nuda roccia della montagna, che non offriva che rarissimi appigli e un nevischio che tagliava la faccia. Eppure non si arrese, vincendo la debolezza del corpo con la forza dell’animo e andando sempre avanti, incurante dei dolori acuti e delle fitte lancinanti. Stava per stramazzare al suolo, ma si rese conto che la cima era ormai a portata di mano: Itaca si intravvedeva all’orizzonte di quel mare di sofferenze; non doveva rinunziare. L’ultimo sforzo fu quello che richiese più energie , più volontà di vincere le avversità e la montagna, nemico inafferrabile e tremendo.
Infine sentì il respiro mancargli e comprese di essere ormai alla fine del suo cammino; superò uno spuntone di roccia e fu sull’alto, libero di assaporare la visione di un mare di nuvole che era uno spettacolo divino e struggente, tanto da cancellare dolori, peccati e dubbi di un’intera esistenza: tutto si perdeva nell’infinita bellezza del monte che si ergeva su quell’oceano di bianca purezza.
Si volse e trovò il tumulo del fratello morto da molti anni ma per sempre vivo nel suo animo, e capì di aver concluso la sua missione, di avere vinto la sua sfida con la natura e sé stesso, di aver raggiunto il senso ultimo del viaggio straordinario che chiamiamo vita. Gli restava solo da cantare l’omaggio allo spirito fraterno; e mentre la morte lo coglieva dolcemente e il tramonto tingeva di mille colori il cielo, affidò il suo ricordo alle parole d’un poeta sparse nel vento:
Epitaffio
Domate le tempeste del mio animo
sono qui, fratello, a donarti amaro
dei morti lo struggente ultimo canto,
a udire il tuo spirito ora nel vento.
La sorte ti ha colto dal mio cuore,
fraterno fiore per sempre reciso.
Stretto da doloroso strazio lascio
a te, triste omaggio per tale rito,
voce stillante lacrime fraterne,
e in eterno addio, fratello, addio.
Pietro De Giambattista