Briciole

di

Salvatore Perrella


Salvatore Perrella - Briciole
Collana "I Gigli" - I libri di Poesia
14x20,5 - pp. 192 - Euro 14,50
ISBN 9791259513014

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In copertina: fotografia dell’autore


Tenendo per mano sostanziosi riferimenti classici che ne innalzano la percezione poetica, l’autore dona una complessa raccolta di poesie che grazie a una parola decisamente penetrante, straordinaria e sensitiva, giunge a bussare il cuore.
Negli incunaboli del processo lirico le scandagliate alchimie dell’Amore si fanno riverbero di calore che avvolgono l’animo, una tensione emotiva che colloca le molteplici sembianze amorose in una personale silenziosa biblioteca; la sacralità dell’Amore è posta nel suo krasnyj ugol.
Nell’autore l’Amore si fa arco a tutto sesto al commosso sentimento della vita.


Briciole


Per te Amore, solo per te


Cantami, o Musa
“Non è una richiesta, ma un’urgenza”


Prolusione

Quando ancora le alee di bottega unitamente agli esistenziali labirinti mi rilegavano gli studi a esigui giri di lancette, e con la voce del silenzio ricercata nelle solitudini dei monti o in notturni risvegli, vivevo il tempo di sequenzialità.
Adesso mi accorgo che lo vivo come se fosse un’unica grande onda; mi accorgo che mi sono fatto antico.
Ora la quiete è il mio tempo, spendo me stesso in una calma di essenziale antichità, ho rafforzato in me il concetto del poco, dopotutto l’abbondante non è mai rientrato nelle personali mire, e poi nelle scritture è sigillo che nel cercare Dio bisogna volgersi verso il nulla, anche perché proprio il nulla è l’unico luogo che ci sarà concesso di abitare.
Dovessi portare in supplica un’abbondanza allora invocherei quella sua indefettibile luminosità, tenerla in affianco proprio come si sta accanto al fuoco del camino, perché quel riverbero di calore è Amore; in taluni altri casi è vita in scorrimento.
Purtroppo la quintessenza di questo sentimento, parimenti a una distanza che tende sempre più a spostarsi in un irraggiungibile arrivo, è ancora lontana dal conclamarsi in un infinito che non tenderebbe mai a nessuna fine.
Dopotutto l’alchemica dell’amoroso sentimento per genesi e per susseguenza poi, in ostilità alla concentricità del vivere, è solito srotolarsi su percorsi temporali che raramente oltrepassano l’insita breve durata dello stesso, quasi mai si coniuga in un adamantino religioso cammino d’affianco.
Per sboccio si manifesta in accecante stravolgimento, ciò perché al suo nascere artiglia a sé i più profondi eroici furori, e questo fa sì che in sofferma tende poi a concretizzarsi nella sola possibile desiderata visione, cioè un amore dalla durata eterna.
Motivo per cui una volta giunti sulla soglia dell’ascritta elevatezza di questo nobile sentire, nel prosieguo poi non si è più propensi a sfociare nella totale accettazione di quella reciproca connaturata universalità, si scorge qualcosa di defettibile, qualcosa viene meno; cioè tendiamo a normalizzare quello che per natura è e deve rimanere eccelso.
Le fonti si prosciugano, i moti planetari si arrestano.
Dopotutto mai ci s’incammina per conseguire quella che in certezza potrebbe apparire solo una deludente visione dell’altro, questa sublime prerogativa invece è proprio dei santi e degli eremiti, entrambi detengono la sapienza del come attraversarla, giungendo a conseguire in pienezza l’invocata luminosità.
Non prendendo più sfavillo nell’altro finiamo per restare sospesi alla sua visione, proprio come potrebbe apparire sospeso il cammino per lo smarrito beduino innanzi al profilarsi di un’oasi.
L’ingannevole miraggio che accalora il beduino diviene allusa vicinanza che finisce col far affrettare il passo, con l’unico risultato che il vitale slancio tenderà, a più riprese, a rompersi puntualmente in tante silenziose algie, portando quindi l’amoroso sentimento alla naturale fine.
Potremmo dire che Eros, non potendo quasi nulla innanzi agli ineffabili domini di Crono, effonde sull’altare dell’eternità un fluire di forzata condivisione apportando all’Amore una ricolma di tante invisibili spine, soluzionandosi, pertanto, in una passionevole e sopportata accettazione.
Quindi si potrebbe affermare che Eros, nell’elevarsi in accosto a una stasi di limpida divinazione, parallelamente rafforza questo incantesimo trafiggendo gli occhi nella sicura visione che il fluente istante sarà per sempre.
Tant’è che i lucchetti che per malsana abitudine vengono lasciati in vincolo ai monumenti o in chiusa ai parapetti dei ponti, etc., sottendono la reciproca promessa che l’Amore non si sfaldi mai, parimenti, costituendone pagano feticcio, portano in sparge la silenziosa preghiera che l’instauratosi Amore non si svuoti dallo stupore e di ogni conseguibile umana eternità.
Cosicché tutti i momenti fondativi a tale desiderata visione, espandendosi nei più remoti interstizi d’anima, in avvolto alla speranza, che per sua natura presuppone sempre una certa delusione, apportano la certezza d’essere per elezione gli unici prescelti ad aver ricevuto in dono l’univoca languida amorevole trafittura.
Scostamenti dall’onirico all’amarezza del reale che arrecano solo tanta addolorazione… “Ahi come mal mi governasti amore! Perché seco dovea sì dolce affetto – Recar tanto desio, tanto dolore?”.
Ancor più quando nella tenerezza delle incomprensioni, nonché delle soventi litigiose rotture e collaterali riappacificazioni, nei flussi delle relative interdipendenti reciprocità, anche senza desiderarlo, si finisce silenziosamente con lo sfociare in spazi vitali che tendono sempre più a incrostarsi rendendo in tal modo l’affianco una necessaria anonima comparsa; da qui scaturiscono le immani tragedie del vivere e a seguire quello dello spirito.
Amar in siffatta illusione imprigiona l’anima in angusti piombi donandole in sopravvivenza la sola scodella del linguaggio antico dei sentimenti, e quindi sarà per questa resa che quel riverbero di calore tende a essere introitato nella sola forma di un’implorata, ma inattuabile, velatura d’Amore.
Spogliati dalle tessiture di questo sublime sentimento, che per genesi prega puntuale costruttiva vicinanza, ecco che l’essere affronta, in primordiale terrore, quella sua esistenza che finisce per farsi contemplativa solitudine.
Eredi delle correnti illuministiche e discenti di un permeato umanesimo, nonché detentori in potenza dell’oggettiva e illuminante ragione, ebbene forti di questi lasciti amiamo raccontarci nell’incorporea bellezza degli ideali e di parallela introitata magnificenza, profilandoci, in tal modo, come atomi in equilibrata sintonia di un universo a cui portiamo in trasfusa il nostro essere quale termine ultimo.
Quantunque tutto ciò, soventi incappiamo in puntuali e costanti distrazioni dal declinare l’Amore quale fattore di prossimità, finendo, invece, alla resa dei conti, per ritrovarci a srotolare ben altro indifferente copione.
Sarò in errore, ma sempre più constato che, nonostante le tante decantate eterogenee teoriche esondazioni d’Amore, il mondo continua a scorrere in maniera piuttosto sbilenca, il genere umano ancora continua ad affermarsi in un “non essere”, cioè l’accumulo del proprio sentire interiore stenta a farsi costante praticantato.
Quindi, incredulo, rifletto e mi chiedo perché mai l’individuale sentire non trova humus nell’avventare radici nella cosiddetta normalità della vita?
Perché mai ogni propositivo intento è puntualmente deviato in quelle circostanze in cui finiamo col rimanere vittime di un’esistenziale disorganizzata coscienza, indi oppressi e soffocati, per differenza algebrica, tra la cruda realtà della vita con quella che, invece, in anelate emozioni poniamo in distaccato ologramma.
A comprenderlo meglio di quando ci distacchiamo dai coniugati dell’Amore, cioè trattenuto nella sola teorica convinzione e susseguentemente frenato alla pratica, basterebbe volgere il nostro vedere verso coloro che, definiti per lessico sociale fragili, sono puntualmente riposti in abbandono, per dapprima dalla latitanza tesa in essere dalle varie gerarchie istituzionali, e susseguentemente poi, in giustifica a opportuni e costruiti alibi di coscienza, da coloro che per linee affettive dovrebbero rendere a quelle esistenziali fragilità incrollabile Amore.
Amore che, in somma d’analisi, è tanto facile predicarlo a parole ma complesso e quindi irrealizzabile nei fatti, con il risultato finale che, nonostante l’emotiva bellezza dell’intero creato quale imperturbabile magma alla vita che ci portiamo dentro, finiamo per vivere tante fittizie reciprocità che nell’intima sostanza ci lasciano sovrani assoluti delle nostre solitudini.
“Ognuno sta solo sul cuor della Terra, trafitto da un raggio di sole: ed è subito sera”
La completezza di un ardire sentimentale non farebbe venir meno l’ineluttabilità del destino finale, ma bilancerebbe in solidifica la consapevolezza di non sentirsi soli, si avrebbe certezza d’essere tenuti per mano sino al bagliore di quell’ultimo raggio di sole.
Quindi urge riprendere a riparare cosicché da ricostruire quello che per davvero è necessario, riprendere a trascendere la vita con l’unica luminosità possibile, cioè il sentimento dell’Amore, trascendenza che racchiude le cifre sicure dell’eterna fusione con l’altro, sino a non poterne più fare a meno.
“Ho sceso dandoti il braccio, almeno un milione di scale – e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino – con te le ho sceso perché sapevo che di noi due le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate, erano le tue”
Un addentrarsi d’anima che azzererebbe sul nascere ogni deprimente vuoto, ogni mesta sensazione d’abbandono, momenti di scosto che per fattuali circostanze sempre più caratterizzano la dualità dei sentimenti.
Pertanto ad arginare in salvezza quei battiti che alla nascita degli stessi ci sussurravamo essere l’unica ragione di vita, ebbene basterebbe portare in voce il seguente silenzioso sussurrio “Ascolta come mi batte forte il tuo cuore”.
E già, riparare, costruire, salvare, proteggere, coltivarsi alla meraviglia dell’altro; ma come ci si potrebbe adoperare in tutto ciò, chi potrebbe venirci in aiuto; come si potrebbe portare in barriera tutta la bruttezza che sempre più sta contaminando la fluente odierna quotidianità, che sempre più ci sta imbestialendo facendoci regredire a forme ataviche di selvaggismo.
Sempre più stiamo perdendo in Amore, stiamo sfociando in uno stato d’essere in cui Verità e Vita non vanno più d’accordo, questo perché di base stiamo scorporando quel sentire d’Amore da ogni cosa, divenendo vulnerabili a quell’invisibile lotta con sé stessi in cui perdiamo tutto.
La sacrale emotività alla vita sta nel comprendere che la stessa non è mai un viaggio che include di suo una già facile routine organizzativa, ma per l’insita imponderabilità, trattasi, per straordinarietà, di un viaggio emotivamente fuori da qualsivoglia protocollo, e quindi nell’intraprenderlo è richiesta la consapevolezza dello spostare fisicamente tutto sé stessi al suo eterno fluire.
Nell’adempiere a ciò diverremmo portatori di tesori che ricevono in cambio un accumulo di diversi altri tesori; ma è necessario sapere che la quasi totalità di questi tesori non si conterà mai in quella ricchezza che si elenca nella relativa materialità dell’accumulo, bensì saremo innanzi a tesori ingombranti che non potremo mai portarceli via; indi dobbiamo lasciarli dove li rinveniamo; per cui quello che potremmo portare via sarà solo un prezioso solco nell’anima; solo un costituito momento che si farà racconto. Constatazione di fatto questa che si approssima a sfiorare molto da vicino l’immanente concetto di Dio, perché è all’astrattezza della sua cifra che siamo destinati, ovverosia a nessun altro vacuo materiale limite.
Quindi chissà se la forza catartica della poesia potrebbe aver con sé i fondamenti di una nuova rinascita, forse sì.
La poesia costringe all’ascolto di sé stessi, questo perché sfugge a qualsiasi controllata forza di surrogazione, la poesia potrebbe illuminarci alla primigenia essenza di cui ogni magmatica interiorità ne racchiude microscopica favilla; pertanto non sarebbe errato affermare che la poesia è un esclusivo fatto d’anima.
La poesia ha la forza di sbaragliarci a spazi immensi, prendendo in cambio appena un pezzetto del cuore dell’altro, e ciò si declina in un solo possibile verbo, questo si chiama Amore che accudisce, Amore che ripara altro Amore.
Anni orsono fui ospite di una conviviale serata che risultò essere a dir poco chiassosa, insoliti momenti che anche l’indomani ti lasciano uno strascico mentale di rimbecillimento.
Questo perché chi s’era preso l’impaccio d’individuare il pertinente locale non aveva tenuto in considerazione che l’assommarsi dello stare insieme equivale anche a scambiarsi racconti, dopotutto già lo formulava Plutarco nelle sue Dispute Conviviali: “noi non ci sediamo a tavola per mangiare e bere, ma per mangiare e bere insieme”, ciò significa che lo stare insieme è un gesto che gratifica alla pari sia chi ospita, sia chi è ospitato.
Quindi per ovvietà di tale svista ci ritrovammo in una taverna dove le eterogenee e sostenute rumorosità si declinavano a tutte le possibili note tipiche di un caravanserraglio al sopraggiungere della sera.
Come il continuo vociare possa poi completamente intontirti e di conseguenza portarti all’estraniamento è un qualcosa d’inconcepibile, e come se una bandiera in pieno vento anziché stare a sventolare tutti i possibili orgogli se ne rimanesse in affloscio al pennone, eppur il vento sta lì che soffia, intensamente.
Ma ancor più inspiegabili sono quei cinque secondi in cui, quasi per magia, tutto l’indefinibile vocio all’unisono cala sin quasi allo zero decibel; come se in tutti gli astanti scattasse una sorte di antropologica resa per l’essere andati oltre il limite fisiologico di un’accettabile sopportazione al rumore, sin quasi a non accettare più persino sé stessi.
Quando ciò accade in tutti s’infonde smarrito stupore, perché oramai si è inclini a pensare che il silenzio non abbia più nulla di naturale, bensì è solo premonitore di un tremendo accadimento.
Sfrecciato via il predetto impalpabile tempo, la rumoreggiante onda riprende nuovamente vigore.
In cappa a queste fragorose atmosfere fui destinatario di una domanda che mi colse alla sprovvista, cioè in quel contesto la stessa mi apparve impropria.
Praticamente a cosa serve la poesia?
Sbucciando veloce riflessione, dissi… a riparare.
Rendendomi conto che nei convenuti quella risposta, fatta di un solo verbo, stava ingenerando più di una perplessità di cosa volessi per davvero intendere, subitaneamente aggiunsi: a riparare tutto questo, cioè a curare la fragile quotidianità.
Solo nei minuti successivi mi sovvenne pensiero che la risposta più appropriata sarebbe stata nel dire, parafrasando un verso di Anna Achmàtova: “la tenerezza vera non si confonde con niente. È silenziosa…”
Ma ahimè, in quella sarabanda di rumori quel verso non si fece voce, maturai la sensazione che date le circostanze se ne fosse rimasto accucciato in qualche pertugio d’anima così da non doversi frantumare.
Rientrato tra le silenti mura di casa, e con il pensiero ancora in scia alle azzeranti frastornazioni di qualche ora prima, iniziai a rimuginare sul fatto che la poesia attinge alambicco proprio dalla fragilità del quotidiano, e sovente le giunge in aiuto; dopotutto, è quello che da sempre, tacitamente, vado pensando.
In aggiunta presi a chiedermi perché proprio quel verbo! Cavai me stesso dall’impiccio pensando che per indiretta sponda dovette sembrarmi facile artigliare una delle tante valenze di significato dello stesso verbo, ovvero rimettere in buono stato, e così mi resi conto che in fondo era proprio quello che volevo intendere.
In tal modo mi ero dato gli ingredienti per trascorre una notte insonne.
Iniziai a mulinare sul fatto di quante volte nella vita ho avuto bisogno di ritornare in buono stato, tante volte.
Quando nel mio esistenziale fluire mi rendo conto che perdo ai punti, mi è sufficiente prendere aria in “che tu sei qui – esiste la vita e l’individuo, che il potente spettacolo continua, e tu puoi contribuirvi con un tuo verso”.
Quando, invece, precipitato a tappeto, il conseguente rialzarmi mi induce sofferente fatica, allora sussurro a me stesso “sotto i colpi d’ascia della sorte il mio capo è sanguinante, ma indomito”.
In entrambe le poetiche vi ho sempre rinvenuto il limo di una sprigionante sete d’infinito, una sete che per poter essere appagata bisogna necessariamente farsene una strada cioè incamminarsi, e per giunta senza mai affrettare il passo, perché l’infinito non è mai un affare d’immediatezza, bensì solo nella misura del passo dopo passo si raccoglie la somma di tutte le apparenti rinunce poste in essere per arrivarvi.
Sempre ho appurato che non v’è riparazione che non attinge in astratto dal biblico afflato del “io faccio nuove tutte le cose”, parole che non rappresentano solo un dire profetico, ma la suggerita chiave del dover continuamente rinascere, parole che racchiudono a sé tutta l’esuberante connaturata forza che ogni primavera in riproduttiva violenza effonde.
Sovente a questa interiore vitalità, così da rimanere fedele alle mie astrusità di pensiero, nei vari momenti riparativi necessito l’aggiunta di un edulcorante, cioè devo recarmi a osservare una linea d’infinito, oppure quando impossibilitato almeno devo sognarla.
Riconosco che in sbroglio sono formule di riparazioni alla vita piuttosto arzigogolate e dolorose, ma sono persuaso che quando bisogna necessariamente provvedere a una riparazione d’essere, ebbene la guarigione deve farsi per dapprima una faccenda d’anima; e l’anima è più fragile di qualsivoglia cristallo tenuto avvolto nella più sottile carta di riso.
L’anima vive d’Amore, quando è mancante siamo già morti, tutto il resto è farsa.
Con i teoremi parzialmente invertiti potrei definire l’anima come il silenzioso interrogativo alla vita che agguanta rinforzi nella tenue luminosità della coscienza.
Un’anima che si coniuga in Amore è un’anima che si fa poesia alla vita facendocela vivere in semplicità, così come in semplicità si può osservare un panorama d’infinito, nonostante questi connatura a sé tutte le irrisolvibili equazioni dell’incontenibile grazia divina che da sempre sottende quell’uno che a sé trascende e a sé è immanente.
In quel prolungato notturno di pensieri cercai di comprendere da dove mi arrivasse questo moto d’astrazione del riparare la personale provvisorietà contornandola in un orizzonte d’infinito, cioè come riuscivo a fare sempre nuovo me stesso, per meglio dire com’è mai possibile essere consapevoli del proprio minuscolo e contestualmente riponendo ininterrotto desiderio d’inserirlo sempre in uno spazio d’infinito?
Senza alcun dubbio posso dire che molte lucine mi sono arrivate dai ramaioli del Leopardi, una palpitante emozionale liquidità alla vita che mi ha sempre aiutato a intarsiare la quotidianità nella sua invisibile poetica; forse perché mi è sempre stato sufficiente riflettere alle sentimentali energie che profondeva affinché tutti i momenti della sua dolorosa esistenza fossero sempre istanti di bellezza, sino a compimento di quell’inevitabile ultimo respiro.
Non si è mai risparmiato di riparare alla vita il suo io addolorato, ha puntellato ogni fragile sofferenza, personale e cosmica, in una resistenza d’Amore; anche se l’Amore nel raggiungerlo, negli ultimi passi, sovente, gli sfuggiva via.
Maturai pensiero che doveva essere in subordine a questa mia silenziosa e oramai metabolica convinzione che amo scovare in tutti gli aspetti della quotidianità la sottilissima insita delicatezza, e ciò, nonostante la mia letterale inanità, mi consente di addolcire un gesto, accalorare una parola, nonché riversarne in spalma a qualche saltuario trafiletto.
Forse sarà per questo motivo che rimasi smarrito nel vedermi attribuire in dedica questo sussurrio: “Ecco di lei posso dire che mi regala la poesia, la poesia del vivere”.
In quel dire consolidai pensiero che nell’attuale transito esistenziale c’è sete di poesia, di emozioni terse e profonde, il bisogno di credere fermamente che ogni cosa posta in essere sia scevra da qualsiasi nefandezza, abbiamo bisogno di scorgerlo da chi ci sta vicino, affinché possiamo, in fiducia certa, replicarlo in esempio, altrimenti finiamo col rassegnarci che qualsiasi accorto intento non servirà mai a nulla, se non a rendere pregne solamente le tante retoriche dicibili teorie.
Necessitiamo di testimonianze salde, abbiamo bisogno di chi in semplice maestria ci spiana le difficoltà che attorcigliano la vita, abbiamo bisogno di non sentirci abbandonati nell’azione o ancor peggio nella parola, abbiamo bisogno di poter dire a noi stessi seguivo in pienezza quella testimonianza perché mai mi è stata di malevolo ritorno, l’ho seguita e mi sono avvicinato agli empirei dell’anima.
Ecco perché la poesia, laddove le religioni hanno trovato fallimento, trattiene a sé tutte le potenzialità del divenire l’unico atollo dove il genere umano vi attingerà fondante salvezza; perché la poesia non è affatto quella summa concettuale che sovente è bollata come vacua e superflua virtù; senza tralasciare il fatto che i poeti vivono in pari alle loro parole.
La testimonianza poetica ci responsabilizza all’unicità dell’altro, frantuma quelle timorose dubitanze che ci assalgono quando siamo in procinto nell’attraversare certi muri che la vita immancabilmente frappone tra il possibile e l’impossibile, tra una meschinità d’atto e di pensiero anziché di un comportamento pregno di sensata umanità.
Solo attraversando il fuoco della poesia troveremo i necessari abbisogni al “tedioso e insopportabile” vivere; ma più d’ogni conseguibile linea nell’oltrepasso troveremo quella necessaria illuminazione tale da renderci universale pienezza, un Amore che per dapprima si fletterebbe su noi stessi.
“E se tu forse credi ch’io t’inganni, fatti ver lei, e fatti far credenza con le tue mani al lembo de’ tuoi panni … quando mi vide star pur fermo e duro, turbato un poco, disse: or vedi, figlio: tra Beatrice e te è questo muro”.
L’odierno vivere è ben lontano dall’attraversare quel muro di fuoco, le eterogenee attualità sono decadute a un livellato inemotivo deserto; ma un deserto, nella sua accezione geografica, riesce sempre a sopravvivere a sé stesso, invece, l’umana sostanza, umiliata, incompresa, nonché vorticata dalle discendenti interazioni sociali e da presuntosi arrivi, non sopravvive mai a sé stessa.
Improntiamo il vivere allo scoraggio assoluto, lasciandoci derivare in ammalo a portentose vacuità d’essere, d’ogni bellezza ne abbiamo perso l’indice, pregni di qualsivoglia illimitata certezza abbiamo occultato il filosofico pensiero che talune insondabili verità, per quanto all’essere umano irraggiungibili, sono da qualche parte esistenti.
“Mille cose sai tu, mille discopri che sono celate al semplice pastore … e quando miro in cielo arder le stelle, dico fra me pensando: a che tante facelle? … che vuol dire questa solitudine immensa? Ed io che sono? Indovinar non so. Ma tu per certo giovinetta immortal, conosci il tutto”
Dunque potrei affermare che deve essere stato il silente agglomero di quella dorata dedica che deve avermi posato nell’anima, con la stessa lentezza con cui un persistente gocciolio consolida nei secoli stalattiti e stalagmiti, la convinzione che un verso di poesia può davvero rappezzare l’umana fragile esistenza; quindi col senno del poi, in quella lontana parentesi di convivialità, seppur nelle pieghe di un dire istantaneo, ritenni giusto affermare, tout court, che la poesia serve a riparare.
La poesia ripara in delicatezza la vita, e quando qualcosa è riparata in fondo è come se fosse stata nuovamente costruita, quindi cos’altro è il vivere la vita se non il continuo e rinnovato attraversamento della quotidianità, per sua natura precaria nei fatti, interiormente inascoltata, proprio come una verità che si dilegua al vento.
Un attraversamento in cui mi costruisco mappe di pensiero, accumulo astratte emozioni, incerotto una melanconia, metto in scrigno un’inaspettata ricevuta dolcezza, mi smarrisco nella parola per il solo fatto d’essere rapito dalla bellezza degli acquerelli in affioro sul volto della donna amata, mi emoziono quando mi accorgo che gli occhi di lei non sono altro che due acquasantiere dove l’Amore prende bagno.
Orbene dopo questa lungaggine di pensiero comprendo che dovrei lasciare spazio al sorgere di una premessa curata da persona addetta alla materia, ma considerando il fatto di trovarmi già negli scorrimenti della scrittura, mi assale l’arroganza che, continuando a intingere il pennino nei deliranti calamai, provvederò motu proprio, in appoggio a questa dozzinale raccolta di componimenti, alla discendente nota introduttiva.
Senz’altro l’avvalersi di valente firma consentirebbe di dipanare gli intenti propositivi dell’autore in modo d’ammaliare il lettore a non interrompere lo sfogliar di pagina, giacché in quella successiva troverebbe quel soffiar di verso da meritare l’inevitabile decelerazione di clessidra che giustappunto solo la poesia sa porre in accadimento.
Rinuncio al panegirico di una premessa perché non è mia intenzione affascinare oltremodo nessuno, se qualcuno si ritroverà a esserlo sarà perché inaspettatamente l’individuale fumarola sentimentale scoccando prenderà ad ammaliarsi di par suo non tanto a questi miei versi, ma bensì a quella coscienza emozionale che anela a narrare i personali infiniti che la vita elargisce a ciascuno di noi, correnti d’emozioni che lasciamo fuggire via e che raramente pensiamo di trattenerle nella leggerezza tramandabile delle parole.
Pertanto a quei pochissimi che riusciranno a far varcare sé stessi nelle volute seduttive del quotidiano, ebbene a questi va l’ardente invito a iniziare sin da subito a tramutare inestricabilmente la propria quotidianità in quegli assoli di fugace bellezza che intridono i meandri d’ogni singola vita e che tacitamente tendono ai sogni desiderati, se riusciranno in ciò allora avranno trovato la poesia.
Parimenti rinuncio anche all’eventuale stiletto di una recensione, non tanto perché non desidero sentirmi dire che la mia poesia non da ossequio quasi a nessuna regola di materia, ancor peggio sentirmi in sentenza che la stessa non racchiude in espressione nessun universale messaggio, giacché la poesia è voce che parla agli uomini elevandone l’umana condizione apportando conforto innanzi a quegli abissi che per discontentezza morale siamo soliti inciampare.
Rinuncio alla specificità di un focus perché nella vita ho imparato che le critiche quasi sempre sono ingiuste, denigratorie e talvolta bulinate a convenienza, senza tralasciare il fatto che molto spesso certi incontrovertibili giudizi vengono coniati in distacco da una fattiva e veritiera comprensione di ciò che si vuole incorniciare in lapidarie valutazioni.
In verità potrei affermare che fuggo dai tribunali dei giudizi perché sono persuaso che, al di là di qualsiasi silente marchio, ogni singola quotidianità è così personale che nessun altro può discettarne in proposito se non lo stesso protagonista, naturalmente rispecchiandone le verità dei moti da cui ogni costrutto trova la relativa genesi.
Ogni singola quotidianità è una miniera sacrale e sensibile dove invisibilmente se ne sta acquattata la poesia, forza segreta, contagiosa e senza farmi troppo sentire, sussurrandolo appena, la poesia è anche forza insurrezionale.
Che cos’è la poesia?
Rispondere esaustivamente a questa domanda occorrerebbe essere dotati di una buona dose di lucida follia, ove per follia sarebbe da intendersi lo scolio continuo di quella normalità che in tempi più antichi la si chiamava “l’ovvia semplicità delle cose”, aura di ogni viva bellezza, lume di ogni irripetibile minuto di vita, quella semplicità che ci diversificava l’uno dall’altro donando a ognuno un proprio odore, un proprio sapore, una propria personale esistenza.
Tutti eravamo diversamente unici e profumati come onde di uno stesso mare, mobili e nello stesso tempo immobili, ma sempre vivi negli alvei di un tempo che nella misura dei limiti umani sapeva sempre declinarsi a un naturale rinnovamento.
Quella semplicità che oggigiorno, artefatta, infilata e livellata nella fugacità materiale di tutte le cose, ha finito per immetterci nei mari di una totale assonnata assimilazione, tale da renderci, sotto qualsivoglia profilo, dei “sistematici pazzi normali”.
La poesia è il respiro tranquillo di un bambino, forza serena che s’apre al mondo, la poesia è la quotidianità che invoca sempre un nostro rinnovato bacio, ma soprattutto il nostro eroico e puntuale esserci, la poesia ci stampa addosso la vita, così come una pallottola ci sbatte addosso la morte.
Una quotidianità che equilibrandosi tra alternanze di sogni e realtà si fa Briciola e ti resta dentro nutrendoci sino alla fine; perché quella Briciola, transustanziandosi in pura memoria, si fa alimento che ci spinge a volerne delle altre dello stesso sapore, e quanta innamorata fatica occorre poi per ricrearne delle nuove, ma vale la pena.
Chi scrive di poesia?
Rispondere a questo interrogativo è sin troppo facile, di poesia scrivono tutti.
Scrive poesia chi corsiva un bigliettino d’auguri o quant’altro senza fermarsi all’aridità di stereotipate parole, ma risoluto a creare incanto lo cesella con parole che vanno dritte al cuore, parole che centrano il bersaglio perché attinte da quell’unicità di sentimenti che è cara al solo destinatario.
Poche parole cercate e quel straccetto di carta si fa prezioso manoscritto da custodirsi oltre la luce degli occhi; perché quel filo d’inchiostro è una voce che solo a te poteva dire certe cose, è una voce cercata e per questa voce d’Amore.
Scrive poesia chi, nell’innocente tempo dell’età leggera, con mano contenta e tremula, imbratta un muro per manifestare a tutti “al mondo non chiedo che te”, scrive poesia chi riesce a far rialzare chi è caduto, scrive poesia chi tenta di cambiare le cose che non vanno, scrive poesia chi nel regalare una conchiglia di mare sa far udire il messaggio in essa racchiuso “innamorati di me”.
Scrive poesia chi riesce a rendere la ripetitività del quotidiano nell’attimo più bello che si stia compiendo in tutto l’universo, scrive poesia chi riesce a trasformare ed esternare poi quella bontà interiore in un dono di bellezza alla vita; ecco perché tutti scriviamo poesia, la poesia è la quotidianità.
La poesia versa nella vita, come fa l’acqua sui catecumeni, silenzi di pienezza e di comprensione che scardinano il vacuo pensare, frantuma gli alibi delle pseudo morali, svia alla luce del bene il nostro rabbioso precipizio, la poesia abbigliandoci a nuovi risvegli ci tramuta in vigili dispensatori dei più alti livelli d’Amore; la poesia si pervia all’anima come una preghiera che si fa grazia ricevuta.
Probabilmente potrei sintetizzare il tutto affermando che la poesia ha la capacità di insegnare a saper guardare dentro le persone, ci consapevolizza a guardare in autenticità il senso più profondo della vita.
Assunto ciò, con pigli di vanesia mi preme anche dire di come si scrive una poesia.
Una poesia è scritta portando in dote gli echi della propria coscienza, quella porzione di coscienza più vicina a Dio, è in questa spirituale artigianalità che va compiendosi la scrittura della poesia.
Una poesia è creata in un sussulto di lirismo che ti assale come una febbre per incidersi poi in quell’orologio di tempo e di emozioni che per costume chiamiamo cuore: “notte d’estate… luce di stella cadente… voce di donna, cattura… dov’è stato tutto questo tempo… lontano dagli occhi… il cuore soffriva… rivederla, il cuore m’è raddoppiato”.
Cosa c’è in questi versi che non va? Non v’è dubbio, tutto.
Nessuna delle regole è rispettata, recano in sé solo il pallore della quotidianità, eppure quelle pronunciate timide parole racchiudono una forza tale da sovvertire l’ordine anestetizzato di tutte le cose, la potenza di quelle parole è l’horror vacui che si fa riempimento.
Certo verrebbe da pensare che tal pronunciamento sarebbe da ascriversi solamente a un momentaneo accadimento sottolineato con delicatezza da persona per così dire in sensibile attesa.
Eppur quelle parole racchiudono la potenza creativa dell’aggiungere un filo alla vita, e per caso nello Zibaldone non v’è annotato che una poesia, indipendentemente se scritta in versi o in prosa, questa alla stregua di un sorriso, aggiunge un filo alla tela brevissima della nostra vita, rinfrescandoci e accrescendoci in vitalità!
Allora che dire di queste altre parole donate da diversa altra inaspettata fonte “è stato dolorante tutta la notte… fuori nasce il mattino… è ora che riposi un po’… resterò accanto alcuni minuti.”
Anche questa voce che, priva d’ogni dignità letteraria, mai giungerà agli usci accademici racchiude l’incontrastabile forza del saper comportarci da esseri umani, parole che salvano tutti noi, sono parole che solcano l’anima, attaccano al cuore un sapore squisitamente d’incancellabile umanità; parole che nascono dal limpido incedere del battito.
Quel battito che ci è donato per natura e che poi cammin facendo non siamo più capaci di prestargli ascolto, anzi fermiamoci per un solo attimo, facciamo silenzio… eccolo: tum tum tum, è il ripetitivo battito del cuore, non quello delle sistole e diastole che ci tiene aggrappati alla vita biologica, ma il sacro battito alla vita, quale fonte d’ogni emozione, sorgente di ogni lacrima, miniera d’ogni bellezza; giuro che quel battito una volta l’ho sentito provenire da un albero.
Non ci si aspetta che tutti arrivino a sfiorare i cieli alti della poesia, ma tutti però indistintamente dovrebbero sviluppare la facoltà poetica alla vita, cioè quella capacità di penetrare fattivamente nella quotidianità delle piccole e grandi cose che la compongono; apprezzandone l’immenso e fugace valore divenendo in tal modo poeti del nostro ogni giorno, cioè far della poesia una ragion d’essere.
Quest’artigianalità alla vita avrebbe la forza catartica di trasformare il rozzo in bello, il male in nobiltà d’indole, il caos in una passione d’Amore.
Certamente non bisogna sottacere il fatto che molte volte alcuna poesia si compie lontano dalla realtà delle parole e delle azioni, spesso attingendo innalzo nelle spire di un contemplativo silenzio; talvolta, invece, scaturisce da una spirituale riflessione che ci giunge nella misura di un impalpabile pretesto, mentre non poche altre volte da un’insondabile vibrazione d’anima, in questi casi a sublimare l’accaduto in versi occorre la compiutezza di un poeta.
La quotidianità è come la pioggia di fine estate, calda, profumata, bella, quasi inventata, è una pioggia che bagna tutti noi, nessuno escluso, la quotidianità conta tante preziose Briciole che solo le sensibilità vellutate sanno racchiuderle nella voce silenziosa della parola, verbale sonorità che l’immortale orgoglio chiama versi.
Naturalmente affinché vada compiendosi meraviglia talora occorre un cucchiaino di quella fervida fantasia con cui creiamo noi stessi alla vita, una creazione che ti educa all’ascolto più profondo, un distillato d’occhi e di sentimento che trova il suo scrigno segreto posto su di un’irraggiungibile vetta.
Un’elevazione che non deve affatto spaventarci, non dobbiamo spaventarci di non riuscire nella scalata solo perché ci convinciamo di non aver bellezza; incamminiamoci, la bellezza accade, accade sempre nelle piccole cose, nei piccoli passi.
Parlo di ciò e mi sovvengono in memoria portentosi frammenti d’eternità che spesso mi hanno portato a dubitare del mio stesso vedere.
Potrei stare qui a narrarne qualcuno, ma preferisco astenermi così da prevenire gli affrettati giudizi che vengono a formularsi verso coloro che ci inducono a credere a un verso di poesia; dopotutto l’egoistica incomunicabilità dei tempi attuali nasce perché non si crede più alla puntuale e avvolgente bellezza della vita, ed è così che un’esistenza si tramuta in una perenne resistenza a un susseguirsi di dolorose sconfitte d’animo, si muore dentro.
Ma più d’ogni cosa sarebbe giusto affermare che certi avvenimenti fantastici non sottendono nessuna dimostrazione, in certo qual modo sono in opposto alla logica razionale, in sintesi, potrei affermare che tutto è ierofania, però bisogna saper guardare.
Quando la fugacità d’occhi raccoglie tali avvenimenti dovrebbe essere spontaneo poi farne accalorato racconto così da accendere la magia di una solidale e necessaria vicinanza, e il sapersi fortificati nell’Amore equivale a creare salvifica ricordanza, e il ricordare serve a non dimenticare da quanta bellezza siamo avvolti, sussurri di narrazione che rappresenterebbero quelle chiavi che aprono le porte al sogno di chi ascolta, e un sogno molte volte succede che si protrae un po’ più del dovuto.
La meraviglia del vivere forse sta semplicemente tutta qui.
Sono certo che tutti potremmo narrare di sorprendenti avvenimenti che nel loro accadere ci hanno fatto sobbalzare di esterrefatta incredulità, ma come dicevo non voglio stare qui a battere parole nel tentativo di profondere una subliminale persuasione tale da predisporre il lettore al credo della poesia quale strabiliante concretezza quotidiana; assolutamente no.
Però penso che la poesia ha la forza di far accadere le cose che diciamo, di far accadere quella narrazione verso cui ci poniamo in ascolto, tenendo ben presente che la poesia vive solo della sua parola narrante, non porta in sé nessun controvalore né di materia, né di scambio.
Anzi si può affermare che la poesia non porta soldi e per questo sarà sempre salva in eterno, aggiungendo anche il fatto che, come certi paesaggi, la poesia, perché scevra da ogni umana nefandezza, resterà eternamente bellezza primordiale.
La poesia assunta come forza quotidiana può renderci testimoni pratici di quelle arcaiche umane immortalità che da sempre sono racchiuse nei fuochi di poche e preziose parole, quali: Giustizia, Verità, Amore, Uguaglianza, Libertà.
Quanti di noi, con somma lealtà, potrebbero dire d’immolarsi quotidianamente in appieno su questi fuochi?
È proprio della forza di un ideale così come quella di un sogno di appigliarsi a una foglia per respirare tutto l’albero, ma purtroppo i quotidiani venti a cui consentiamo di spogliarci l’anima non cessano mai, ci lasciamo ottundere le ragioni del cuore, e per questo che al traguardo poi non raccogliamo più nulla.
Questo perché strada facendo diveniamo incapaci di trattenere, smarriamo l’essenza della semplicità, barattiamo l’anima con la convinzione di realizzare materialmente e aggiungerei anche maledettamente il sogno faustiano di fermare lo scorrere del tempo, dimenticando in tal modo cosa significhi sentirsi in cuore l’accordarsi di un sentimento.
Perdiamo quella consapevolezza che dopotutto questa nostra vita è il patrimonio più alto che possediamo.
Per quanto detto sin ora devo aggiungere anche il fatto che l’accadimento di certe meraviglie per alcuni sarebbero solo da catalogare come strabilianti e istantanee circostanze, di contro, invece, per i costruttori del pensiero collettivo solo eretiche coincidenze, per altri ancora, si tratterebbe di un esistenziale e abile trucco mentale farcito da estremo realismo magico dove coincidenze e divinazione della realtà scostano dall’avere i piedi per terra.
Di contro per quei pochissimi con animo pervio alla poesia questi avvenimenti non sono altro che un attimo di quella paradisiaca interiorità da sempre tanta agognata.
Un invocato paradiso che scientemente è collocato nella solo celestiale irraggiungibilità; un paradiso che, invece, senza rendercene conto è vissuto mille e mille volte su questa terra, cioè in tutta quell’imponderabile conta di giorni che in ultimo tirano il bilancio di questa nostra vita.
Forse uno dei principali segreti alla vita sta nell’apprezzare i misteri che essa racchiuda e la lucentezza di un mistero è bellezza, e la bellezza statene certi è Amore, e la poesia tratta di Amore, perché un verso di poesia mette la pace nel cuore, un verso di poesia equivale a donare un bacio facendoci socchiudere gli occhi.
Un abbassamento della guardia che non nascerebbe né dalla paura, né dal pudore, quel socchiudere d’occhi rappresenterebbe quel prezioso e invisibile biglietto per l’attraversamento dell’eternità terrestre, l’unica.
Ora, in conclusione, dovrei apprestarmi nel tentativo di svelare le quinte di qualche Briciola contenuta in questa raccolta, ma penso di non farlo, per dapprima perché non amo parlare di me; altresì, penso che di un’emozione se ne può raccontare appena il sapore, non credo affatto che la si possa svelare in tutta la sua spirituale completezza.
Un’emozione è possibile raccontarla sino a un certo limite, e anche laddove fosse possibile elargirne la profondità non lo farei.
I sentimenti come certi sogni ci invocano incarti fatti di delicata discrezione, l’intimità di talune emozioni non desidera affatto di trasformarsi in pubblica conoscenza; quando accade lo si fa solo perché il nostro ego, un po’ malato e disarmato, sente il bisogno di misurarsi con metri d’arrivo e d’azione che ci vengono propinati come traguardi da conseguire.
Quando portiamo in consegna la personale sacralità dobbiamo detenere la piena certezza che coloro ai quali poniamo in affido le nostre essenzialità sapranno custodirle in preziosi scrigni, che sapranno valorizzarle a nostro favore al pari di una stilla d’acqua rivenuta in attraversamento al deserto.
Devo anche aggiungere che spiegare oltremodo l’emozioni potrebbe risultare di per sé pericoloso, non poche rivoluzioni hanno preso scintilla dal dire dei poeti, non pochi stravolgimenti sociali hanno trovato visionario magma dalla penna dei poeti, in fondo è vero il detto che “la nascita di un nuovo poeta è un atto di violenza”; per cui come già qualcun altro ebbe a dire della propria poesia, anch’io, innanzi alla richiesta di sbrogliare qualcuna di queste mie parole, ebbene avrei per risposta: “che non ne sono capace”.
Senza tralasciare il fatto che la poesia pone sempre delle resistenze a essere compresa del tutto, la poesia ama farsi comprendere un po’ alla volta, cioè prima di poterci sussurrare qualcosa necessita per dapprima una silenziosa decantazione d’anima.
Nonostante l’anzidetto pensiero è Amore lasciar trapelare qualche raggio di luce; dopotutto le trame d’ogni letteratura, gli inviluppi degli epistolari, persino gli almanacchi e diverse altre catalogazioni, sono diari che segnano una strada, ancor di più vale per la poesia.
Nelle diverse nature di penna la summa delle parole sovente è trattenuta alla carta a dare un significato a un dolore, a una gioia, a trattenere un Amore, similmente vale per questa mia eterogenea addizione di parole, per cui mi occorreva un guscio dove sistemare in definitiva la mia vita e nello stesso tempo poterla continuare ad attraversarla, per tutto ciò mi sono servito della poesia.
Ho lavorato queste Briciole facendone un disordinato quaderno di accadimenti; alcune hanno ricevuto gli annaffi dalle constatazioni secolari, altre non sono che candele spentosi sotto i refoli della disillusione, altre sono abbeveri di ricevuto paradiso, mentre tal altre trattengono la salsedine dei naufragi.
Molte altre parole, invece, sono tenute in stringente clausura, trattengono tutto quello che per sogno desidererei avere, ma che per decreto d’esistenza non ho ricevuto, oppure per votiva rinuncia non ho.
Quindi per quei lettori che leggeranno questi versi ritengo che sia corretto non sviarli in nessun modo favorendo pertanto il prevalere di un sentimento piuttosto che altra diversa emozione, ritengo giusto offrire loro la possibilità di sentirvi in eco quello che vorranno, di vedervi abbagli e ombre che in quel momento prenderanno a surrogare la luce dei loro occhi, di percepire i profumi di cui il respiro si caricherà, proprio come accade a me nel vivere il quotidiano.
Per cui desidero ardentemente che quei pochi lettori, come in leopardiana memoria “sedendo e mirando”, sospinti da qualche moto interiore si ritrovassero a riprendere il filo delle loro emozioni così da sentirsi con sé stessi proprietari fortunati della vita che inesorabilmente ci va scorrendo tra le dita, una vita che conta a sé innumerabili saporite Briciole.
Molte di queste Briciole le rinveniamo strada facendo, molte altre, invece, le rinveniamo accostandoci alle strade degli altri, ma soprattutto non dobbiamo dimenticare che la vita è quell’emozione che può farsi un’espansione d’Amore solo se si decide di esserne innamorati, ma bisogna esserlo ininterrottamente e integralmente in tutti gli intenti che poniamo in essere… questa è la poesia.
Allora, quando vi parlo della poesia come realtà vera, per favore non distraetemi con le vostre diverse altre realtà, non disincantatemi la vita da quel fragile equilibrio di sogni e realtà, lasciatemi Pollicino, lasciatemi raccontare quello che accende la mia vita, lasciatemi tirare su le mie Briciole, perché questo raccogliere mi rende stupidamente felice, e forse, senza accorgermene, mi ritroverò a casa.


Chiare, fresche et dolci acque,
ove le belle membra
pose colei che sola a me par donna;
gentil ramo ove piacque
(con sospir’ mi rimembra)
a lei di fare al bel fiancho colonna;
herba et fior’ che la gonna
leggiadra ricoverse
co l’angelico seno,
aere sacro, sereno,
ove Amor co’ begli occhi il cor m’aperse;
date udienza insieme
a le dolenti mie parole exteme.
S’egli è pur mio destino,
e ‘l cielo in ciò s’adopra,
ch’Amor quest’occh lagrimando chiuda,
qualche gratia il meschino
corpo fra voi ricopra,
e torni l’alma al proprio albergo ignuda.

Francesco Petrarca, Canzoniere canto CXXVI


Lo spirto, per partir di quel bel seno,

con tutte sue virtuti in sé romito,

fatto avea in quella parte il ciel sereno.

Nessun degli adversarii fu sì ardito

ch’apparisse già mai con vista oscura,
fin che Morte il suo assalto ebbe fornito.

Poi che, deposto il pianto e la paura,

pur al bel volto era ciascuna intenta,

per desperatïon fatta sicura,

non come fiamma che per forza è spenta,

ma che per sé medesma si consume,

se n’andò in pace l’anima contenta,

a guisa d’un soave e chiaro lume

cui nutrimento a poco a poco manca,

tenendo al fine il suo caro costume.

Pallida no, ma più che neve bianca,

che senza venti in un bel colle fiocchi,

parea posar come persona stanca.
Quasi un dolce dormir ne’ suo’ belli occhi,

sendo lo spirto già da lei diviso,

era quel che morir chiaman gli sciocchi.

Morte bella parea nel suo bel viso.

Francesco Petrarca, Triumphus Mortis – vv 151-172


Fatto di vacua sostanza
Lancinante emozione mi trafisse
Atterrito, rovinai

Cavernicolo d’ogni principio
Supplicando nov’aurora
Strascicai da te

Cadente nevischio
Liquefarsi ai tetti
M’inabissai in pioggia d’occhi

Come naufrago che s’uncina al relitto
Tenni in speme la dotta scienza
Negli ansiti delle parole, ultime
Quello d’invocarti alla vita

Poi, caddi sereno


Tabriz splendore d’unica casa
Alla via un mercante tentò baratto
I suoi tappeti per il mio nulla
Respinsi il cambio, ringraziò
Varcai la Medina, comprai un tappeto
Fu mezzodì, ora della preghiera
Così un tempo accadeva nei campi
Alla medesima ci si fermava
Il raccolto è sempre un’intimità di Dio
Ai giardini le donne sembravano petali
Merlettavano parole in zampilli d’acqua
All’aduna dei Caldei fui alla scacchiera
Tenevo in assimila il Libro dei Re
E quello di Sun Tzu, poco del Fibonacci
La maestà congetturava dalla linea corta
La donna oltre la catena dei consigli
L’avverso all’infilata ne fece cattura
Al contrattacco in ala ero scoperto
Pensai… in alea la persa del centro
Per algebrica più intenti che clessidra
Il vecchio uzbeko m’avanzò il cavallo
Ricontavo invincibile superiorità
L’astro in appoggia arrossava l’orizzonte
Dal minareto il canto glorificava la sera
Nei suoi occhi un intruppo di stelle
Volsi mente e grazia al frutto lontano
L’anima vibrò di un ultimo accaldo
Fu lieve il passo per l’eterno nulla


Come in età svaga scendo alla marina
Dalla viuzza un negletto nausear d’aria
Avvezzi a tal pneuma attempati pescatori
Bofonchiando, rattoppano reti smagliate
All’imperterrito frangiflutti
L’onda infrangersi così da ripartire
Sulle tempeste come sulla quiete
In vittoria è il tempo, non v’è resistenza
In panne a tal filosofia
Trattenermi nelle voile del maestrale
Ove solitario pensiero come vela smuove
E il risalir di storia si fa lavico avvinghio

Al sopraggiungere della stazione
Fischia il treno, non si ferma
Di questo momentaneo avvisto
Cosa abbrancate voi occhi
Che ingannati dalle vitree trasparenze
Siete come ali in voliera
Perché giammai la libertà v’è nido

Verso Sud
Donar frangipani vince il cuor suo
L’aria spira d’agrume e di cumino
Questo diceva mio padre
Non capivo


Con la felicità in prima gemma
E i sogni ancora passati a matita
Già amor ti rapisce
Per quello che illusione non è

Alle dorate mietiture compiersi il tutto
E con occhi ancora ai desiderati inizi
Prendere sera nell’infilo di un annodo

All’evidente matassa in sfrangia
Come la merla in stufa t’ammanti
Cosicché veglia sia già luce


Aria profumata
Occhi acquei
Affrescato sorriso
Eterea beltà
Cuore sorpreso
Nasce l’amore


[continua]


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