Con questo racconto ha vinto il terzo premio del concorso Marguerite Yourcenar 2002, sezione narrativa
Quasi l’alba
Era quasi l’alba. Francois Regret giaceva sul letto, le coperte tirate addosso e gli occhi stanchi a fissare il soffitto. Non dormiva, Francois. Acuiva l’udito come un animale furtivo, attento a cogliere ogni cambiamento nel suo respiro, ogni passo, ogni suono. Gli pareva sempre irreale quel letto, sfumato nei suoi contorni dalla luce pallida dell’alba che filtrava dalle persiane e lasciava il resto della camera nella penombra, come sommerso. E lui lì, trasformato in una macchia lieve immobile tra le lenzuola, a pensare.
Il silenzio avvolgeva ombre e cose, violato solo a tratti dal rumore del tram che sferragliava nella notte o dal passaggio lento di una macchina. Un solo istante e poi di nuovo pace… Strano sentirsi così, sospesi e irrequieti e senza sonno, concentrati nella melodia sotterranea del silenzio, sui battiti del cuore che martellavano tempie e gola. Non dormiva, Francois.
Attendeva il mattino come se ogni giorno fosse per lui una creazione personale da vivere rapidamente e riporre ogni sera sotto le proprie palpebre, per poi aspettare ancora… La temeva, quasi, quella casa addormentata attorno a sé e quelle imposte semichiuse e la città intorpidita come sotto un anestetico. La vita fuori rallentava il suo corso, ma il tempo interno scorreva di rimando più veloce, scivolava fitto come la polvere di una clessidra spinta giù con un battito di dita.
Francois vedeva nella notte la regina evanescente, imperscrutabile che sapeva avvolgerlo, dominarlo, crucciarlo. La notte era per lui il tempo del rimpianto. (Che pensi Francois? Ti hanno velato l’anima? Scendi dai tuoi sogni di fiele e poi colòrati).
Francois Regret uscì di casa accartocciato nel suo cappotto grigio. Quella mattina sarebbe stata uguale ai giorni di sempre, asettica, manchevole di troppo da quando gli avevano tolto Sophie. Ripeté il suo nome mille volte nella testa e si sentì oppresso dal peso di anni trascorsi a rimpiangerla, a desiderarla, a ricordarne le lentiggini, i piedi minuti, l’aroma dei vestiti, la dolcezza dello sguardo, la seta della pelle, la vitalità della risata, e quel languido abbandono di quando gli riposava tra le braccia dopo una notte d’amore… Sophie era stata il suo universo luminoso dal primo istante in cui lo aveva catturato e conquistato poi, incontro dopo incontro.
(Sophie Sophie mille volte Sophie…)
Il ricordo lo torturava: riempiva le sue ossa di schiuma, gli soffocava il petto in una morsa che era ansia brutale, tristezza acida, solitudine. I pensieri gli rubavano la vita e per liberarsene riusciva ancora e solo a concentrarsi sulla sua respirazione lenta, sui battiti del cuore, sino a sfiorare l’illusione di un’oasi nascosta di pace, estraneo con essa a tutto lo smisurato strepito del mondo di cui non gli importava più nulla.
Ma troppe volte soccombeva a quell’eco gelata nelle viscere che lo anestetizzava, lo calava in un buio finto e fitto tutt’intorno: allora Francois era assente…
Camminava senza meta: passi senza suono, senza più ego. Quel giorno, nel chiarore d’alluminio della prima luce, capì che doveva rinascere.
Accelerò l’andatura e la raggiunse, senza più esitazioni, l’arcana “Agence de renaissance” della foto su “Le Monde”.
Si fermò solo di fronte alla targa metallica: dopo il brivido iniziale sentì più paura che piacere. Desiderò con tutta l’anima che la porta fosse sbarrata…
Era aperta. La spinse con la punta delle dita, cercando quasi di non far rumore, e dal momento in cui ne oltrepassò la soglia realizzò in una folata di lucida consapevolezza di non poter più tornare indietro.
Provò un confuso senso di vergogna quando l’impiegata bionda lo esortò ad avvicinarsi. Si trovò in un salottino dai divani blu. C’erano altre persone, nella stanza, uomini e donne come lui, tutti accomunati dallo stesso sguardo privo di vita, seduti a parlare nella sua stessa lingua o a tacere nel medesimo silenzio.
Francois ebbe l’impressione che tutto quello scenario fosse un’azione proibita. Pensò confusamente, intrappolato alla fine nel morso della nostalgia, che una volta uscito da quel luogo la sua esistenza non sarebbe stata più la stessa. Lentamente, però, quel turbamento tardivo, compreso nelle sue previsioni, si tramutò in una serenità avvolgente ed insolita. L’impiegata lo chiamò per nome. (Alzati Francois, il sipario cala sul tuo dolore insopportabile, sul tuo letto torrido, sul nonsenso di questo scherzo infinito. Svegliati e ricreati).
Francois si alzò, il volto lineare, solenne. Rivisse in un istante la sua vita, i ricordi perduti, le ore scandite da ogni sorta di attesa ed infine, la densità del suo corpo e i passi nella stanza e i battiti pulsati da un cuore che non gli pareva il suo.
«È sicuro?», le parole dell’impiegata vibrarono come colpi di lame.
Francois annuì.
«Conosce il procedimento?»
«Credo di sì», ribatté lui, perché non trovò altro da dire.
Francois osservò le dita della donna, vestite di anelli d’argento, afferrare un grosso libro foderato in pelle.
«Scelga qui», disse lei.
Francois sfogliò il pesante tomo. Attraversò un altro breve spazio di lucidità dentro la sua follia, e rabbrividì di fronte all’incertezza di quella decisione. Poi, senza più resistenza, con una vocazione fluida e una speranza quasi attendibile, scelse.
«Voglio questa vita qui».
Niente più figura squallida e oscura, né gravità di pensieri e tristezza incollata addosso e bagliore lugubre sul volto color inverno. Lui, soldato smarrito senza affetti, senza ambizioni, l’anima gualcita, stella errante priva di colore… avrebbe rivissuto l’Esistenza Nuova di un altro.
L’impiegata lesse le parole sulla pagine: “Maschio… 31 anni. Capelli castani, occhi scuri. Temperamento allegro, vivace, socievole, personalità brillante… Sorriso aperto, sincero… Scrittore affermato. Incontrerà una donna con cui vivrà un’intensa storia d’amore…”.
L’impiegata incrociò per una manciata di secondi lo sguardo incerto di Francois e abbozzò un sorriso distante. «Vivrà quello che Lei ha scelto», precisò.
Quindi estrasse un altro libro, meno ingombrante del precedente, su cui erano disposte migliaia di fotografie. Lo aprì su un’immagine precisa, conforme alla descrizione dell’altro volume, e lo porse all’uomo che fissava ogni suo gesto. Francois osservò una foto in bianco e nero con un uomo sorridente in camicia a righe e la sagoma affusolata della Tour Eiffel sullo sfondo. Trasalì.
Un ricordo antico, definito, del tutto sprovvisto di nostalgia, piombò nella sua memoria sempre più nitido man mano che focalizzava i dettagli dell’immagine. La sua mente evocò altri episodi trascorsi e dispersi, e lo risvegliò d’un tratto con una certezza brutale… Gli occhi gli si inumidirono di rabbiosa impotenza, la pelle si sciolse in un sudore gelido e il suo cuore si disfece come in un’altra alba del passato, quando incontrò i grandi occhi color miele di Sophie.
Rimase immobile per un lungo momento, senza poter credere all’evidenza, sospeso in un abisso di lucidità e abbandono, sentendo di non poter sopportare oltre l’aria delle sue viscere e l’ansia bruciante di voler fuggire e liberarsi di quel silenzio esasperato.
L’impiegata restò in attesa, guardandolo con un sorriso tremulo di perplessità. Senza dire una parola Francois richiuse il libro dietro di sé ed uscì.
In quella foto era lui, trent’anni prima.
(La verità ti renderà libero, ma solo quando avrà finito con te).
D.F. Wallace