L’allegato.
Ettore aveva sempre percepito in maniera inspiegabile la diversità della propria situazione, fin dall’età in cui si comincia a guardarsi attorno, a paragonarsi con gli altri, a porsi qualche domanda.
Questa situazione era per lui iniziata abbastanza presto intorno ai tre/ quattro anni di età quando si paragonava con i cugini, bambini anch’essi, che formavano il primo riferimento sociale nella realtà della sua famiglia. Figlio di una ragazza madre era cresciuto in una realtà di provincia, in una località del meridione vicino ala mare. Il padre non aveva mai voluto nemmeno conoscerlo, si trattava di un giovane senza carattere che aveva sedotto una ragazza diciottenne carpendone la buona fede. La due famiglie appartenevano a situazioni sociali molto diverse : quella di lui, laureato venticinquenne, era inserita nel giro dei nomi di riferimento dalla cittadina; quella di lei apparteneva all’ambiente dei commercianti, con un padre che si era fatto da solo fondando una delle più antiche aziende commerciali di vendita all’ingrosso di generi alimentari, presenti nel luogo, nel decennio precedente la seconda guerra mondiale. La diversità di estrazione non era gradita alla madre del nostro seduttore che ambiva per il figlio a un matrimonio “ adeguato” alla posizione ricoperta dalla famiglia, secondo lei, nell’ambito di quella cittadina di provincia. Trattandosi di donna dal carattere forte ebbe buon gioco sul figlio che di carattere ne aveva poco ed Ettore non conobbe mai suo padre.
Il bambino era nato e cresciuto così nella famiglia della madre che, se da una parte garantiva una buona socialità grazie ai numerosi componenti (dieci figli, più padre e madre), dall’altra creava continue occasioni di confronto con le varie situazioni famigliari dei numerosi parenti che frequentavano la casa. Ettore in ogni modo fu accolto abbastanza bene: il nonno e la nonna seppero affrontare il doppio ruolo di genitori, diremo così, part -time, in appoggio alla figlia, pur non potendo sopperire in tutto a una carenza di base che, è ovvio dirlo, comunque c’era.
Ettore, mingherlino, dalla carnagione scura ed i capelli ricci e mori sembrava un “ confettino” di cioccolata con due occhi scuri che parevano emergere dal profondo di una stanza buia. Manifestava il suo disagio ogni volta che, in occasioni di incontri familiari, vedendo i padri dei cugini chiedeva alla madre :” Oh ma’, mio padre perché non viene mai ?” La domanda trovava fondamento nelle spiegazioni vaghe che Angela aveva fornito di fronte a un: “ Mamma, perché tutti i miei amici hanno il babbo e io no?”, rispondendo :” Anche tu ce l’hai, però il tuo è partito per un lungo viaggio e tornerà quando potrà!” Ed Ettore continuava così a girare attorno a quel buco rimuginando chissà che cosa dentro la suo capino. Una cosa però traspariva chiaramente: la difficoltà di relazionare con gli altri bambini della sua età. Non che fosse un bambino violento; stava maturando però un carattere taciturno poco disponibile a trovare un compromesso con le esigenze di chi gli stava vicino. Era abbastanza usuale vederlo giocare da solo in un angolo lontano dal gruppo di amichetti che si trovava con lui nella stanza. Angela anche, forse per un complesso di colpa non esternato ma vivo a livello di inconscio, lo viziava nel modo che consentiva la sua situazione di figlia-madre senza reddito. Ogni volta che usciva di casa, per qualunque motivo, gli aveva dato l’abitudine di recargli sempre un piccolo regalino, una sciocchezza, anche due caramellino ; però non mancava mai all’appuntamento. Il risultato era il carattere particolarmente pretenzioso di Ettore che non faceva altro che chiedere: “Cosa mi porti?”, quando vedeva la mamma pronta per uscire. Un’altra abitudine aveva conservato fino al termine della prima elementare, era quella di imboccargli la colazione, servendo con un cucchiaino un biscotto inzuppato nel tè, con la conseguenza di invogliare la permanenza di atteggiamenti tipici della prima infanzia, oltre la logica dell’età.
Altro scompenso era determinato dall’atteggiamento iperprotettivo del nonno che limitava l’azione di Angela sovrapponendosi con la sua figura di padre nei confronti della figlia nei rapporti con il nipote. Una volta tale atteggiamento debordò a tal punto che Angela ricevette una sberla dal padre che non era d’accordo con l’insistenza della figlia a correggere un capriccio del figlio.
A un certo punto della sua infanzia, Ettore percepì un mutamento nella situazione del nucleo rappresentato da sé e dalla mamma. Capì che nella vita di Angela e, conseguentemente, nella sua, c’era stato l’inserimento di un intruso. Si trattava di un lontano cugino, coetaneo di Angela, che, dopo anni di assenza di qualunque rapporto, aveva iniziato a rivelare attenzione per Angela. La cosa non era stata subito chiarissima, complice il fatto che i due, Angela ed Enrico, abitavano in regioni diverse e si erano incontrati, assai banalmente, in occasione delle vacanze estive che Enrico si era trovato a trascorrere nella cittadina di mare dove Angela viveva.
Pur non rivolgendo alcuna domanda alla mamma su quel tipo che si era fatto vivo a Natale per tornare a Pasqua e nell’estate seguente, Ettore aveva però dimostrato la sua contrarietà al momento in cui, loro tre soli, Angela gli aveva chiesto: “ Cosa diresti, se Enrico venisse con noi a farti da papà?”. La risposta era stata una sberla che Ettore aveva tirato ad Enrico accosciato per sorridergli, accompagnata da un :” E se torna il mio?”.
Il rapporto tra i due era proseguito caratterizzandosi, da parte di Ettore, con atteggiamento di sostanziale accettazione del nuovo stato di fatto, dopo il rimprovero che la mamma gli aveva fatto nell’occasione ricordata, senza altri episodi di dichiarata ribellione. Anche l’atteggiamento di Enrico era abbastanza, diremo così, di circostanza: la sua motivazione “ fortissima” era Angela ; il bambino apparteneva al quadro d’insieme della situazione e veniva accettato senza pensieri ma anche senza trasporto. Un’intensificazione dei rapporti si realizzò nei primissimi tempi del matrimonio tra Angelo ed Enrico, quando Enrico iniziò a giochicchiare con battute scherzose e assurde che facevano sgranare per incredulità gli occhi del piccolo. Qualche insegnamento Enrico lo ricevette anche dai fratelli che facilitavano l’inserimento di Ettore portandolo di frequente al cinema
O comunque dimostrandogli affetto attraverso regali e altre iniziative volte a fargli apprezzare la nuova realtà. Enrico un poco capì il messaggio e cercò di aumentare la propria attenzione per il bimbo che, un giorno, contento si rivolse alla madre dicendo:” Mamma, vedi che anche Enrico adesso fa quello che gli chiedo e gioca con me?” Il momento principale di contatto avveniva però la sera,quando era ora di andare a letto,ed Ettore attendeva Enrico perché gli raccontasse,quasi ogni sera, la storia della guerra e del cavallo di Troia. Nessuno saprà mai quali immagini scatenasse la figura dell’enorme animale di legno nella testolina ricciuta che circondava il volto moro con due occhi scuri lucenti.
La scuola, all’inizio, segnò un latro momento di comunicazione tra i due: Ettore, al momento del matrimonio, frequentava la seconda elementare ed Enrico ebbe una notevole parte sia nei contatti con la mestra che nel seguire l’inserimento del piccolo nella scuola della nuova città, nella quale aveva portato Angela.
Questo aspetto però, con gli anni, invece di continuare a favorire la cementazione dei rapporti ttra Ettore ed Enrico, contribuì a un certo punto a raffreddarli. Infatti nonostante gli sforzi iniziali, il bambino non si rivelava integrato nella realtà scolastica ed Enrico, giovane e in carriera, ben presto si rassegnò a lasciare andare le cose per il verso che avevano preso, con una punta di delusione. Forse questo fu il punto principale della manchevolezza di Enrico: accontentandosi di una situazione che andava avanti senza grossi problemi di carattere familiare, chi no ha nel proprio nucleo qualche problema di uno scarso rendimento scolastico ?,senza preoccuparsi di “ costruire “, diremo così. La coppia venne anche distratta dai problemi creatisi con la nascita di un secondo figlio che purtroppo dovette essere seguito non poco per problemi di salute.
Questo fece sì che Ettore, pur non abbandonato, si trovasse probabilmente a dividere i momenti di affetto e di attenzione quando, per la sua storia, il cinquanta per cento non gli era sempre sufficiente.
Tuttavia il bambino non si ribellò mai e l’atteggiamento verso il nuovo venuto fu di totale accoglimento, così che i fratelli crebbero perfettamente uniti.
La scuola dell’obbligo fu portata a termine con fatica, nonostante l’inserimento in una organizzazione di religiosi ai quali la famiglia di Enrico si era rivolta tradizionalmente. Ma al termine del ciclo, i “ religiosi”, fecero sapere alla famiglia, che dopo la “ Licenza media” non avrebbero più accolto Ettore tra gli allievi. Secondo le “ etichette” che venivano appioppate a tutti gli studenti al termine dell’esame di Stato che concludeva il ciclo della scuola media primaria, Ettore fu tra coloro che vennero giudicati adatti a “ studi brevi”. I genitori, Angela ed Enrico, non seppero fare altro che attenersi al consiglio; non aiutati, peraltro, in nessun modo dal ragazzo che non esternava alcuna inclinazione, magari ingenua, verso branche del sapere o di mestiere. Una volta sola si lasciò sfuggire, con la mamma, un accenno alla parola “ Liceo” sentita dai compagni. Qui Enrico invece di cogliere la palla al balzo per approfondire o, almeno, per fare un tentativo in tal senso, chiuse subito il discorso con Angela, ed Ettore si trovò inserito in un Istituto Professionale.
Anche tale ricetta, comunque, si rivelò priva di interesse per il ragazzo che anzi si trovava a disagio nell’ambiente dei propri compagni di scuola, nella totalità o quasi provenienti da famiglie operaie, con abitudini che Ettore non ritrovava in casa . Dopo un anno scolastico difficile, il risultato fu un improvviso, dichiarato ed inatteso interesse per la vita militare con la richiesta di andare tra i volontari dell’esercito.
Non fu mai chiaro da dove il ragazzo avesse ricevuto questa “ispirazione”, né Enrico si preoccupò approfondire, nonostante la decisa opinione contraria all’iniziativa di Angela. La verità era che Enrico viveva questa richiesta un po’ come la possibilità i liberasi onorevolmente da un peso che stava diventando gravoso. Si incaricò lui stesso di accompagnare Ettore a Cassino dopo le selezioni: non poté comunque evitare un po’ di magone quando lasciò il ragazzo sulla porta della caserma.
Anche in questa occasione, tuttavia, il carattere di Ettore si rivelò complesso. A fronte di uno sbrigativo “ tutto va bene” in occasione dei contatti telefonici con i genitori, in realtà soffriva in silenzio tutte la difficoltà della vita militare, soprattutto quelle relative all’igiene e al nonnismo. Mai venne fuori una parola di sfogo se non involontariamente in occasione di incubi notturni dei quali la madre durante i periodi di licenza trascorsi a casa. La parentesi militare si chiuse a seguito della mancanza di attitudine al comando rivelata da Ettore durante i due anni di ferma al termine dei quali non riuscì a superare gli esami previsti per l’inserimento tra i sottufficiali.
Il problema che Enrico aveva dato per risolto gli ritornava adesso ancora più complicato, visto che l’unico vantaggio concreto portato a casa da Ettore era la patente militare per la guida delle automobili. Non era cambiato nemmeno l’atteggiamento di resistenza passiva e silenziosa che Ettore aveva nei confronti degli studi e di ogni altra iniziativa che gli provenisse dalla famiglia. Angela per aiutare l’inserimento di questo figlio così difficile da capire aveva pensato di aprire un magazzino di rappresentanza di prodotti alimentari, prendendoselo come aiuto. Il risultato fu che, nei due anni di attività, l’unica inclinazione messa in luce da Ettore fu quella di saper trascorrere ore ed ore a lavare le forme di formaggio che dovevano essere preparate per la consegna ai negozi clienti. Anche nelle esperienze lavorative che si erano presentate dopo questo breve periodo, Ettore non aveva rivelato particolari inclinazioni all’iniziativa e, anzi, talvolta si erano verificati anche problemi comportamentali nella relazioni con i suoi capi del momento. Insomma il ragazzo continuava a dimostrare un carattere chiuso, a vivere in una realtà sua, partecipando alla vita di famiglia in modo esteriormente accettabile ma sostanzialmente rifiutandone gli indirizzi.
Come tutti i ragazzi che si avvicinano alla giovinezza, a un certo punto Ettore iniziò a sentire il bisogno di un partner e viveva con invidia la situazione dei vari compagni che via via riuscivano ad accoppiarsi. Arrivò anche per lui il momento che coincise con una parentesi fortunata della sua vita di lavoro, in quanto inserito come operaio in una grande azienda della città nella quale viveva con la famiglia. Enrico pensò che il matrimonio avrebbe favorito una maturazione a questo punto completa di Ettore e, perché no, anche una soluzione al problema dei loro rapporti che, occorre riconoscerlo, non erano mai stati, fatta eccezione dei primi anni, caratterizzati dall’intensità affettiva che intercorre tra padre e figlio. Infatti Enrico, negli anni, trovando un alibi nell’impegno della vita di lavoro, aveva preso l’abitudine di seguire le vicende di Ettore quasi esclusivamente attraverso i ritorni di Angela, diventata detentrice unica o quasi della confidenze del figlio.
Purtroppo la storia familiare di Ettore fu connotata all’inizio da non pochi problemi nella relazione con la moglie : una ragazza abbastanza strana, chiusa di carattere anche lei, dalla storia familiare caratterizzata da zone d’ombra e di luce, probabilmente alla ricerca di un appoggio che le consentisse di uscire da un ambiente non sempre positivo. Insomma quel matrimonio era stato un po’ come l’unione della fame con la sete, complicato dal carattere della ragazza abbastanza collerico e irruente e difficile da gestire. Inoltre questa nuova fase fu distinta subito da una serie continua di richieste di aiuti economici che portarono anche qualche nuvola nel rapporto tra Angela ed Enrico.
L’unione fu comunque allietata da due magnifici arrivi, un maschietto ed una femminuccia, che, per Angela, rappresentavano il completamento del suo desiderio di essere nonna, mentre Enrico, al di là di un interessamento di facciata, viveva la situazione abbastanza indifferentemente. Chiamato in causa non rifiutava mai il suo apporto, ma la sua motivazione era dettata dal non volere per alcun motivo mettere in crisi il rapporto con Angela: non provava però alcuna nostalgia per il nucleo di Ettore e non si informava più che tanto sulle vicissitudini della giovane famiglia. Al contrario Angela cercava tutte le occasioni di contatto e diventava impaziente se mancava la telefonata quotidiana della nuora . Il risultato fu che le occasioni in cui Angela ed Enrico praticarono la casa di Ettore si potevano contare a mala pena sulle dita delle mani, nell’arco degli anni.
La svolta di questa situazione di stallo fondata sull’ipocrisia di Enrico e sull’atteggiamento amorfo di Ettore fu, come spesso accade, voluta dal destino. Un incidente di auto, avvenuto nel mentre Ettore e famiglia, come d’uso la domenica, stavano arrivando per il pranzo da Angela ed Enrico ne causò il ricovero in ospedale. Ci fu anche un periodo di preoccupazione soprattutto per Ettore che trascorse una settimana in coma presso il Centro Traumatologico cittadino. In quell’occasione Enrico, come da comportamento usuale, si adoperò non poco per organizzare gli aiuti, conciliando tutto con gli impegni di lavoro. Insomma fece di tutto per stare vicino ad Angela: ad Angela per l’appunto, non ad altri!
Una sera Enrico dovette andare a casa di Ettore per recuperare l’eventuale posta in buca. Nell’occasione Angela gli raccomandò di entrare nell’alloggio per verificare la situazione: cosa che il nostro fece puntualmente in maniera diligente perlustrando tutti i locali. Nell’ingresso c’era uno scaffale adibito a libreria e, come d’abitudine, Enrico gettò uno sguardo ai titoli in evidenza:scorrendo tra i colori delle copertine fu attratto una scatola che era chiaramente fuori posto in uno scaffale di libri e che, a suo tempo, doveva aver contenuto qualche paio di scarpe nuove. Sul lato di cartone in evidenza spiccava una scritta a pennarello che diceva” Lettere ai papà”. Enrico prese lascatola e, contrariamente al suo solito, la aprì. Dentro trovò separatore e due buste abbastanza gonfie con sopra scritto “ Lettere a un padre che non conosco, la prima e “ Lettere a un padre che non mi vuole, la seconda. Il primo impulso di Enrico fu di chiudere la scatola, per una forma innata di riservatezza, poi vinse la curiosità, attirata da quell’accenno a due figure paterne. Aprì la busta dedicata al padre non conosciuto e lesse il primo foglio che gli si presentava sopra gli altri : “ Caro X, dopo tanti anni chiudo con questa la corrispondenza che non ti ho mai inviato perché non ti conosco: spero di essere riuscito a descriverti il vuoto incolmabile che mi hai lasciato e che sento col tuo rifiuto di conoscermi. Mi auguro che non ti venga mai in mente di cercarmi; per quanto mi riguarda ho finalmente messo a tacere la curiosità che mi son sempre portato dietro fin da bambino.” Il testo si chiudeva così senza nemmeno una firma.
Abbastanza scosso, Enrico passò alla seconda busta, estrasse la prima lettera che gli si presentava e, con sorpresa, vide che questa volta un nome c’era: il suo.
“ Caro Enrico, non so se avrò mai il coraggio di dirti in faccia queste cose. Lo so che, come figlio, non sono stato un granché. C’è voluto del tempo, e tanto, perché mi convincessi che la bugia di mia madre sul viaggio di mio padre era una bugia. Anche tu, però, come padre forse potevi fare qual cosina di più. Da quando ci siamo conosciuti mi sono sempre sentito come un allegato alla pratica principale. Sappi però che, nonostante tutto, ti voglio bene perché un altro padre io non ce l’ho. Per quel che ti riguarda vedi tu.
Tuo figlio.”
Il giocattolo.
Ambrogio e Renato si erano conosciuti negli anni del liceo.
Ambrogio, figlio di industriale, oltre che provenire da famiglia benestante era anche il “bello” della classe. Alto e ben formato era stato il primo a presentarsi a scuola, in prima liceo, con una moto dal serbatoio rosso ed i parafanghi luccicanti colo acciaio. A quei tempi. in cui tutti si andava a scuola a piedi usando i mezzi pubblici o accompagnati, soprattutto le ragazze, in auto da qualche genitore, non era poco. Infatti le ragazze, quando erano a piedi, facevano la fila per essere accompagnate a casa dal centauro della classe. In terza liceo, appena raggiunta l’età, Ambrogio non aveva perso tempo per prender la patente e, all’inizio dell’autunno, era giunto davanti all’istituto, non con una 500 Fiat, allora primo passo sulla strada della motorizzazione a quattro ruote per giovani e meno giovani, ma subito con una 600 color panna e con gli interni rossi, che aveva lasciato tutti“ sbacaliti”. Il suo credito tra le ragazze era aumentato anche a seguito della decisione presa durante l’estate di farsi crescere una folta barba bruna, da lupo di mare, che gli donava moltissimo sulla carnagione già di per sé abbronzata. Anche la professoressa di Italiano, una zitella tra i quaranta e i quarantacinque, platinata, non ancora giunta alla completa pace dei sensi, almeno nella fantasia collettiva dei maschietti emersa durante le fumate ufficialmente clandestine che rendevano i bagni della scuola vere e proprie camere a gas, sembrava destinargli ogni tanto qualche sguardo di troppo.
Renato, invece, proveniva da una famiglia della media borghesia, figlio di un quadro di una grande industria della città, fonte dell’unico reddito della sua famiglia costituita da moglie e tre figli, dei quali Renato era il primo . Renato era anche il primo della famiglia ad avere iniziato le scuole superiori, scegliendo il Ginnasio – Liceo. La cosa era stata molto discussa in casa, sia nel nucleo famigliare vero e proprio, che in quello del nonno paterno, ove i figli maschi, infatti, militavano nei mestieri metalmeccanici, seguendo l’impostazione data dal nonno che aveva abbracciato la carriera dell’officina come operaio nei primi anni del Novecento. Questo aveva significato studi brevi, le famose “tecniche “ di tre anni dopo la scuola dell’obbligo dei tempi. Soltanto una figlia, zia di Renato, era invece riuscita a diplomarsi alla Magistrali e ad esercitare in alcuni paesi delle vallate del Piemonte. In questo panorama Renato si era trovato a discutere le proprie scelte al momento di iniziare la strada che, nei primi anni “ Sessanta” era diventata un “ must” per gli adolescenti della media borghesia del dopoguerra: quella del diploma superiore. La preferenza del ragazzo faceva però discutere, ma non per il tipo di cultura umanistica, molto rispettata in casa nonostante il taglio professionale al quale si è accennato .Infatti Renato aveva sentito più volte il nonno ripetere, lui che uomo di cultura non aveva potuto diventare in conseguenza delle sue origini e per l’ambiente che caratterizzava la vita delle famiglie popolari della Torino fine Ottocento –primi del Novecento, di essere uno stimatore della cultura classica. Sosteneva infatti che durante la sua vita professionale aveva visto più volte persone con formazione classica impegnarsi con successo in campi professionali attinenti alla sfera tecnica; mai però gli era successo di aver visto il caso contrario. Le parole del nonno avevano un certo peso in quanto, ai tempi di cui si parla, era la prima figura di dirigente industriale affacciatasi in famiglia.: cosa notevole per un figlio di operaio dell’ex-arsenale regio e di una lavandaia e, sostanzialmente, autodidatta.
Tornando a Renato, la sua scelta era discussa perché, come suo padre sosteneva durante le conversazioni a tavola in occasione dei pasti, con un diploma da Ragioniere o, meglio ancora, da Perito Industriale, a diciannove anni, si aveva “ un mestiere in mano”; col Liceo non si aveva niente se non l’ammissione all’Università. Il timore era quindi quello di intraprendere una strada lunga con tutte le incertezze del caso.
In ogni modo Renato aveva vinto, dobbiamo dire, supportato dal padre che aveva finito per accettare le inclinazioni del figlio: il nonno invece era rimasto un po’ deluso vedendo il primo nipote maschio, che portava il suo nome, lasciare la strada di famiglia.
Diversa era stata la storia di Ambrogio, appartenente alle classi agiate della società torinese, all’interno delle quali vigeva la regola del liceo “obbligatorio” per sviluppare la formazione culturale generale della persona in vista dell’iscrizione all’Università, scuola di mestiere.
Renato,infatti, inserito nell’ambiente della quarta ginnasio si accorse che i colleghi di studio provenienti da famiglie simili alla sua erano non più di due o tre, in un universo di figli di avvocati, industriali, medici ecc…
La sua presenza in classe era dunque diversa da quella di Ambrogio: lui arrivava a scuola a piedi e a piedi se ne ritornava; guardava con invidia il codazzo di ragazzine che l’altro si tirava dietro e cercava di capire i motivi della diversità, rendendosi conto anche che la propria figura fisica era ancora molto più vicina a quella adolescenziale rispetto a quella già formata di Ambrogio.
I due comunque erano diventati amici, si rispettavano pur non oltrepassando i limiti loro imposti dalla differenza di estrazione sociale. Diciamo così che la loro amicizia costituiva un “ insieme” con all’interno due elementi che pur diversi colloquiavano bene nelle ore di contatto consentite durante le mattine scolastiche, perché di contatti extrascolastici non se ne parlava proprio, eccezion fatta per le telefonate pomeridiane riguardanti il confronto sui compiti svolti a casa.
Ambrogio e Reanato giunsero così alla Maturità e, nonostante l’affiatamento che aveva caratterizzato i loro rapporti negli anni, si separarono per seguire la propria strada universitaria. Le confidenze che erano scambiati nel tempo avevano messo in luce ancora una volta le differenti possibilità che ognuno aveva davanti. Ambrogio intendeva percorrere gli studi di Ingegneria al termine dei quali non aveva altra ambizione che quella di entrare nell’azienda paterna. Per Renato le cose erano diverse; in quanto al dopo si sarebbe visto a suo tempo, in famiglia non era presente nessuno che si ritenesse in grado di indirizzarlo se non dicendogli “ segui le tue preferenze “; Renato le seguì e si iscrisse agli studi di Fisica.
Dopo la laurea il nostro si trovò ad affrontare il periodo critico dell’inserimento, combattuto tra il desiderio di continuare ad approfondire gli studi di Fisica teorica che aveva prediletto e l’esigenza di scendere ad un livello più pratico. Si rendeva conto di non poter pretendere altro aiuto dalla famiglia che, dovendo pensare agli altri due figli, riteneva ormai terminato il proprio investimento su Renato.Lui stesso cominciava a sentire il bisogno di indipendenza soprattutto perché, anche se sempre con la testa tra le nuvole per un mucchio di cose, una ragazza se l’era trovata e gli si stavano aprendo nuovi orizzonti.
Un giorno in cui Renato stava salendo gli scaloni che portavano all’ingresso della Camera di Commercio del capoluogo piemontese, con lo sguardo chino e pensoso come al solito, vide pararglisi davanti un sagoma che lo svegliò : “ Renato! Sono tre volte che ti chiamo!”; era Ambrogio.
Uscendo dalla Camera di Commercio, aveva notato sullo scalone quella figura pensierosa che aveva deciso di passare anche di “lì”, quella mattina, per vedere se fosse possibile trovare chissà quali opportunità lo potessero interessare. Vi aveva, dopo un attimo, riconosciuto il vecchio collega/ amico di liceo, lo aveva chiamato un paio di volte e, non ottenendo risposta, gli si era parato davanti tagliandogli la strada. L’incontro improvviso consentì subito, dopo il primo impatto, il ricrearsi dell’antico “insieme”. I due non ci misero più di mezzo secondo per rientrare in sintonia e raccontarsi, così sullo scalone tra la gente che andava e veniva, tutte le loro vicende fino a un minuto prima del loro incontro, senza nemmeno pensare di andare a sedersi a un tavolino in un bar delle vicinanze.
Ambrogio spiegò all’amico che quella mattina era venuto lì per cercare qualche idea per la soluzione di un problema da ingegnere neo laureato di lusso alla prese con un problema di lusso. Infatti durante gli anni universitari e subito dopo la laurea aveva impegnato il suo tempo e i soldi del padre nel realizzare il sogno sul quale spesso i due avevano fantasticato durante gli anni del liceo. Seguendo la passione per il ferromodellismo, Ambrogio vi aveva dedicato uno spazio di settanta metri quadri, ottenuto occupando un salone del principesco appartamento che occupava il secondo piano di un palazzo di cinque che il padre possedeva nel centro cittadino. Il gigantesco plastico riproduceva la rete ferroviaria di quasi mezzo Piemonte ; era stato realizzato in una scala ideata da Ambrogio, non presente in commercio. Binari, arredamenti, locomotive, vagoni, tutto era stato progettato e costruito da Ambrogio che, per l’occasione, aveva attrezzato una vera e propria officina dotata di tutte le più moderne attrezzature, occupando un altro salone dello stabile. Gli studi di Ingegneria gli avevano consentito di progettare e impiantare soluzioni sofisticatissime utilizzando tutte le possibilità dalle tecniche di avanguardia reperite in Italia e all’estero.
Non è difficile immaginare come l’incontro si sia concluso con un invito calorosissimo, impossibile da rifiutare, rivolto a Renato per andare a vedere il “ miracolo”, già la sera stessa. Cosa che Renato fece con entusiasmo essendo anche lui appassionato al ferromodellismo, passione che, evidentemente, aveva dovuto contenere in ben altre dimensioni .
Così la sera stessa, dopo cena, i due amici si ritrovarono di fronte alla porta magica all’interno della quale abitava il giocattolo meraviglioso. All’apertura della porta, dire che Renato rimase senza parole è poco per descriverne l’emozione. Dovette restare sulla porta mentre Ambrogio strisciava carponi nell’unico cunicolo che ammetteva la presenza di un unico operatore; tanto era stata la capacità di occupare ogni centimetro quadrato della superficie utile. Renato non riuscì a realizzare subito il numero dei convogli presenti e la sua immaginazione di fisico, abituato più a pensare a sistemi complessi che a realizzarli superando le difficoltà pratiche si fermava quando cercava di immaginare le quantità innumerevoli dei collegamenti elettrici che fornivano l’energia, in maniera completamente nascosta, in tutti gli angoli della “creatura”. Immerso nel suo stupore non si accorse nemmeno che l’amico era uscito di nuovo dal cunicolo e gli si era affiancato iniziando a parlargli.
Il “problema di lusso“ era questo: il padre, dopo aver acconsentito che il figlio sfogasse nel modo più completo la sua immaginazione creativa, aveva ora deciso di riportarlo a terra dicendogli che era giunta l’ora di entrare in azienda. Per favorirne la maturazione professionale aveva inoltre deciso di inviarlo lontano dall’Europa dove erano presenti alcuni stabilimenti del suo impero industriale. Ambrogio aveva cercato di spiegargli che ciò avrebbe vanificato i suoi anni di impegno e di sforzi spesi per la creazione del giocattolo. Se non seguito e fatto funzionare regolarmente ogni giorno per parecchie ore, mantenuto, migliorato, ampliato si sarebbe ridotto in breve a un ammasso di ferraglia inutile e ingombrante. Il padre, uomo di soluzioni pratiche quando era determinato a raggiungere i propri scopi, gli aveva risposto:” Non c’è problema, cercati una persona di fiducia per serietà e competenza e te lo assumi. Gli puoi anche dire di venire ad abitare qui con la famiglia, così il tuo giocattolo sarà sempre al sicuro, seguito e ben protetto”. Ambrogio, pur apprezzando l’approccio paterno, era però perplesso al pensiero di abbandonare un suo mondo anche se non riusciva nemmeno ad immaginare di poter dire di no al padre. Così, quel mattino, era andato a parlare con un conoscente alla Camera di Commercio di Torino per ottenere qualche segnalazione e non gli parve vero di incontrare Renato, subito pensando a lui come alla soluzione del suo problema. Di qui tutta la sua benevola manovra con l’approccio e l’invito entusiasta a vedere “ la meraviglia”.
Renato preso da passione anche lui per quel sogno che vedeva lì realizzato, anche se capiva che gli si stava presentando una soluzione ai problemi personali che gli stavano venendo incontro, rimase tuttavia un po’ perplesso di fronte all’offerta dell’amico. C’era tutta una serie di indubbi vantaggi materiali, stipendio, abitazione e così via, che gli avrebbero consentito, tra l’altro, di mettere su casa in tempi brevi. Dal punto di vista professionale, dire che quello era lo scopo della sua laurea in Fisica era duro. C’erano sì degli addentellati con le competenze maturate negli studi, c’era l’indipendenza, il non dover entrare a far parte di un’organizzazione gerarchica con ventimila capi sulla testa, ma d’altro c’era veramente poco! Poi, però, mentre ci pensava a poco a poco l’idea di passare le giornate con il giocattolo lo prese sempre di più: insomma, finì con l’accettare!
Iniziò così questa nuova fase della vita di Renato che trasferì armi e bagagli nel palazzo signorile dell’amico, ci portò la ragazza e iniziò a trascorrere le giornate dentro la stanza del giocattolo immedesimandosi sempre più nel rapporto col plastico che doveva seguire in tutto e per tutto, come si fa con un bambino al quale non bisogna far mancare nulla.
All’inizio Ambrogio gli telefonava ogni sera da angoli del mondo diversi e i due amici si divertivano ripercorrendo le tappe delle giornate vissute da Renato. Poi, a poco a poco, anche le telefonate di Ambrogio finirono e Renato si trovò solo colla sua creatura. Anche i rapporti con la moglie, per quanto sinceri e meravigliosi, non dovevano intaccare più che tanto le esigenze di impegno temporale richieste per sovrintendere al megaplastico. Il padre di Ambrogio, che ogni tanto incontrava per le scale, gli chiedeva qualche notizia qua e là senza mettere mai piede per vedere le cose con i propri occhi. Nel caso occorressero nuove attrezzature, nuovi componenti per sostituire quelli usati, Renato non doveva far altro che contattare i fornitori e tutto arrivava celermente a spese dell’azienda.
Trascorsero così un paio di decenni senza che il nostro nemmeno se ne accorgesse : parecchie furono le migliorie da lui apportate ed il plastico cominciò a svilupparsi per piani sovrapposti con i binari in salita tra l’uno e l’altro per permettere sempre nuove variazioni. Renato gestiva la cosa in modo completamente autonomo, appassionandosi come avrebbe fatto Ambrogio, forse di più. Anche la moglie si sentiva trascurata, talvolta, a causa di quella passione che non conosceva soste né feste, né stagioni.
Una mattina Renato uscendo dalla zona residenziale dell’appartamento andava verso la porta della stanza dove viveva il giocattolo per iniziare a svegliarlo. Avvicinandosi vide nella penombra una sagoma nella quale riconobbe, dopo tanti anni, l’amico. I due, ormai con qualche filo argenteo tra i capelli, si lanciarono l’un contro l’altro, abbracciandosi con calore. “ Tu qui? Dopo tanto tempo? Così all’improvviso ! Come mai?”, iniziò Renato. Ambrogio spiegò con un velo negli occhi che, dopo un primo periodo di ascesa folgorante nell’azienda del padre e di soddisfazioni personali anche per un ottimo matrimonio in una grande città degli Stati Uniti e con dei figli meravigliosi, improvvisamente il vento era cambiato. La splendida moglie gli era stata portata via da una crudele malattia, così aveva dovuto affidare i figli alla suocera anche perché il lavoro nel quale si era ulteriormente rifugiato non gli consentiva altra soluzione. Nel tempo però anche il legame con i figli si era affievolito e lui, che non si sentiva capace di cercare di costruire nuovamente un rapporto con un’altra donna, a poco a poco, si era trovato solo. Gli era tornato così in mente il “suo giocattolo “, aveva cominciato a pensare alle giornate che Renato trascorreva con la “ sua “ passione, si era distaccato dal lavoro e aveva chiesto al padre di rientrare. Adesso non aveva altra ambizione che quella di riprendere il “ suo “ posto con il “ suo “ giocattolo, fin da subito, da quella mattina stessa. Per quanto riguardava Reanto, il padre gli aveva promesso una soluzione che non lo avrebbe deluso; per il momento, pregandolo di restituirgli la chiave della stanza, gli disse anche che non aveva bisogno di nulla, che trascorresse la giornata nell’enorme living dove poteva seguire i programmi televisivi.
Renato guardava stranito l’amico che parlava, capì di non poter in alcun modo osteggiarne i propositi, riscoprì all’improvviso ciò che aveva sempre saputo ma che negli anni aveva dimenticato: il giocattolo non era suo, era di Ambrogio! Con un po’ di morte nel cuore e tanta delusione porse la chiave all’amico e si ritirò nel living dicendogli di non preoccuparsi, una soluzione si sarebbe trovata.
Se ne andò in un angolo del locale e accese un apparecchio televisivo che non apparteneva alla dotazione fantastica dell’alloggio: era quello che anni prima si era portato via dalla sua stanza di giovanotto, senza saper nemmeno il perché. Non lo aveva più utilizzato ma era tuttora efficiente. Si adagiò in un divano e guardò. Scoprì così attraverso i canali televisivi una serie di cose nuove, perso di vista dietro al suo giocattolo, anzi al giocattolo di Ambrogio. Panorami, storie fantastiche, gossip, tutte cose che non sapeva più nemmeno esistessero. La prima mezz’ora stette con l’orecchio teso sperando che l’amico lo chiamasse per un ragguaglio, una richiesta di aiuto per qualcosa. Nulla! Così si sprofondò completamente nel divano e facendo zapping capitò in un canale ove si raccontava una storia con un’attrice che assomigliava in modo impressionante a sua moglie. Narrava la vicenda di una donna che si sentiva trascurata dal marito del quale si percepiva la presenza solo attraverso i rumori provenienti da un’altra stanza con la porta chiusa. In un altro canale assisté alla storia di due ragazzi benestanti che lamentavano però la scarsa presenza del padre nei loro problemi a causa del suo impegno professionale. Trascorse insomma la giornata appassionandosi sempre più a quel mondo, nuovo per lui, che gli si stava presentando attraverso la televisione. Del giocattolo o di quel che stesse facendo Ambrogio nell’altra stanza si dimenticò e non si rese nemmeno conto della sera che avanzava.
A termine giornata inoltrato, Ambrogio uscì dalla stanza del suo giocattolo e, prima di andarsene dall’alloggio, si avvicinò al living dove Renato era ancora preso dalla sua nuova fantastica avventura. Voleva salutarlo, ringraziarlo per come aveva trovato e anche migliorato il giocattolo;vide che l’amico era completamente assorto nella visione delle nuove realtà scoperte, non volle disturbarlo, andò in punta di piedi all’ingresso dell’alloggio, aprì pian piano la porta ed uscì.